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Storia d'Italia, Volume 7, 1919-1936

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Page 1: Storia d'Italia, Volume 7, 1919-1936

Piano dell'opera:

STORIA D'ITALIA Voi. I

476-1250

STORIA D'ITALIA Voi. II

1250-1600

STORIA D'ITALIA Voi. I l i

1600-1789

STORIA D'ITALIA Voi. IV

1789-1831

STORIA D'ITALIA Voi. V

1831-1861

STORIA D'ITALIA Voi. VI

1861-1919

STORIA D'ITALIA Voi. VII

1919-1936

STORIA D'ITALIA Voi. VIII

1936-1943

STORIA D'ITALIA Voi. IX

1943-1948

STORIA D'ITALIA Voi. X

1948-1965

STORIA D'ITALIA Voi. XI

1965-1993

STORIA D'ITALIA Voi. XII

1993-1997

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M O N T A N E L L I C E R V I

STORIA D'ITALIA 1919 1936

INDRO MONTANELLI

L'ITALIA IN CAMICIA NERA Dal 1919 al spennalo 192$

INDRO MONTANELLI | MARIO CERVI

L'ITALIA LITTORIA Dal 1925 al 1936

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STORIA D'ITALIA Voi. VI I

EDIZIONE PER OGGI pubblicata su licenza di RCS Libri S.p.A., Milano

© 2006 RCS Libri S.p.A., Milano

Questo volume è formato da:

Indro Montanelli LItalia in camicia: nera

© 1976 Rizzoli Editore, Milano © 1999 RCS Libri S.p.A., Milano

Indro Montanelli - Mario Cervi Eltalia littoria

© 1979 Rizzoli Editore, Milano © 1999 RCS Libri S.p.A., Milano

Progetto grafico Studio Wise

Coordinamento redazionale: Elvira Modugno

Fotocomposizione: Compos 90 S.r.l., Milano

Allegato a OGGI di questa settimana NON VENDIBILE SEPARATAMENTE

Direttore responsabile: Pino Belleri RCS Periodici S.p.A. Via Rizzoli 2 - 20132 Milano

Registrazione Tribunale di Milano n. 145 del 12/7/1948

Tutti i diritti di copyright sono riservati

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~Y~^alla violenta irruzione del fascismo nella vita politica italia-m mna, alla sua trasformazione in regime, alla sua conquista to-

JL^r tale dello Stato e dei suoi apparati, a quelli che Renzo De Fe­lice definì «gli anni del consenso», alla vittoriosa impresa d'Abissi-nia, alla proclamazione dell'Impero. Questi anni di storia d'Italia coincidono con la vicenda personale di Benito Mussolini - un oscu­ro maestro di provincia che era stato, di volta in volta, un agitatore socialista, un deciso avversario della campagna libica, un ecceziona­le giornalista, un convinto interventista, un irriducibile avversario dei socialisti e della sinistra rivoluzionaria nell'immediato dopoguer­ra. Mussolini conquista il potere attraverso un simulacro di rivolu­zione che sarebbe stato facilissimo evitare se ciò che rimaneva dello Stato liberale e Casa Savoia avessero avuto il coraggio di ordinare all'esercito di disperdere la massa sbandata di camicie nere che mar­ciava su Roma forte solo della altrui debolezza. Così non fu e Mus­solini prese il potere, benedetto anche da quei liberali che pensavano di servirsene e poi di scaricarlo. Si sbagliarono: Mussolini era un animale politico dal fiuto incredìbile. Si impadronì dello Stato, so­pravvisse alla crisi del delitto Matteotti, istituì di fatto il regime con il famoso discorso del 3 gennaio 1925, avviò una politica economica che diede buoni risultati, avviò la grande stagione delle opere pub­bliche (soprattutto la bonifica dell'Agro Pontino), istituì lo Stato cor­porativo... In Europa e nel mondo personaggi insospettabili (Chur­chill, per esempio) lo ammiravano e stimavano, l'opposizione antifa­scista era, come disse Giorgio Amendola, ridotta a un pugno di idea­listi perseguitati in Italia e all'estero. Mussolini avrebbe potuto co­gliere quel momento per giungere a una pacificazione definitiva del Paese (perfino i suoi oppositori più strenui sembravano rassegnati

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ad accettarla), invece, inebriato dal successo della guerra d'Africa,

si illuse che l'Italia fosse una grande potenza militare e su questo, co­

me un giocatore d'azzardo, puntò tutto: nel giro di pochi anni avreb­

be perso tutto e condotto alla rovina l'Italia.

INDRO MONTANELLI (Fucecchio 1909 - Milano 2001) è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Laureato in legge e in scienze politiche, inviato speciale del «Corriere della Sera», fonda­tore del «Giornale nuovo» nel 1974 e della «Voce» nel 1994, è tor­nato nel 1995 al «Corriere» come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre c inquanta libri. Tra i suoi ultimi successi, tutti pubblicati da Rizzoli, ricordiamo: Le stanze (1998), Lltalia del Nove­cento (con Mario Cervi, 1998), La stecca nel coro (1999), Lltalia del Millennio (con Mario Cervi, 2000), Le nuove stanze (2001).

MARIO CERVI è nato a Crema (Cremona) nel 1921. Laureato in leg­ge, ufficiale di fanteria duran te il secondo conflitto mondiale, per molti anni è stato inviato speciale del «Corriere della Sera», arti­colista e inviato del «Giornale» e della «Voce». E stato di re t tore del «Giornale» dal 1997 al 2001. Tra le sue opere ricordiamo Sto­ria della guerra di Grecia (1965; ed. BUR 2001), Mussolini - Album di una vita (Rizzoli 1992), / vent'anni del «Giornale» di Montanelli (con Gian Galeazzo Biazzi Vergani, Rizzoli 1994).

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Indro Montanelli

L'ITALIA IN CAMICIA NERA

(1919-3 gennaio 1925)

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AVVERTENZA

Sebbene io non dia molta importanza alla cosiddetta «periodizzazio-ne», mi è parso giusto racchiudere in un volume la vicenda della conquista del potere da parte di Mussolini dalla fondazione dei Fa­sci (1919) alla instaurazione della, dittatura (3 gennaio 1925), e non alla marcia su Roma, che dì quella conquista fu soltanto un episodio. La vera «svolta» infatti non fu quella, come credo di aver spiegato in questo libro, ma il discorso col quale, dopo le convulsio­ni provocate dal caso Matteotti, il riluttante Mussolini liquidò il vecchio regime e ne fondò, o credette di fondarne, uno nuovo.

Naturalmente questo non è che il prologo alla storia dell'Italia fascista, e ne prevede la continuazione. Ma non so più quando po­trò darla al lettore. Scrivo queste parole alla vigilia del 20 giugno [1976], e molto dipende - si capisce- dall'esito di queste terrìbili elezioni. Ma in qualunque modo vadano, la situazione a cui da­ranno avvìo è certamente di quelle che concederanno ben scarso margine per lo studio e la riflessione a un giornalista impegnato co­me me nella battaglia politica, fino alla cima dei capelli.

Non so quindi, caro lettore, quando torneremo a incontrarci sul banco di libreria. Ma sappi che la mia non è una diserzione; è solo un trasferimento - speriamo temporaneo - di "servizio" in zona più disagiata.

I. M.

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CAPITOLO PRIMO

L'UOMO N U O V O

Il 31 d icembre del 1920, moki italiani de t te ro addio all 'an­no che finiva convinti che con quello nuovo sarebbe comin­ciata la «normalizzazione». La crisi economica e r a t u t to ra acuta. Le industr ie stentavano a riconvertirsi alla produzio­ne di pace ed e rano minacciate dalla penur ia di materie pri­me , e specialmente del carbone, pe rché i Paesi fornitori ne avevano ridott i gli approvvigionament i . La spinta inflazio­nistica, con la conseguen te svalutazione della mone t a , e ra forte, e soprat tut to le categorie a reddi to fisso ne e rano gra­vemente colpite. Lo Stato era indebitato fino al collo. La di­soccupazione in aumen to . Ma sei mesi pr ima era tornato al governo Giovanni Giolitti. E tutti pensavano che il vecchio navigatore n o n avrebbe r ipreso il t imone della barca se n o n fosse stato sicuro di poter la r imet tere in rotta.

Sebbene avesse già settantotto anni e gli ultimi sei li aves­se quasi tutti trascorsi nel suo rifugio piemontese al di fuori della mischia, Giolitti d imost rava , o l t re alla solita assoluta p a d r o n a n z a della «macchina» governativa, il fiuto e il tem­pismo dei suoi giorni migliori . Le elezioni amminis t ra t ive da lui indet te in a u t u n n o avevano segnato lo stallo, e qua e là il declino dei socialisti, che dalla fine della g u e r r a in poi avevano t e n u t o in subbugl io il Paese coi loro scioperi sel­vaggi, le loro violenze, il loro insurrezionalismo velleitario e parolaio. E il 4 novembre le cer imonie pe r il secondo anni­versario della vittoria, che l 'anno pr ima Nitti si e ra rifiutato di celebrare pe r paura di disordini sovversivi, si e r ano svol­te so lennemente e senza incidenti.

Ma la p rova p iù conv incen te della genera le volontà di

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pace l'aveva offerta la l iquidazione del l 'avventura fiumana. Nitti n o n aveva osato scacciare D 'Annunzio dalla città: e ra sicuro che non solo i nazionalisti avrebbero messo a soqqua­d ro le piazze, ma che anche l'Esercito, o a lmeno alcuni suoi r epa r t i , av rebbero d isobbedi to e solidarizzato col Poeta. Giolitti r i tenne che questo pericolo fosse ormai dileguato, e i fatti gli det tero ragione. Q u a n d o il generale Caviglia gl'in-giunse di sgombrare la città, invano il Poeta lanciò un d ram­matico appello all'Italia perché scendesse pe r le s trade a im­ped i re il «Natale di sangue» o a vendicarlo. Stanca dei suoi istrionismi, l'Italia n o n si mosse, i soldati fecero il loro dove­re , e il Poeta dovet te ma l incon icamente r i t i rarsi nella sua villa di Gardone biasciando invettive contro u n a patr ia a cui le feste sembravano stare più a cuore dell ' i talianità di Fiu­me.

Quest 'ul t ima mossa, che ci riaccreditava presso gli Alleati e segnava la fine di una pericolosa tensione con la Jugosla­via, Giolitti n o n l 'aveva tut tavia improvvisata . Essa era il frutto di u n a lunga e delicata manovra sotto banco, intesa a isolare D'Annunzio da Mussolini. Questi era stato, a lmeno a parole , i l più g r a n d e sostenitore del l ' impresa fiumana. Ma Giolitti si era accorto che si trattava a p p u n t o solo di parole. In realtà Mussolini aveva dato a D'Annunzio il suo appog­gio p e r c h é ques to at t i rava mol te rec lu te sotto la b a n d i e r a della forza politica ch'egli aveva cominciato a organizzare fin dal marzo del ' 19: il Fascio. Ma di D'Annunzio voleva ser­virsi, non servirlo. Per cui dappr incipio agì come suo luogo­tenente; ma poi, via via che la sua forza cresceva e gli entu­siasmi pe r F iume s ' int iepidivano, cominciò a p r e n d e r e da lui le distanze, anche se non scopertamente.

Di questa complessa vicenda, d a r e m o maggior i dettagli più avanti. Ma pe r ora si può , all 'ingrosso, r iassumerla così. La p r ima seria frizione fra i d u e uomini avvenne al momen­to del t ra t ta to di Rapal lo che lasciava la Dalmazia - m e n o Zara - alla Jugoslavia, e faceva di F iume u n a «città libera», cioè un piccolo Stato ind ipendente . Mentre D'Annunzio de-

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finiva questo trat tato «un t radimento», Mussolini sul Popolo d'Italia lo salutava come «il minore dei mali». Questo gli val­se la defezione di alcuni seguaci, indignati dal «voltafaccia», ma gli p rocurò un alleato, Giolitti, che della ro t tu ra fra i d u e uomini approfit tò pe r isolare e l iquidare quello ch'egli con­siderava il p iù pericoloso. Na tu ra lmen te Mussolini insorse contro il «Natale di sangue» e denunziò con parole di fuoco il «fratricidio». In realtà era ben contento della ingloriosa fi­ne del l 'avventura f iumana, che lo liberava di u n o scomodo alleato e di un pericoloso rivale.

A Mussolini , Giolitti n o n dava mol ta i m p o r t a n z a . Era convinto che il suo Fascio non fosse che u n o dei tanti «grup­puscoli» nati nel disordine del d o p o g u e r r a e destinati a dis­solversi con la normalizzazione. Anzi si p r o p o n e v a di stru­mentalizzarlo pe r tenere in rispetto i socialisti. E lo disse an­che a Sforza, che invece se ne mostrava preoccupato: «Sono dei fuochi d'artificio, che fanno molto r u m o r e ma si spen­gono rapidamente».

E mai pronostico ebbe u n a più clamorosa smentita. Benito Mussolini era nato nel l"83 a Dovia, u n a frazione

di P redapp io in quel di Forlì. Suo p a d r e Alessandro veniva da u n a famiglia di piccoli coltivatori d i re t t i che , anda t i in rovina, avevano dovuto vendere il podere , e gestiva un'offi­cina di fabbro, ma ci si dedicava poco, tut to preso com'e ra dalla politica. Militava nel pa r t i to socialista, che al lora si chiamava «internazionalista» e che ancora non si e ra libera­to dalla sua mat r ice anarchica . Di ques ta mat r ice por tava egli stesso ben visibili le stigmate nel suo acceso massimali­smo, che gli valse p r ima l'ammonizione, eppoi la pr igione pe r sei mesi . A m m i r a t o r e di Costa e di Cipr ian i , ebbe anche qualche par te nella politica locale fino a diventare prosinda­co. Ma come pad re di famiglia lasciava piuttosto a desidera­re. A mandar la avanti provvedeva la moglie, Rosa Maltoni, che faceva la maestra e lementare e teneva scuola in casa, in u n a stanzuccia annessa alla cucina. Di es t razione e forma­zione piccolo-borghese, essa era l'antitesi del mari to: devota

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alla Chiesa e attaccata a l l 'ordine tradizionale. Aveva voluto il m a t r i m o n i o religioso (e Alessandro se n ' e ra scusato coi compagni d icendo: «Sono un ateo, ma un ateo innamorato») e il battesimo dei figli. Ma, quanto alla loro educazione, ave­va lasciato fare al mari to.

Molti storici d icono che Alessandro contò mol to p e r la formazione di Beni to . Ma ques to ci s embra che valga solo pe r il carat tere, i cui segni ereditari sono evidenti. Lo stesso nome gli fu dato in omaggio a Benito Juarez , il rivoluziona­rio messicano che pochi anni p r ima aveva fatto fucilare l'im­pera tore Massimiliano, così come suo fratello ebbe quello di Arna ldo in omaggio ad Arna ldo da Brescia. Ma sul p i ano ideologico non si vede che cosa Alessandro potesse insegna­re a l figlio p e r c h é nella sua testa c 'era sol tanto u n a g r a n confusione, come risulta dai pochi scritti in cui si c imentò, e nei quali si leggono pensieri di questo genere : «Il socialismo è la scienza e l'excelsior che il lumina il m o n d o . E u n a subli­me a rmonia di concetti, di pensiero e d'azione che precede al g ran car ro de l l ' umano progresso nella sua marcia tr ion­fale verso alla gran méta del bello, del giusto e del vero».

Molto più che di questi aforismi, il r ivoluzionar ismo di Mussolini dovette nutr i rs i della miseria e delle frustrazioni che lastricano la sua fanciullezza e adolescenza. Sua sorella Edvige racconta che il bambino rimase mu to fino a tre anni , t an to che lo p o r t a r o n o da un do t to re , i l quale avrebbe ri­sposto: «Parlerà, state tranquilli, par lerà anche t roppo»: un o roscopo che ci s embra un po ' cost rui to a posteriori, e che c o m u n q u e dapp r inc ip io n o n t rovò conferma. Fino all 'età dei panta loni lunghi , il ragazzo par lò poco e quasi soltanto sotto lo stimolo dell'ira. Solitario e scontroso, trascorreva le sue giornate sui campi senza altri r appor t i coi suoi coetanei che di risse e cazzottate. Q u a n d o tornava pesto a casa, suo p a d r e l'aizzava a vendicarsene. E questi furono i veri influs­si ch'egli esercitò su di lui.

Per fargli finire le e lementar i , sua m a d r e dovette metter­cela tutta. Dopodiché essa esigette che il ragazzo fosse man-

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dato al collegio dei salesiani di Faenza, il quale provvide a da re l 'ultimo ritocco alla sua protervia. Abituato a do rmi re col fratello in cucina su un materasso imbotti to di foglie di g ran turco e a mangiare matt ina e sera u n a zuppa di piada e di ve rdura , Benito soffrì n o n della ferrea dieta del refetto­rio e del p a n e p i eno di formiche, ma della divisione della mensa in tre repar t i secondo la classe sociale degli allievi, e della sua relegazione in quella dei poveri . N e m m e n o fra di essi si fece degli amici. Per i suoi cont inui atti di r ibell ione passò da un castigo all 'altro, finché un giorno ricorse al col­tello ficcandolo nella coscia d ' un compagno . E fu espulso.

A cont inuare gli studi lo m a n d a r o n o al «Giosuè Carduc­ci» di Forlimpopoli , diret to dal fratello del poeta , Valfredo. Benito ci arrivò con l 'aureola dell 'accoltellatore, che in Ro­m a g n a è s e m p r e mol to apprezza ta , ci r imase sette ann i , e ne uscì nel '901 col d ip loma di maes t ro . Anche qui trovò il m o d o di farsi espellere p e r indisciplina; ma Carducci , che aveva un debole pe r lui, gli consentì di seguitare a frequen­tare le lezioni come «esterno». Dalle test imonianze dei suoi compagni di scuola, risulta ch'egli non ne cercò mai l'amici­zia, ma solo la sottomissione. N o n voleva essere amato , ma solo t emuto e ammira to , e pe r questo r icorreva a gesti tea­trali come quando , incaricato dagl ' insegnanti di commemo­r a r e Verdi , ne p re se s p u n t o p e r u n o sp ro loqu io polit ico cont ro la borghesia e il capitalismo che mise nei guai il po­vero Carducci. Come profìtto, se la cavava abbastanza bene , ma senza molto applicarsi. Fin da allora rivelava u n a straor­dinaria facilità a impadroni rs i subito d ' un a rgomento r idu­cendo lo all 'essenziale: il che gli evitava Io sforzo di ap ­profondi r lo . Ma sui libri di testo ci stava poco. Preferiva i romanzi , sopra t tu t to quelli «sociali» di scuola francese, da H u g o a Zola; e p e r leggerl i in pace si r i t i rava nella t o r r e campanar ia . Ma seguiva anche i giornali, q u a n d o riusciva a p rocurarsene .

Sui sedici anni prese contatto con la locale sezione socia­lista, ma non risulta che vi abbia militato at t ivamente. Infat-

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ti non ostentò mai il distintivo d'obbligo dei socialisti roma­gnoli: la cravatta rossa. Rimase sempre fedele a quella nera, ch 'era il distintivo, a l t re t tanto d 'obbligo, dei repubbl icani . Anche come le t ture , alla politica n o n dedicava molto tem­po, forse svogliato dai cattivi compendi di marxismo che suo p a d r e gli aveva propina to da bambino, e oltre i quali sareb­be anda to poco anche da grande . Il suo socialismo era quel­lo de / miserabili, nonché degli opuscoli e degli articoli di Co­sta, di Cafiero, di Cipr ian i e degli altri «internazionalisti» che allora andavano pe r la maggiore . Forse l 'unico classico del socialismo che gli e n t r ò nel sangue come il p iù conge­niale fu Babeuf, di cui lesse quasi tut to e su cui compose an­che delle cattive poesie di s t ampo carducciano. Come n o n ebbe amici, così n o n ebbe amori . La sua scuola di galanteria fu il bordel lo , di cui conservò s e m p r e lo stile grossolano e spicciativo. Orgoglioso della p r o p r i a virilità, la trovava in­compat ibi le con l ' a b b a n d o n o e la tenerezza . Delle mol te d o n n e della sua vita, n o n si concesse a nessuna, t r anne for­se l 'ul t ima, Claret ta . Le p r e n d e v a come il gallo p r e n d e la gallina.

Il d ip loma di maes t ro con cui to rnò a casa nel '901 non gli servì a t rovare un posto. Cercò di r enders i utile d a n d o u n a mano al p a d r e nell'officina, ma con poco costrutto per­ché en t r ambi detes tavano il lavoro; e in tan to p r e n d e v a le­zioni di violino da un maes t ro locale, un certo Montanell i , che bene o male gl ' insegnò a str impellarlo. Sebbene segui­tasse a proclamarsi socialista, attività politica non ne svolse. Le sue ambizioni s embravano più che al tro le t terar ie per ­ché la maggior pa r te del t empo lo passava a bu t ta r giù ab­bozzi di romanzi che poi lasciava regolarmente a mezzo. Fi­na lmente il c o m u n e socialista di Gualtieri gli offrì u n a sup­plenza, che gli servì solo a capire di essere poco vocato alla pedagogia. Alla fine del l 'anno scolastico egli scrisse all 'unico compagno di scuola con cui era rimasto in corr ispondenza, Bedeschi, che lasciava il posto pe rché non lo pagavano ab­bastanza. Ma mentiva. Non gli r innovavano l'incarico per -

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che, appena arrivato, aveva sedotto u n a giovane sposa che, cacciata di casa dal mari to , era andata a vivere con lui: cosa che aveva scandalizzato anche i socialisti, p ropugna to r i del libero amore , pu rché praticato lontano dalle loro mogli.

Fu allora che decise di emigrare in Svizzera.

Vi g iunse nell 'estate del '902, e ci r imase quasi d u e ann i e mezzo, salvo un breve r impatr io pe r u n a malattia di sua ma­dre . Fu, pe r la sua formazione, un per iodo impor tan te , ma non pe r l 'esperienza proletaria vissuta e sofferta deliberata­m e n t e , come d icono alcuni suoi apologet i . Mussolini fece anche il manovale, il magazziniere e altri umili mestieri per­ché le circostanze qua lche volta ve lo cos t r insero . Ma in realtà sin dapprincipio egli cercò di met tere a frutto la p ro ­pr ia superior i tà d' intelletto e di cul tura sugli altri emigrat i - povera gente analfabeta o semianalfabeta - dandosi ad atti­vità organizzative e propagandis t iche. Che la politica segui­tasse a interessarlo relativamente, lo dimostra il fatto ch'egli n o n cercò contatti con l 'ambiente internazionale dei rivolu­zionari europei , che allora avevano in Svizzera u n a delle lo­ro più fiorenti centrali . Fra gli altri c 'era anche Lenin , con cui pa re che u n a volta si sia incontrato ma senza sapere chi fosse pe rché por tava un altro n o m e . Mussolini non era at­tratto dai loro problemi dottr inari . Voleva soltanto risolvere quello suo personale con qualche attività che lo esentasse dal lavoro manuale . E perciò prese contatto col sindacato italia­no dei mura tor i da cui ebbe un sussidio, e col giornale L'av­venire del lavoratore, di cui o t tenne la collaborazione. Furono questi i pr imi effettivi r appor t i ch'egli strinse col part i to so­cialista, e lo fece pe r sbarcare il lunario. I proventi che ne ri­cavava e r a n o scarsi. Ma ebbe m o d o di rivelarsi anche a se stesso, come un efficace comiziante e un polemista incisivo. Sebbene poveri di contenuto e ancora pieni di smagliature, sul livello medio della pubblicistica socialista di allora, i suoi articoli facevano spicco per concretezza e polposità.

Un incidente contribuì a r ende re vieppiù popolare il suo

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n o m e . Dopo un comizio a B e r n a in cui aveva incitato alla violenza, fu arrestato e d o p o d u e set t imane di pr igione ac­compagnato alla frontiera. Ma in Svizzera le misure di poli­zia h a n n o vigore soltanto «cantonale», cioè regionale . Sic­ché l 'espulso potè r i en t ra re da un altro Can tone , quello di Losanna, dove lo richiamava u n a bella s tudentessa polacca con cui aveva intrecciato relazione. E fu qui che to rnò d o p o il breve r impatr io pe r la malattia di sua madre . In Italia n o n voleva res tare pe r ché di lì a qualche mese la sua classe sa­rebbe stata chiamata di leva, ed egli aveva deciso di non p re ­sentarsi pe r manifestare pubbl icamente i l suo antimili tari­smo. Infatt i nel l 'apr i le del '904 fu d ich ia ra to d i se r to re e condanna to a un anno di reclusione.

Un altro episodio che contribuì alla sua popolar i tà fu un pubblico cont raddi t tor io con un pas tore pro tes tante sull'e­sistenza di Dio. Raccolti in opuscoli , gli a rgoment i addot t i da Mussolini pe r negar la appa iono ben povera cosa. Ma ce ne fu u n o che trascinò dalla sua l 'uditorio. Cavando di tasca l 'orologio, egli gr idò: «Se Dio c'è, gli dò d u e minut i di tem­po pe r fulminarmi». E incrociando le braccia attese, impavi­do e tea t ra le , la folgorazione. Riscosse invece, al t e r m i n e della suspense, u n o scrosciante app l auso . Fu u n o dei suoi p r imi riusciti e spe r imen t i di mag ìa ora tor ia , che gli valse anche u n a qualifica di «esperto» di questioni religiose.

In aprile fu di nuovo espulso perché , essendogli scaduto il passaporto e non po t endo r innovarlo pe r la sua condizio­ne di disertore, ne aveva falsificato la data. Stavolta doveva­no consegnar lo alla polizia italiana, che lo avrebbe avviato alla pr igione. Ma a p p u n t o pe r questo i «compagni», sia ita­liani che svizzeri, organizzarono tali manifestazioni di p ro ­testa anche sulla s t ampa e in Pa r l amen to che la misura fu revocata, e il r ep robo , d o p o un breve soggiorno in Ticino e in Savoia, po tè to rna r sene a Losanna . Fu quella - dirà più tardi nel breve saggio autobiografico scritto nel carcere di Forlì - «un'estate di forte occupazione intellettuale». Mante­nendosi alla meglio col solito lavoro propagandist ico e inte-

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grandone gli scarsi proventi con saltuari impieghi, s'iscrisse all 'Università pe r seguire i corsi di Vilfredo Pareto, il gran­de economis ta e sociologo i tal iano che so t toponeva a u n a critica demolitrice la democrazia e le ideologie che le fanno da s u p p o r t o . N o n è vero ch 'egl i ebbe r a p p o r t i d i re t t i col Maestro, come dicono alcuni suoi biografi. Lo smentisce lo stesso Pare to in u n a le t tera a Placci: «Mussolini v e n n e ai miei corsi, ma io n o n lo conobbi pe r sona lmen te» . E ve ro p e r ò che il giovanotto r imase for temente impressionato dal­le sue lezioni: n o n tanto forse pe r la profondità del pensiero eh 'egli n o n era in g r a d o di p e n e t r a r e , quan to p e r c h é esse fornivano un punte l lo dot t r inar io alle sue intuizioni. I l di­sprezzo pe r le teorie umani tar ie , la giustificazione della vio­lenza come forza motrice della Storia e il concetto che que­sta avesse a protagonis te le minoranze e n o n le masse, egli già li aveva nel sangue, ereditati dal padre . Ma Pareto glieli mise in bella copia, debi tamente autenticati sul p iano cultu­rale.

Ora n o n frequentava più soltanto i poveri manovali , ma aveva allacciato rappor t i con persone destinate a contare sul seguito della sua avventura politica. U n a di queste era Gia­cinto Menott i Serrati, un socialista di Oneglia di poca scuola e di scarse e abborracciate let ture, ma reduce da avventure alla Jack London . A vent 'anni era già delegato al p r imo con­gresso del par t i to , quello di Genova che aveva proc lamato la scissione dagli anarchic i , dei qual i egli fu poi s e m p r e il bersaglio. Lo consideravano un t radi tore e n o n smisero mai di denunziar lo come agente provocatore e delatore al servi­zio della polizia: un ' in fame ca lunnia . Tut ta la sua vita era stata un andir ivieni fra t r ibunale e pr ig ione , in t ramezzato da espatr i i e r impat r i i clandest ini . Aveva fatto il mozzo, lo scaricatore di por to a Marsiglia, il terrazziere nel Madaga­scar, il giornalista a New York, e finalmente e ra a p p r o d a t o in Svizzera in qualità di propagandis ta e organizzatore degli emigrati italiani. La sua amicizia con Mussolini - destinata a sfociare dieci anni più tardi nella più accanita e irriducibile

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inimicizia - nacque soprat tut to da una certa affinità di tem­p e r a m e n t o . Anche Ser ra t i e ra un au tod ida t t a e un massi­malista, senza originalità di pensiero e istintivamente avver­so ai Turat i , ai Treves e agli altri «intellettuali» del par t i to . Ma, a differenza di Mussolini, sapeva anche r idere , a lmeno fin q u a n d o n o n s ' impermaliva perché era suscettibilissimo e incapace di control lare i p rop r i furori. Un personaggio in­somma di mediocre levatura, ma rispettabile sul p iano uma­no: coraggioso, generoso, onesto, sincero. Lo dimost rò con Mussolini a iutandolo f ra ternamente a scalare nel part i to po­sizioni s e m p r e più alte, senza mai ingelosirsene, cosa r a r a fra i politici. Romperà con lui unicamente pe r ragioni ideo­logiche, e da allora gli sarà nemico nella stessa misura in cui gli era stato amico.

Un altro utile incont ro fu pe r Mussolini quello con An­gelica Balabanoff, pe r sonagg io già di notevole rilievo nel socialismo internazionale . Era u n a russa di b u o n a famiglia borghese , che fin da giovanissima si e r a imbranca ta con quella intellighenzia r ivoluzionaria da cui venivano anche i Lenin, i Trotzky, e gli altri futuri g rand i del bolscevismo. A sp ingerce la era stata la r ibel l ione con t ro la meschini tà , lo snobismo provinciale, il sussiego di casta, i tabù del suo ce­to. Essa stessa ha raccontato che, pe r u n a cerimonia nuziale, suo zio aveva fatto fermare un t reno pe r dare t empo agl'in­vitati di fare i br indis i d ' u so m e n t r e gli al tr i viaggiatori aspettavano rassegnatamente seduti sui loro bagagli. A ven­t idue anni era espatriata e aveva girovagato pe r i Paesi occi­dentali , guadagnandos i la vita come traduttr ice pe rché ave­va, come tutti i russi, g ran disposizione alle l ingue, e ne par­lava cor ren temente otto. Gli anni più felici li aveva trascorsi in Italia, dove fra l 'altro aveva seguito le lezioni di Antonio Labriola , il p iù serio i n t e rp re t e di Marx . Ma, a differenza della sua compatr iota Anna Kuliscioff con cui n o n fu mai in buon i rappor t i nonostante la comuni tà di origine e di idee, n o n era soltanto un' intel let tuale del socialismo. Lo pratica­va da militante, vivendo da proletaria fra i proletari .

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Fu così che nel 1902, men t r e teneva a Ginevra un picco­lo comizio a un g r u p p o di emigra t i italiani, vide fra i suoi ascoltatori un giovanotto dagli occhi sbarrat i e dal volto ca­daverico sotto la barba mal rasata. Scesa dal podio, volle co­noscerlo. Mussolini le si p resentò come un disperato, mina­to dalla sifilide e da u n a tabe eredi tar ia , e incapace di sop­por ta re qualsiasi lavoro. Non si è mai saputo con certezza se la sifilide l'avesse davvero. Ma si sa ch'egli se ne faceva qua­si un van to , c o m e di u n a garanz ia di virilità e di successo con le d o n n e . Ad Angelica disse anche che gli avevano of­ferto c inquanta franchi pe r la t raduzione di un opuscolo di Kautsky, ma che doveva r inunziarc i pe r ché n o n conosceva abbastanza il tedesco. Angelica, che invece lo sapeva benissi­mo, si offrì di aiutarlo. E così fra i d u e nacque un'amicizia di cui è difficile stabilire l'esatta na tura .

Angelica n o n e ra bella, n o n aveva la grazia e t e rea ed esangue d i Anna. Ma n o n era n e m m e n o sgradevole, nono­stante i fianchi massicci e gli zigomi pronuncia t i , eppoi era russa, cosa che faceva g r a n d e effetto al piccolo provinciale di P r e d a p p i o . A n c h e se fra loro n o n d i v a m p ò la pass ione che aveva legato Anna ad A n d r e a Costa, qualcosa ci fu, ed ebbe la sua impor tanza . Angelica cercò d'incivilire quel sel­vaggio t r a sanda to che passava da ostinati mut i smi a inter­minabili sproloqui conditi di o r r e n d e bestemmie. Lo sfama­va, gli lavava la b iancher ia , lo iniziava, sia p u r e con poco successo, al marxismo, lo difendeva dalle accuse di un 'anar ­chica italiana, Maria Rygier, che lo detestava e diceva di aver le p rove ch'egli e ra al servizio della polizia francese: un 'ac­cusa che ogni poco sarebbe tornata a circolare contro di lui e che aveva lo stesso fondamen to di quella lanciata con t ro Serrat i . Tuttavia anche Angelica p i ano p iano si rese conto che nel socialismo di Mussolini pesava più l 'odio verso i ric­chi che l ' amore verso i pover i , m e n t r e Mussolini diceva di lei che «nel suo corpo i succhi circolano, ma nella sua men te le idee si disseccano».

Il fatto è che, p u r legato a lei sul piano umano , Mussolini

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repugnava alla sua ideologia. Dopo Pareto, le sue grandi sco­per te e rano Kropotkin e Sorel. Sono scelte significative. Kro-potkin era il g rande teorico dell 'anarchia che vede nel socia­lismo un figlio bas ta rdo e d e g e n e r a t o , e Sorel l 'esaltatore della violenza come «levatrice della Storia». Quest i incontri non r imasero senza effetti. Da allora egli cominciò a seguire con a t tenzione il mov imen to sindacalista r ivoluzionario e i suoi araldi: Ar turo Labriola, Olivetti, De Ambris, Panunzio, Corr idoni , Orano , alcuni dei quali r i t roveremo in posizione di precursori nel composito calderone fascista. Fin allora essi avevano militato come ala rivoluzionaria del part i to sociali­sta. Ma nel '904 ne uscirono e pe r accentuare la p ropr ia in­d i p e n d e n z a fonda rono un giornale , Avanguardia socialista. Mussolini cominciò a collaborarvi. Non risulta che s'iscrives­se al movimento. Ma che vi aderisse ideologicamente non c'è dubbio, ed egli stesso lo dichiarò in u n a lettera a Prezzoline

Alla f ine di que l l ' anno 1904 un fatto nuovo gli pe rmise di r i en t ra re in Italia. La Regina Elena aveva da to alla luce l 'erede al t rono , e come sempre capita in occasione di questi fausti eventi e ra stata p romulga ta un 'amnist ia di cui benefi­ciavano anche i disertori a pa t to che si presentassero al di­stretto. Mussolini decise di farlo. La famiglia, che passò a sa­lutare p r ima di rivestire i pann i militari, lo trovò poco cam­bia to : gli stessi occhi spir i tat i nel volto ossuto , pa l l ido ed e t e rnamen te mal rasato, la stessa scontrosità, gli stessi cupi silenzi interrot t i da scoppi di collera a base di turpi loquio.

Fu ar ruola to tra i bersaglieri e dest inato a un reggimento di Verona dove, su segnalazione della Ques tu ra di Forlì, lo t e n n e r o sotto s t re t ta sorveglianza. Ma la sua condo t t a fu esemplare. Di lì a poco ebbe u n a licenza pe r accorrere al ca­pezzale di sua m a d r e , ma n o n fece in t e m p o a veder la . Q u a n t o p rofondo fosse l'affetto che lo legava a lei, n o n si è mai saputo con certezza. Qua lcuno dice ch'egli l 'amava te­ne r amen te e ne subiva molto l'influenza, ma n o n ne esisto­no prove. Nel set tembre del 1906 te rminò la sua ferma sen­za il minimo incidente, tanto che insieme al congedo gli ri-

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lasciarono un certificato di «buona condotta»: a un amico, il quale lo aveva invitato a svolgere p r o p a g a n d a socialista fra i commilitoni, aveva scritto u n a lettera di rifiuto.

In famiglia si t ra t tenne d u e mesi, poi par t ì pe r Tolmezzo dove gli avevano offerto un posto di maest ro , e fu un altro fiasco. Per sua stessa ammissione, il futuro dit tatore n o n riu­scì a t ene re in p u g n o i ragazzacci che gli avevano affidato, ma forse n o n fu tanto mancanza di energia, quan to di voca­zione: alla scuola n o n era por ta to , e pe r di più anche a Tol­mezzo i ncappò in u n ' a v v e n t u r a galante che fece scandalo perché si concluse a bastonate fra lui e il mari to dell 'adulte­ra . Dovet te t o r n a r s e n e a Dovia e aspe t t a re il febbraio del 1908 pe r avere un altro incarico, stavolta a Oneglia.

E cur ioso che in tu t to ques to p e r i o d o egli n o n facesse nulla pe r allacciare r appor t i p iù stretti col par t i to , come se alla milizia politica repugnasse . Ma Onegl ia gli offrì nuove prospe t t ive . Il C o m u n e e ra re t to dai socialisti, e a farvi il b u o n o e il cattivo t empo e rano Manlio e Lucio Serrati , fra­telli del suo b u o n amico di Svizzera. Essi accolsero Mussoli­ni con calore, e Lucio, che dirigeva La Lima, lo invitò a col­laborarvi.

La Lima e ra u n a rivista scalcagnata, ma scrivere era p e r Mussolini l 'unico esercizio che ve ramente lo appassionasse. Al p u n t o che pe r gli articoli t rascurò come al solito gli allie­vi, e r iperse il posto. Siccome La Lima n o n pagava, p u r con­t i nuando a collaborarvi egli dovette t o rna re a casa, ma sta­volta n o n vi r imase a macerarsi in lunghe passeggiate solita­rie. Era in atto nelle campagne del forlivese u n a complicata faida fra mezzadri e braccianti pe r la gestione delle trebbia­trici. Mussolini v ' in te rvenne pa r t egg iando nei suoi articoli p e r i bracciant i , c h ' e r a n o l ' e l emento p iù t u rbo l en to ed estremista. Così si t rovò coinvolto in un tafferuglio che gli valse l 'arresto e u n a c o n d a n n a a dodici g iorni di pr ig ione , ma anche u n a certa popolari tà .

O r a i Mussolini n o n stavano più a Dovia perché Alessan­d r o si e ra consolato della sua vedovanza unendos i con u n a

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certa Anna Guidi con cui aveva aper to un'osteria a Forlì. Be­nito r imase con loro d u e mesi, sempre impegnato a scrivere n o n più pe r La Lima, ma pe r Pagine libere, u n a rivista che il sindacalista Olivetti pubbl icava a L u g a n o , e p e r il Pensiero romagnolo, o rgano della federazione repubbl icana , e occu­pandos i p iù di l e t t e ra tu ra che di politica. Infatti compose anche un lungo saggio sulla narra t iva di Beltramelli , che a dire il vero n o n rivela molto acume critico. Più interessante è u n a sua postilla a u n a conferenza di Treves su Nietzsche. Anni d o p o egli disse a un intervistatore che Nietzsche egli 10 aveva letto e p ro fondamente medi ta to in Svizzera. Ma fin allora non ne aveva mai par la to . E il sospetto che lo cono­scesse solo superf ic ia lmente e di seconda m a n o ci s embra confe rmato dai t r e articoli che gli ded icò su Pagine libere, piuttosto rozzi e approssimativi. Cer tamente gli piacque l'e-saltatore della forza e lo spregiatore della democrazia, quale egli stesso si sentiva. Ma altro non fu capace di vedere in lui. Tut tavia è significativo ques to passaggio: «Le o p e r e di Nietzsche mi h a n n o guari to del mio socialismo... Mi ha fatto part icolare impressione la frase: vivete pericolosamente».

Nel febbraio del 1909 par t ì pe r Tren to , e stavolta senza impegni scolastici. A quanto pa re e rano stati Serrati e la Ba-labanoff a p rocurarg l i la d i rez ione del per iodico socialista locale, LAvvenire del lavoratore. Fu la sua p r ima missione di par t i to , e n o n si p resen tava di facile assolvimento. T r e n t o al lora n o n e ra austr iaca solo p e r c h é c 'era un Prefet to d i Vienna. Lo era anche cul turalmente . I l par t i to di gran lun­ga più forte era quello «popolare», cioè cattolico, che aveva 11 suo leader in Alcide De Gasperi , depu ta to al Par lamento di Vienna e dire t tore del quot idiano // Trentino. La sua lotta in difesa dell'italianità della provincia n o n andava oltre l 'ambi­to amministrativo. I cattolici t rentini si bat tevano pe r l 'auto­nomia , n o n pe r la l iberazione dal «giogo austriaco», e p e r ques to la loro «base» e ra così forte: in sostanza e r a n o dei conservator i s t r e t t amen te legati ai po te r i costituiti, cioè al Vescovo e a l l ' Imperatore .

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I socialisti e r ano u n a esigua minoranza che faceva capo a Cesare Battisti e al suo giornale // Popolo; ma che , p iù che dal socialismo, t raevano la loro forza dal l ' i r redent ismo. La loro band ie ra era il tricolore anche se al posto dello s temma sabaudo av rebbe ro prefer i to la falce e mar te l lo . Ques to , i socialisti italiani n o n comprendevano , ma lo comprese Mus­solini, che a l l ' i r r eden t i smo n o n si conver t ì mai , ma se ne servì pe r i suoi fini di par te . Solo impos tando la lotta sul pia­no della difesa della l ingua e della cul tura italiana, si poteva sot t rarre il socialismo t rent ino all'influenza emolliente della socialdemocrazia tedesca, da un pezzo converti ta agl'ideali e alla pratica del riformismo e del par lamentar ismo. Perché le bestie n e r e di Mussolini segui tavano ad essere ques te : nella socialdemocrazia tedesca egli combatteva Bissolati, Tu­rati, Treves, insomma i «notabili» del socialismo italiano.

Ques ta c a m p a g n a egli la concluse con u n a violenza che get tò lo scompiglio nel l 'ambiente locale avvezzo a tut t 'al tro galateo polemico. «Pare che consideri la vita pubblica come un to rneo d'insulti e di bastonate» scrisse il giornale di De Gasperi , che di Mussolini e ra il bersaglio preferito. E lo stes­so Battisti mostrò qualche volta un certo disagio a tenere le par t i di quel lo scomodo e i r r u e n t e alleato. Mussolini n o n dava t regua e non se ne dava. In sei mesi scrisse più di cen­to articoli, note , corsivi, e perfino racconti. Il giornale era la sua passione: ci passava dodici ore al giorno, in poche setti­m a n e ne aveva quasi r addopp ia to la t i ra tura e , pe r quan to sgradita ai p iù e ai meglio, la sua prosa aggressiva era r iu­scita a scuotere la «tradizionale apatia» di quella città. «Mi sono imposto» scriveva al suo amico Torquato Nanni .

C o n De Gasper i , o l t re a quelli giornalistici, ebbe u n o scontro diret to in un pubblico contraddi t tor io a Untermais , e l'antitesi fra i d u e uomini si rivelò str idente: all 'argomen­tazione serrata ma incolore di De Gasperi , Mussolini oppo­se un 'e loquenza millenaristica, e il successo di platea fu suo. N e m m e n o la col leganza professionale riuscì a ge t ta re un pon te fra loro. Fin dal p r imo giorno si detes tarono, né po-

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teva essere altr imenti , visto che incarnavano non d u e ideo­logie, ma d u e concezioni mora l i e di vita d i a m e t r a l m e n t e opposte.

Le autor i tà cominciarono a preoccupars i di quell 'arruf-fapopolo , e nello spazio di pochi mesi gl 'inflissero ben sei c o n d a n n e , e undic i sequest r i al suo giornale . In g iugno il P r o c u r a t o r e d i Stato sollecitò da Vienna un dec re to d i espuls ione, ma Vienna lo condiz ionò a u n a «giusta causa» che p e r il m o m e n t o mancava. A fornirla fu una perquisizio­ne nell 'abitazione di Mussolini in seguito a un furto in u n a Cooperativa, col quale na tu ra lmente egli n o n aveva nulla a che fare. Vi t rovarono alcuni n u m e r i dell'Avvenire del lavora­tore che n o n avrebbero dovuto esserci pe rché colpiti da se­questro , e questo bastò pe r provocare l 'arresto e la d e n u n ­zia. Il processo si svolse d u e sett imane dopo a por te chiuse, ma nonostante le pressioni di Vienna pe r u n a condanna che giustificasse l 'espulsione, il Tribunale assolse l ' imputato e lo sfratto gli fu ingiunto pe r il mancato pagamento di u n a pre­ceden te a m m e n d a . A Tren to ci fu rono protes te , anche ru­morose, ma lo sciopero indet to dai socialisti fu un mezzo fia­sco. In realtà la g r a n d e maggioranza della popolazione n o n era affatto scontenta di quella misura che la liberava da u n o scomodo ospite. L'espulsione e r a stata u n a vera e p r o p r i a «crisi di rigetto» de l l ' ambiente . E c'è chi dice che lo stesso Battisti trasse un respiro di sollievo.

Per mancanza di soldi dovette r ipara re nuovamente a Forlì, dove invano tentò di farsi assumere come reda t tore al Resto del Carlino. A t empo perso, dava u n a mano nell 'osteria, e fu così che l'occhio gli cadde sulla figlia della compagna di suo pad re , Rachele. La conosceva sin da bambina, ma d ' improv­viso - come succede alle ragazze di quel l 'e tà - la r i t rovava d o n n a fatta, e fatta bene . Le fece la corte a m o d o suo, cioè al m o d o di un u o m o che n o n era abituato a farla. Una sera la condusse in u n a ba le ra e, siccome lei ballò con un al t ro perché lui non sapeva, sulla via del r i torno le fece le braccia

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ne re di lividi, dopodiché le ingiunse di lasciare l'osteria e di trasferirsi in un paese vicino, presso sua sorella. Suo p a d r e e la m a d r e di Rachele e r a n o con t ra r i a quell ' idil l io. «Non hai impiego, n o n hai s t ipendio, hai solo la politica che farà soffrire te e la d o n n a che ti sarà vicina. Pensa a quante ne ha passate tua madre» gli disse Alessandro. Per tu t ta risposta, Beni to trasse di tasca la pistola. «Se Rachele n o n mi vuole - disse -, qui ci sono sei colpi: u n o pe r lei, gli altri cinque pe r me.» Come potesse uccidersi cinque volte, Dio solo lo sa, ma era u n a frase delle sue, che mirava all'effetto, e l 'ottenne.

L ' indomani raggiunse Rachele e n t r a n d o come u n a ven­tata nella sua stanza, e le disse di sbrigarsi perché aveva mol­ta p r e m u r a . Essa fece alla svelta fagotto delle sue poche ro­be, r u p p e il salvadanaio, e si lasciò po r t a re dove lui voleva: in d u e fatiscenti s tanzucce di via M e r e n d a a Forlì. Lo rac­conta lei nel suo libro di memor i e e - forse con qualche ri­tocco, forse con qualche omissione - , è probabi le che tu t to andasse veramente così. Si sposarono civilmente solo cinque anni dopo , q u a n d o già Edda ne aveva quat t ro , pe rché p e r i socialisti i l mat r imonio e ra un rito «borghese». Quello reli­gioso lo ce lebrarono nel '25 , q u a n d o lui e ra già Duce e ri­muginava il Concordato con la Santa Sede.

La luna di miele, egli la trascorse a r raba t t andos i con la p e n n a p e r me t t e r d 'accordo i l des inare con la cena, e n o n sempre ci riuscì. Così nacque, su ordinazione di Battisti che glielo pubbl icò a p u n t a t e su l l ' appendice del suo g iorna le , Claudia Particella l'amante del Cardinale. Le amant i dei Cardi­nali n o n p o r t a n o for tuna agli au to r i che le p r e n d o n o p e r eroine. Ne aveva già fatto l 'esperienza Garibaldi, che su una di esse aveva confezionato un polpet tone da oscurare la glo­r ia di Calafatimi. A Mussolini n o n a n d ò megl io , anche se quel centone alla Zévaco, abborracciato e volgare, lo aiutò a sbarcare il lunario. «Un orribile libraccio» egli stesso dirà al­cuni anni dopo a Ludwig, d o p o aver ordinato alla polizia di farne scomparire fin l 'ultima copia.

Ma è curioso, e indicativo del suo polivalente t empera -

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m e n t o , che p r o p r i o nel lo stesso p e r i o d o egli desse alle s tampe anche un saggio politico sul Trent ino, che appar t ie­ne invece alla miglior pubblicistica del t empo . A suggeri r ­gliene l ' idea era stato Prezzolini, il d i re t tore della Voce fio­ren t ina . Da parecchio t e m p o Mussolini e ra assiduo let tore di questa rivista, che aveva dato un profondo scossone alla cu l tu ra i taliana m e t t e n d o n e in fuga le t a rme , e in cui egli r i trovava molti motivi a lui congeniali : la denunc ia dei vizi accademici della nostra cul tura, la critica spietata del positi­vismo con tutti i suoi derivati umani tar i e pacifisti, l 'apertu­ra alle più m o d e r n e corrent i di pens iero da J ames a Nietz­sche e a Sorel, ma forse più ancora l'aggressivo stile polemi­co. Q u a n t o a «mestiere» di giornal is ta , egli i m p a r ò mol to dalla Voce, e specialmente da Papini e da Salvemini. Q u a n ­do arrivò a Trento , si mise in contat to con Prezzolini. E que­sti, che dei talenti aveva un fiuto rabdomant ico , scoprì Mus­solini p r i m a ancora che Mussolini scoprisse se stesso, e lo invitò a collaborare suggerendogl i u n a serie di articoli sul­l 'ambiente locale e i suoi problemi. Tutto preso dal suo Av­venire, Mussolini n o n trovò il t empo di scriverli, o forse non lo r i tenne o p p o r t u n o . Ma, tornato a Forlì, si mise al lavoro. E così nacque il Trentino veduto da un socialista, un asciutto li­bello che rivelava un Mussolini ben diverso da quello, toni-t ruan te e grossolano, che aveva a p p e n a firmato Eamante del Cardinale: un Mussolini d 'annata , p e n e t r a n t e e senz 'adipe. Di soldi, il saggio gliene rese meno del romanzo che gli ave­va reso ben poco. Ma lo qualificò come scrittore politico di un certo rango .

«Quello del 1909 fu un ben triste Natale» dirà più tardi . Edda n o n aveva ancora tre mesi e dormiva nel letto dei ge­nitori, scricchiolante di foglie di granturco , perché non ave­vano p o t u t o c o m p r a r e n e a n c h e u n a culla. Cu r io samen te , Mussolini seguitava a restare piut tosto appar ta to dai «com­pagni» di Forlì, e ormai si stava rassegnando a concorrere a un post ic ino a l l ' anagrafe di Argenta , q u a n d o s i p r o d u s s e l 'avvenimento che doveva da re la svolta alla sua vita. A Forlì

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il par t i to socialista languiva, soverchiato da quello repubbli­cano che gli ch iudeva ogni spazio. «Sono repubbl icani an­che i ciottoli delle strade» scriverà Nanni , p r imo biografo di Mussolini . I d i r igen t i p e n s a r o n o che b isognava fare u n o sforzo, e lo sforzo n o n poteva essere che un giornale. Offi­ciarono come dire t tore il loro esponente più in vista, Bona-vita; ma quest i , obe ra to dai suoi i m p e g n i d 'avvocato, de ­clinò. E così si pensò di «ripiegare» su Mussolini. Perché lo consideravano un «ripiego».

Mussolini scelse come testata La lotta di classe, e condusse i l g iornale come aveva condot to quello di T ren to : scriven­dolo quasi tut to di p rop r i a m a n o e a s sumendo le posizioni p iù e s t r eme con u n a violenza che fece colpo pe r s ino nel pubblico romagnolo , alla violenza assuefatto da sempre . Fin da p r inc ip io egli i m p e g n ò bat tagl ia su d u e fronti : da u n a p a r t e con t ro i r epubb l ican i , dal l 'a l t ra con t ro la d i rez ione centrale del suo stesso par t i to , allora in m a n o ai riformisti. Il net to rifiuto di qualsiasi alleanza e compromesso n o n era certo la tattica più adat ta a far proseliti. Ma di questo n o n si curava, e non ne fece mistero. «Alla quanti tà noi prefer iamo la qualità» scrisse r iecheggiando la tesi sorelliana e paret ia-na delle élites. Secondo lui, solo un p u g n o di uomini risoluti avrebbero po tu to fare la rivoluzione: le masse avrebbero se­guito.

Ques te e r ano le sue convinzioni, ma e r ano anche le tesi che meglio si ada t t avano alla si tuazione locale. Un par t i to es iguamente minor i tar io , qual e ra quello socialista di Forlì nei confronti dei repubblicani , n o n poteva battersi che sul­l ' intransigènza. Infatti, con quest 'arma, egli conquistò subi­to il cosiddetto apparato con la nomina a segretario della Fe­derazione. Era la p r ima carica ch'egli r icopriva nel part i to , ma dimostrò di sapersene servire.

Come al solito, le c ampagne romagno le e r ano in subbu­glio pe r l 'annosa faida delle trebbiatrici contese fra le Coope­rative dei mezzadri e quelle dei braccianti. Sebbene il rappor­to di forze fosse favorevole ai primi, Mussolini fu pe r i secon-

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di perché più turbolenti e quindi più facilmente manovrabili su posizioni massimaliste. Perse la battaglia, ma rafforzò la propr ia «base» nella lotta di «correnti» all ' interno del partito, ch 'era il suo vero obbiettivo. La seconda battaglia fu quella, che allora metteva a soqquadro tutta l'Italia, contro la masso­neria. Il partito era diviso perché parecchi suoi esponenti era­no massoni. Nonos tan te il suo irriducibile anticlericalismo, Mussolini fu per l'incompatibilità fra le due professioni di fe­de, e lo fu al suo solito m o d o intransigente e categorico: «Il socialismo è movimento; la massoneria immobilità. Il p r imo è operaio, la seconda è borghese». Sebbene rozzo e sommario, il giudizio colpiva nel segno. La massoneria era la roccaforte dei grandi «notabili», di cui coloro che vi entravano finivano per subire il contagio. Erano le logge le grandi animatrici del­la politica dei «blocchi», cioè delle alleanze con cui le forze conservatrici cercavano di s t empera re nel compromesso quelle rivoluzionarie. Non si era ancora giunti a una decisio­ne . Ma i l p rob lema costituiva un p o m o di discordia, cui un uomo di rot tura come Mussolini n o n poteva rinunciare.

Nel set tembre del '10 si t enne a Milano un congresso na­zionale, nel quale Mussolini si schierò, con t ro la di rezione riformista, con la frazione rivoluzionaria di Lazzari, convin­to di avere con sé tutt i i romagnol i . Il suo discorso n o n fu un successo: un giornale par lò di lui come di «un autentico contadino dall 'oratoria a scatti». Ma, quel che è peggio, i ro­magnoli si divisero: i forlivesi r imasero con Mussolini, ma i ravennat i si schierarono coi riformisti che vinsero largamen­te. Mussolini voleva che la sua federazione rompesse subito col part i to. Vi r inunziò solo pe r da re t empo alla frazione ri­voluzionaria di p r e p a r a r e u n a battaglia su scala nazionale. E appena tornato a Forlì r iprese in toni ancora più aspri la sua polemica antiriformista. Era chiaro che, pe r proclamare

10 scisma, aspettava soltanto l'occasione. L'occasione gli fu offerta dalla crisi del governo Luzzatti.

11 Re, come voleva la prassi, convocò in Quir inale i capi dei vari partiti , e Bissolati ci a n d ò in rappresen tanza dei sociali-

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sti. Non indossò l'abito di cerimonia con le code, come p re ­scriveva l'etichetta, ci a n d ò vestito da passeggio, perché alla liturgia i socialisti italiani sono sempre stati molto più sensi­bili dei p re t i . Ma anche c o m p i u t o senza code , i l suo gesto p rovocò t ra loro il finimondo. Mussolini p re se la palla al balzo. «Liquidate giolittiano, monarchico , realista Bissolati o c inquanta sezioni federazione forlivese a b b a n d o n e r a n n o il parti to» telegrafò alla Direzione. E sul giornale sciolse le br igl ie al suo solito stile di r o t t u r a , fatto di p e r e n t o r i e e d r a m m a t i c h e a l ternat ive: o con noi o con t ro di noi , o col Quir inale o col Socialismo eccetera.

Bissolati n o n fu - pe r il m o m e n t o - liquidato, e Mussoli­ni t enne parola t rascinando la federazione forlivese alla rot­tura col part i to. Il giuoco era pericoloso, ma la posta grossa: se Lazzari e gli altri r ivoluzionar i lo avessero segui to, egli sa rebbe d iven ta to il capo del lo scisma su scala nazionale . N o n lo segui rono . Anzi, p u r a p p r e z z a n d o n e le intenzioni , dep lo ra rono il suo gesto come intempestivo, e cercarono di farlo r ecede re m a n d a n d o g l i anche , in missione di pace, la Balabanoff. Mussolini fu i r removibi le : capiva che , d o p o aver tanto predicato l ' intransigenza, n o n poteva p ropr io lui scendere al compromesso. Ma capiva anche che l 'isolamen­to n o n era, alla lunga, sostenibile. A trarlo dalla scomoda si­tuazione furono gli eventi.

P r e p a r a t a in g r a n segre to da Giolitti, la «bomba» della impresa di Tripoli coglieva di sorpresa i parti t i . Solo quello nazionalista, da poco costituitosi, vi consentiva p ienamente . Gli altri e r ano divisi, pe rché divisa era l 'opinione pubblica: gener icamente favorevoli la media e piccola borghesia; con­trarie le classi popolari , ma con molte sfumature e incertez­ze, di cui anche i parti t i risentivano. Quello repubblicano si e ra spaccato, ma anche quello socialista era in crisi: la mag­gioranza dei sindacalisti e rano favorevoli all ' impresa, i rifor­misti disposti ad accettarla. Ma Giolitti n o n det te alle pole­miche il t empo di svilupparsi, p o n e n d o il Paese di fronte al fatto compiuto .

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Per Mussolini, e ra la g r ande occasione di uscire dal vico­lo cieco in cui si e ra cacciato, e n o n se la lasciò sfuggire. Per boicottare l ' impresa, lanciò l'idea dello sciopero generale, e stavolta n o n esitò a far blocco coi repubbl ican i che a Forlì condividevano la sua posizione estremista, capitanati da un giovane t r ibuno di facile e vigorosa oratoria: Pietro Nenn i . Con lui Mussolini aveva sempre violentemente polemizzato, ma in manie ra assai diversa che con De Gasperi . Si odiava­no, ma come fratelli, pe rché a dividerli e ra soltanto l'ideolo­gia. «Ogni qual volta le circostanze ci pe rmet t evano di eva­de re dalle beghe locali, subito ci t rovavamo d 'accordo pe r p romuove re , come si direbbe adesso, l 'unità d'azione» scri­verà Nenni nel '47, e son parole che gli fanno onore perché in quel m o m e n t o avrebbe avuto convenienza a d i re il con­trario. Il 26 set tembre insieme essi a r r ingarono , gareggian­do in es t remismo, u n a folla «oceanica», e insieme venne ro arrestati pochi giorni dopo pe r istigazione alla violenza e at­ti di sabotaggio.

Il processo si svolse a me tà novembre nella stessa Forlì, ed ebbe u n a cornice d i pubbl ico da g r a n d e «prima». Di fronte a quella i m p o n e n t e e f remente platea, Mussolini la fece da ma t t a to re , c h i u d e n d o la p r o p r i a autodifesa con la famosa frase: «Se mi assolvete, mi fate un piacere; se mi con­d a n n a t e , mi fate un onore» , che v e n n e accolta da un cro-sciante applauso. Lo condanna rono , come Nenni , a un an­no , che poi la Corte d'Appello ridusse a cinque mesi e mez­zo. E fu la sua fortuna. Ment re in cella egli ingannava il tem­po scr ivendo un 'au tobiograf ia che a tu t t 'oggi r i m a n e u n o dei document i p iù credibili sul suo conto pe r sincerità, di­stacco e senso di misura , d e n t r o il pa r t i to socialista il r a p ­por to di forze fra le corrent i si capovolgeva, e i rivoluziona­ri p r endevano il sopravvento sui riformisti. Sicché q u a n d o , con l 'aureola del «martire», egli r iprese il suo posto in Fede­razione e al giornale, po tè t ranqui l lamente d i re ai «compa­gni» forlivesi: «Non siamo noi che torniamo nel part i to, è il part i to che torna a noi».

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Il rientro fu sancito in apri le (del T2) pe rché di lì a d u e mesi doveva svolgersi a Reggio Emilia un congresso nazio­nale che si annunziava decisivo pe r il regolamento dei conti fra riformisti e rivoluzionari . E difficile d i re se Mussolini si rese esatto conto che lì si giuocava la sua sorte. Ma sappia­mo con certezza che d u r a n t e la vigilia n o n pensò ad al t ro. Duran te la prigionia, Rachele ed Edda si e r ano salvate dalla fame grazie ai sussidi dei «compagni», e suo p a d r e , colpito da paralisi, e ra mor to . Il fatto che Mussolini n o n abbia mai parlato dei p rop r i dolori e crucci, o lo abbia fatto con estre­mo p u d o r e , n o n esclude che ne fosse d u r a m e n t e p rova to . Ma il suo pensiero dominan te restava la lotta politica: tutte le sue energie e r ano concent ra te lì. Sulla tattica che in ten­deva seguire al congresso n o n faceva misteri: «Vi partecipia­mo - scriveva - allo scopo di provocare l 'espulsione dal par­tito dei riformisti, deputa t i o no, tripoleggianti e giolittiani». Era insieme il tasto più popo la re e il m o d o pe r d imost ra re ch'egli n o n defletteva dalla sua linea.

Il congresso si aprì il 1 luglio, e Mussolini par lò il pome­r iggio del l '8 . Q u a n d o salì sul pod io , molt i si ch iesero chi fosse. I suoi casi n o n avevano avuto nessuna r isonanza na­zionale pe rché di ro t tu re e ricuciture col part i to la storia so­cialista era gremita, e quanto ad arresti e processi non c'era d i r igen te che n o n ne avesse subiti. Fuor di Romagna , egli e ra noto solo ai capi della co r ren te rivoluzionaria: Lazzari, Serra t i , la Balabanoff. Le sue p r i m e pa ro le c a d d e r o nella generale indifferenza, ma poi di colpo l 'ambiente si scaldò. I l congresso e ra a p e r t o al pubbl ico , che vi e r a accorso in massa, gremiva palchi e loggione, e manifestava la sua ap ­passionata par tec ipazione a p p l a u d e n d o , f i sch iando, inter­r o m p e n d o . Ques ta atmosfera di comizio e ra la p iù conge­niale a Mussolini che al pubblico, p iù che ai delegati, imme­d i a t a m e n t e si rivolse i n t e r p r e t a n d o n e p e r f e t t a m e n t e gli umor i barricadieri .

E qui - c red iamo - la chiave del suo strepitoso successo. Con la sua oratoria a scatti in cui le pause sembravano con-

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tare anche più delle parole , col suo secco e pe ren to r io fra­seggiato, punteggia to di ba t tu te ad effetto facilmente orec­chiabili, egli svolse la sua a rgomen taz ione assumendos i la p a r t e che p iù piaceva a quel la p la tea : la p a r t e del la «ghi­gliottina». Chiese l ' epurazione dal par t i to dei «traditori», e ne fece i nomi: Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca. Sape­va di pe ro ra re u n a causa già vinta, ma la battaglia si svolge­va sulla formula della scomunica. I riformisti, accorgendosi di essere ormai in minoranza, si e r ano spaccati in d u e sotto­corrent i : quella di destra che cercava d ispera tamente di sal­vare i quat t ro reprobi , e quella di sinistra che si sarebbe con­tentata d ' imped i rne la squalifica mora le d ich ia rando che il par t i to li considerava «fuori della sua concezione politica». Al ternando l'invettiva al sarcasmo, Mussolini chiedeva inve­ce ch'essi fossero espulsi «per gravissima offesa allo spiri to della dot t r ina e alla tradizione socialista».

La clamorosa ovazione che salutò la fine del suo discorso dimostrò che la «base» l'aveva conquistata. Ma ora si tratta­va di vedere cosa sarebbe successo in sede di votazione, do­ve la parola era riservata ai delegati. Ma p ropr io qui Musso­lini dimostrò di n o n essere soltanto un mat ta tore da podio. Fra corrent i e g rupp i egli si mosse, die t ro le quinte del con­gresso, con l'abilità di un consumato professionista pe r assi­cura re la maggioranza al suo o rd ine del giorno. E l 'o t tenne con largo margine. L' indomani la s tampa di tutta Italia par­lava di lui come deU'«uomo nuovo» del socialismo italiano, della «stella nascente»; e anche all 'estero la sua vittoria veni­va commenta t a con paro le elogiose. L'unico che se ne mo­strò insoddisfat to e t rovò da ridirci fu colui che Mussolini considerava il p ropr io maest ro e ispiratore: Sorel.

D u r a n t e i l congresso un giornale aveva scritto che l 'ob­biettivo di Mussolini e ra la d i rez ione dell'Avariti! Coglieva nel segno, ma solo p e r induz ione , pe r ché Mussolini s i e ra b e n g u a r d a t o dal d i r lo . Egli si most rava soddisfatto della p r o m o z i o n e a m e m b r o della Direzione nazionale - quel la che oggi si chiama «Comitato Centrale» - ormai saldamente

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in m a n o ai rivoluzionari, e n o n aveva mosso obbiezioni alla designazione di Bacci alla guida del giornale. Capiva che si t rat tava d ' u n m o m e n t a n e o r ipiego pe r ché Bacci, vecchio e malandato , n o n era che la controfigura del vecchio diret to­re, Treves che, uscito sconfitto dal congresso, non poteva più m a n t e n e r e quel la posizione. Infatti i l p r o b l e m a to rnò sul tappeto dopo tre mesi, che Mussolini n o n aveva sprecati.

Tornato a Forlì d o p o il trionfo di Reggio Emilia, aveva ri­preso il suo posto, ma oltre a d i r igere La lotta di classe, egli ora collaborava alla Folla di Paolo Valera nascondendosi sot­to lo pseudon imo Ehomme qui cherche pe r muovere al part i to delle critiche poco compatibili con la sua qualifica di m e m ­bro della direzione. Fra queste critiche ce ne furono anche alla conduzione economica dell'Avariti! che, secondo lui, era r ido t to al lumic ino dai t r o p p o grassi s t ipend i e i n d e n n i t à che distribuiva ai suoi collaboratori . Mussolini e ra maest ro nel mescolare moral ismo e demagogia . «C'è stato un t empo - scriveva - in cui il socialismo n o n era pratico, n o n era in­dustr iale , n o n e ra coopera tore , n o n e ra bancar io ; c'è stato un t e m p o in cui i l socialismo significava disinteresse, fede, sacrificio, e ro ismo. Allora c 'e rano dei socialisti i nnamora t i dell ' ideale, oggi ci sono dei socialisti - i molti , i più - inna­morat i del denaro.» La botta era diretta a Treves che segui­tava a percepi re u n o st ipendio - allora considerato scanda­loso - di 700 lire. E sulla «base» faceva effetto.

In o t tobre Bacci get tò la spugna . Fu in terpel la to Salve­mini, sebbene nel part i to ci stesse sempre con un p iede den­t ro e u n o fuori, ma Salvemini r inunc iò . Serrat i fu scartato pe r n o n provocare la collera e le polemiche degli anarchici che seguitavano a denunziar lo come t radi tore e spia, sebbe­ne u n a rigorosa inchiesta avesse dimostrato l'assoluta infon­datezza di ques te accuse. M e n t r e si seguitava a p r o p o r r e c a n d i d a t u r e e a bocciarle, La Folla pubblicava a p u n t a t e il discorso di Mussolini a Reggio Emilia, che sui militanti lom­bard i , i quali ne avevano letto solo qualche r iassunto , fece g rande impressione.

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La Balabanoff dice che a p r o p o r r e Mussolini fu Lazzari, cogliendo tutti di sorpresa, e che più sorpreso di tutti si mo­strò Mussolini, il quale si fece anche p rega re . Ci si p u ò an­che credere . Come giuocatore, lo era di razza.

Mussolini assunse la d i rez ione dell'Avariti! il 10 d i cembre del '12. A Milano si era trasferito da solo, lasciando Rachele e la bambina a Forlì con l 'ordine di non muoversi . Non ave­va ancora t rent 'anni . Il suo p r imo gesto fu quello di r i du r r e il p r o p r i o s t ipendio da 700 a 500 lire e di n o m i n a r e come capo - r eda t to r e agg iun to la Balabanoff p e r usar la come ostaggio: essa contava moltissimo nella co r ren te rivoluzio­naria, di cui la sua presenza garantiva l 'appoggio. Mussolini ne aveva bisogno p e r liberarsi delle influenze riformiste, a cominciare da quella di Treves, che seguitavano a pesare sul giornale.

L'operazione n o n era facile pe rché i riformisti, anche se avevano perso la Direzione Centrale, avevano ancora in ma­no molti centri di potere : i l g r u p p o par lamenta re che face­va capo a Turati , Critica sociale - la più impor tan te rivista di cul tura socialista - e soprat tut to la Confederazione Genera­le del Lavoro che, pe r s t rano che oggi possa sembrare , era in m a n o al r iformista Rigola su posizioni p iù m o d e r a t e di quelle del part i to. Per met tere insieme u n a squadra sua, egli cercò collaboratori anche fuori del campo socialista, special­men te fra i sindacalisti, ma anche fra i repubblicani, e persi­no tra gli anarchici. A queste scelte non lo sospinse soltanto il calcolo tattico, ma anche le vecchie simpatie e un naturale rispetto pe r i talenti. Di questi, molti gliene suggerì Prezzo-lini, ma altri li scoprì lui, e così YAvanti! diventò la palestra in cui aff inarono le a rmi i giovani dest inat i a cost i tuire i g r u p p i p iù avanzati del pens ie ro socialista: Ordine nuovo a Torino e Soviet a Napoli. Bordiga, che fu di questi, scriveva: «I giovani sono quasi tutti con lui, su cui contano pe r un rin­novamento del partito». E anche Gramsci gli r iconobbe que­sto meri to .

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Coi vecchi notabili, dappr inc ip io fu cauto. I p iù du r i at­tacchi contro di loro li sferrò, sotto il solito pseudonimo, sul­la Folla che seguitava a mettergli a disposizione le sue pagi­ne pe r i bassi servizi. Per l'attacco frontale aspettava l'occa­sione, e questa gli fu fornita dalle repressioni nelle campa­gne cont inuamente in subbuglio. Q u a n d o in Ciociaria sette bracciant i c a d d e r o sotto il fuoco dei g e n d a r m i , si scatenò. Assassinio di Stato, La politica della strage, Il silenzio della vergo­gna, e r a n o i titoli degli editoriali di Mussolini, che di titoli e ra maestro. La sua prosa incendiaria colpiva e moltiplicava i let tori . E fu facendo leva su ques to successo di pubbl ico ch 'egl i impose alla Direzione le sue tesi es t remis te , come quella che la risposta agli eccidi popolar i n o n poteva essere che lo sc iopero genera le , in ape r t a polemica con Tura t i e Treves. Costoro , spinti dalla Kuliscioff, ce rca rono di orga­nizzare , a l l ' in te rno del pa r t i to , un fronte con t ro di lui. E Mussolini r ispose suìY Avanti! accusandol i di essersi messi cont ro il part i to, del quale così si atteggiava ad unico inter­pre te .

Stavolta anche i suoi amici rivoluzionari cominciarono a preoccuparsi , e lo stesso Serrati , che lo aveva sempre soste­n u t o , si dissociò da lui. Ai p r imi di marzo la Direz ione si r iun ì p e r r isolvere il caso. In u n a le t tera a Tura t i , la Kuli­scioff si diceva sicura che ormai contro Mussolini si era for­mata u n a maggioranza, e forse era vero. Ma Mussolini ave­va in tasca d u e briscole invincibili: un processo in corso pe r istigazione alla violenza, che costringeva mora lmente il par­tito a confermargli la p rop r i a solidarietà, e il massiccio au­mento della t i ratura del giornale, che dimostrava la «presa» esercitata dal suo dire t tore sul pubblico. Mussolini uscì con­fermato. E da allora fu un seguito di colpi u n o più sperico­lato dell 'altro, ma che obbedivano a un preciso disegno tat­tico: scavalcare a sinistra anche la Direzione rivoluzionaria appellandosi d i re t tamente alla «base».

Lo si vide dalla disinvoltura con cui liquidò la Balabanoff - che p u r e e ra stata u n a delle sue maggior i sostenitrici - ,

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n o n epurando la , ma met tendola in condizione di andarse ­ne , e dal l 'a t teggiamento che prese nei confronti dei sinda­calisti. L 'anno p r i m a costoro avevano secessionato anche dalla Confederaz ione del Lavoro p e r cost i tuire l 'usi , cioè u n a Unione Sindacale Italiana i n d i p e n d e n t e dal pa r t i to . Il suo a n i m a t o r e e ra Fi l ippo Cor r idon i , un giovane t r i buno che esercitava sulle masse un forte fascino e che infatti ave­va già raccolto sotto le p r o p r i e b a n d i e r e ol tre 100.000 se­guaci . I l pa r t i to n a t u r a l m e n t e e ra p e r la Confederaz ione che, sebbene tut tora in m a n o al riformista Rigola, man tene ­va con esso dei legami a lmeno ideologici. Mussolini dappr i ­ma n o n prese posizione. Ma q u a n d o Rigola sconfessò u n o sciopero band i to dal l 'usi , egli a sua volta sconfessò Rigola appoggiando Corr idoni . I riformisti t o rna rono nuovamen­te all'attacco di Mussolini ch iedendone la testa. Ma p ropr io in quel m o m e n t o l 'arresto e la condanna di Cor r idoni p ro ­vocavano la violenta reazione della massa operaia che, infi­schiandosi della Confederazione, iniziò un altro sciopero, di cui Mussolini assunse r isolutamente il pa t rona to .

Definito «il neo-Mara t dell'Avanti!», subì attacchi feroci. «Che è - si domandava Turati su Critica sociale - questa voce e questa parola, che vorrebb'essere voce e parola d 'un parti­to d 'avanguardia? Religione? Magismo? Utopia? Sport? Let­t e ra tu ra? Romanzo? Nevrosi?» Ma agli opera i i l senso di queste d o m a n d e sfuggiva, men t re non sfuggiva quello degli articoli di Mussolini che la via pe r colpire il cuore e l ' imma­ginazione del lettore la trovavano sempre . Q u a n d o in luglio la Direzione si r iunì pe r pronunciars i sulla linea politica del-YAvanti!, questa fu approva ta con sette voti favorevoli - fra cui quello del Segretario Generale , Lazzari - , t re contrar i e due astensioni: quelle della Balabanoff e dello stesso Musso­lini. Il quale, n o n contento della vittoria ai punt i , presentò le dimissioni p e r farsele resp ingere al l 'unanimità . Il successo popolare lo rendeva intoccabile, e l'apparato vi s'inchinava.

A ques to p u n t o p e r ò si vide che Mussolini n o n e ra sol­tanto l 'uomo che «si esalta ne l l ' a rdore della folla, s'illude e

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s'inebria se vede in piazza cento pe r sone che gr idano», co­me lo definiva i l suo amico-nemico Zibordi . Lung i dal l 'u-briacarsi di quel trionfo e da perderv i il senso della misura, egli ve lo ri trovò. In vista delle elezioni che si dovevano te­ne re in a u t u n n o , egli si allineò disciplinatamente sulle posi­zioni del par t i to . Q u a n d o i sindacalisti indissero un nuovo sciopero, n o n ne prese le part i . E q u a n d o lo sciopero fallì, li at taccò con la stessa violenza con cui pochi mesi p r i m a li aveva sostenuti. Accettò anche di portars i candidato nel col­legio di Forlì - dove sapeva di n o n poter nulla contro il riva­le repubbl icano -, lui che a Milano avrebbe stravinto. Ma il fatto è che al seggio p a r l a m e n t a r e n o n teneva: il suo t ra­gua rdo era il part i to.

Le elezioni furono, pe r i socialisti, un notevole successo. Malgrado l 'amputazione dell'ala bissolatiana, essi passarono dall '8 all' 11 pe r cento e m a n d a r o n o in Par lamento 53 depu­tati. Mussolini esaltò la vittoria con articoli trionfalistici, e ne aveva di che: quella vittoria era in g ran par te sua, cioè della linea politica seguita dall'Avanti! O ra si trattava di t r adur la in un ' adegua ta posizione di po te re . E l 'occasione stava pe r p resen ta r s i : i l congresso naz ionale che doveva teners i ad Ancona nella pr imavera del '14. Non mancavano che pochi mesi.

In questo intervallo egli badò soltanto a presentarsi come l'alto in te rpre te del socialismo rivoluzionario, e pe r n o n la­sciarsi coinvolgere in beghe di cor ren t i e di g r u p p i scrisse pochi articoli, e così pacati che n o n sembravano n e m m e n o della sua penna . Gran par te del suo t empo preferì dedicarlo a u n a rivista, Utopia, di cui evidentemente voleva fare il con­tral tare di Critica sociale, l 'organo dei riformisti, p e r batterli sul l 'unico t e r r e n o di cui essi e r a n o tu t to ra gl ' incontrastat i p a d r o n i : quello ideologico. Ma l'iniziativa riuscì soltanto a d imost rare i limiti di Mussolini che, efficacissimo e rul lante come un t a m b u r o nell 'art icolo di battaglia vergato a caldo sotto lo stimolo degli avvenimenti, q u a n d o si trattava di ele­varsi sul p i ano della do t t r i na pe rdeva il filo e annaspava .

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Gliene mancava la cultura cui, dai tempi della Svizzera, ave­va aggiunto ben poco. Di libri pe r mano glien'erano passati. Ma p e r sua stessa ammiss ione ne leggeva sol i tamente «tre pagine al principio, tre nel mezzo, e tre in fondo». Gli autori che più spesso citava, oltre i soliti Sorel e Pareto, e rano Kaut-sky e la Luxenbourg, ma c'è da dubi tare che li conoscesse ve­ramente . Quan to a Marx, più che quello che aveva detto, sa­peva quello che gli a t t r ibuivano i suoi divulgatori , e forse i più superficiali. Qualcuno dice che pe r il lavoro meditato e a l ungo respi ro gli mancava il «fiato». Ques to n o n è vero . Q u a n d o poteva derivarne la materia dall'osservazione e dal­l 'esperienza, Mussolini e r a capace di saggi notevoli come quello sul Trent ino, ed autentiche qualità di scrittore rivele­r a n n o più tardi certe pag ine del suo Parlo con Bruno. Ma il suo disagio è evidente, pe r mancanza di puntell i e di riferi­menti , sul piano concettuale. Di suo, su Utopia scrisse poco e non riuscì n e m m e n o a scegliere dei collaboratori che le des­sero una linea. Ancora una volta i migliori successi li o t tenne come oratore, quando si mise in giro pe r l'Italia come confe­renziere. Anche sul pubblico dei teatri, molto più esigente di quello delle piazze, il suo sapiente dosaggio di raffiche e pau­se fece effetto. Perfino Salvemini e Prezzolini, che lo udi rono a Firenze, ne r ipor ta rono u n a profonda impressione.

Alla vigilia del congresso , stese il bi lancio del g iornale . Nei pochi mesi della sua d i rez ione , la t i r a tu ra e ra passata da 30 a 70 mila copie con p u n t e di 100 mila. Dopod iché part ì pe r Ancona. Il congresso si apr ì il 26 aprile con la soli­ta relazione del Segretar io Genera le Lazzari, p iut tosto pe ­destre. N e m m e n o quella di Mussolini fece spicco. Ma il fat­to è che n o n ci fu battaglia pe r mancanza di avversari. Alle­gando ragioni di salute, Turat i aveva dato forfait, e degli al­tri riformisti l 'unico che tenne la posizione fu Treves: Modi­gliani si allineò con la maggioranza, e Zibordi oscillò. La po­lemica si accese sol tanto sulla ques t ione dei massoni , e si concluse con la p i ena vittoria di Mussolini che impose l'e­spulsione.

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I r isultat i del congresso n o n lasciavano dubbi . Lazzari e ra confermato, ma in quan to aveva fino in fondo sostenuto le tesi di Mussolini, che da quella prova usciva da trionfato­re e vero p a d r o n e del par t i to . N o n p e r nulla, a commen to conclusivo, Azione socialista scriveva che la coppia n o n pote­va essere meglio assortita; ma che, se fosse sopravvenuto il divorzio, la «base» avrebbe seguito Mussolini, soggiogata e trascinata da «quella figura d'asceta, da quel gesto di perso­na come agitata da un incubo, da quella voce a mormor io di foresta».

Q u a n d o l 'arciduca Ferd inando d'Asburgo cadde a Sarajevo sotto le revolverate dei terrorist i serbi, Mussolini det te alla notizia poco risalto. Nell'intervallo l'Italia era stata scossa da violente agitazioni ch 'erano culminate nella famosa «settima­na rossa» di Ancona, e in cui pe r la pr ima volta Mussolini si e ra mos t ra to esi tante. Dappr inc ip io aveva capeggia to con Cor r idon i le dimostrazioni di piazza, ma poi aveva invitato gli opera i a cessare lo sciopero. Gli a rgoment i n o n gli man­cavano. Quello sciopero, la Confederazione del Lavoro n o n 10 aveva voluto; lo aveva soltanto subito, e poco dopo disdet­to, sicché ora rischiava di sbriciolarsi in iniziative slegate. Ma 11 Mussolini di qualche mese p r i m a n o n si sarebbe lasciato influenzare da queste incertezze, anzi ne avrebbe approfitta­to pe r assumere ancora più r isolutamente la par te di prota­gonista. Può darsi che, col potere , fosse cresciuto in lui il sen­so di responsabilità. Ma forse c 'entrava anche u n a certa de­lusione, che del resto trapela da alcune sue lettere di questo per iodo. Non amava il parti to: lo dimostrava la scarsa par te­cipazione che aveva sempre dato alla sua vita, e il modo stes­so in cui lo aveva conquistato, dal di fuori, non dal di den t ro dell'apparato, come avevano fatto e facevano gli altri dirigen­ti. Probabilmente non credeva nel potenziale rivoluzionario dei socialisti, e considerava le loro agitazioni delle «quaran­tottate» senza costrut to. Nel fare il bilancio della set t imana rossa egli ritrovò i suoi toni taglienti e perentor i , ma solo pe r

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chiedere la testa di Rigola, che infatti fu costretto alle dimis­sioni. Altrettanta grinta mostrò contro un r innovato attacco dei riformisti. Ma i n somma c red iamo che valga i l giudizio espresso dopo la sua mor te da Nenni : «Plebeo era, e pareva che volesse restare, ma senza amore pe r le plebi. Negli ope­rai ai quali parlava vedeva non dei fratelli, ma una forza, un mezzo, del quale potrebbe servirsi per rovesciare il mondo». Ora il m o n d o voleva ancora rovesciarlo, ma in quella forza cominciava a p e r d e r e fiducia. N o n è - in tend iamoci - che una supposizione. Ma ci sembra abbastanza fondata.

Le revolverate di Sarajevo e r ano esplose il 28 g iugno, e pe r quasi tutto luglio YAvanti! seguitò a par la rne come di un episodio «doloroso, ma spiegabile», d a n d o poco risalto agli sviluppi diplomatici dell 'avvenimento. Solo alla fine del me­se, quando giunse la notizia dell 'ultimatum austriaco alla Ser­bia, Mussolini prese u n a posizione decisa con un articolo in­titolato Abbasso la guerra! che trovò consenziente tutta la sini­stra italiana, f e r m a m e n t e risoluta anzi tut to a n o n lasciarsi coinvolgere in un eventuale conflitto dalla par te dell'Austria, cui e ravamo legati dal trattato della Triplice Alleanza. «Non un uomo, né un soldo» scriveva Mussolini. E il part i to lo ap­provò. Ma q u a n d o ai p r imi d 'agosto l 'Europa prese fuoco, tutte le Potenze scesero in lizza, e all'invasione austriaca del­la Serbia seguì quella tedesca del Belgio e della Francia, fra Mussolini e l'apparato cominc ia rono le p r i m e inc r ina tu re . l'apparato era neutralista in senso assoluto, Mussolini con al­cune riserve che trasparivano dagli stessi titoli del suo gior­nale: Lorda teutonica scatenata su tutta Europa, La sfida germani­ca contro Latini, Slavi e Anglosassoni eccetera. Mussolini n o n era ancora interventista, ma aveva preso atto del fallimento dei parti t i socialisti europe i , che n o n solo si e r ano mostrat i incapaci di prevenire il conflitto; ma, u n a volta scoppiato, si e rano schierati coi rispettivi governi borghesi sposandone la «causa nazionale». E la conclusione che ne traeva era questa: che, res tando sulla sua posizione neutralista, il socialismo ita­liano s'isolava da tutti gli altri e dalla stessa Storia.

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Di ques to dissidio, ancora la ten te , i l p r i m o s in tomo lo fornì il «caso» Hervé, il socialista francese che si era arruola­to volontar io . Men t re i d i r igent i del par t i to italiano lo de­nunciavano come tradi tore, Mussolini scriveva: «No, Hervé che definisce - come noi p u r e la definiamo - " immonda" la guer ra , n o n è un guerrafondaio anche se a n d r à alla frontie­ra, così come non è un del inquente il pacifico cittadino che deve d ' u n trat to r icorrere alla Browning p e r difendersi dal­l'attacco del bandi to . Il militarismo pruss iano e pange rma­nista è, dal '70 ad oggi, il bandi to appostato sulle s trade del­la civiltà eu ropea» . I n s o m m a , secondo lui, c 'era g u e r r a e gue r ra : quella difensiva, n e m m e n o i socialisti po tevano ri­fiutarla a priori.

Fu questo il p u n t o su cui, via via che l ' incendio si p ropa­gava, il fronte della Sinistra si r u p p e . Essa aveva unan ime­m e n t e r iecheggiato il gr ido Abbasso la guerra! finché era in vigore la Triplice che ci avrebbe costre t to a combat te r la a fianco degli austro- tedeschi . Ma o ra che i l governo Salan-d ra , p u r senza denunc i a r e quell 'al leanza, se n ' e ra ufficial­men te dis impegnato p roc lamando la neutral i tà, i repubbli­cani , i radicali e i socialisti r iformisti cominc ia rono a d i re che la neu t ra l i t à n o n po teva essere che un t e m p o r a n e o espediente , alla lunga insostenibile. I democratici , scriveva Salvemini, devono rifiutare e combat tere l'idea nazionalista di una gue r r a pe r scopi imperialistici. Ma, aggiungeva, «per resis tere al nazional ismo, bisogna met ters i sul t e r r e n o dei concre t i interessi nazionali» che es igevano l ' in te rvento al fianco dei popoli che lottavano pe r la difesa dei nostri stessi valori di civiltà e libertà.

A metà agosto ci fu un colpo di scena. I sindacalisti, che e rano la pattuglia avanzata della sinistra rivoluzionaria, ave­vano indet to un g rande comizio. Mancava Corr idoni , a r re ­stato pochi giorni p r ima . Al suo posto, p rese la paro la suo cognato De Ambris, che n o n p ronunc iò la parola guerra, ma la fece t raudi re in tut te le p ieghe del suo discorso: «Anche il tacere, di fronte a certi delitti, significa complicità... Compa-

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gni, vi pongo la domanda : se domani la g rande lotta richie­desse il nostro in tervento pe r impedi re il trionfo della rea­zione feudale, militarista, pangermanica , po t remo noi rifiu­tarlo?»

Le sue parole p rovocarono i l f inimondo: u n a par te del­l 'uditorio acclamò, l 'altra - forse la più numerosa - insorse gr idando al t radimento, e l 'organizzazione sindacale - l'usi -si spaccò. Anch'essi divisi, i capi o t t ennero un colloquio con Corr idoni in carcere. «Ricordo ancora - scrive De Ambris -la commozione che c'invase, q u a n d o ai nostri accenni piut­tosto cauti, Cor r idon i p r o r u p p e in u n a delle sue belle risa­te. Sì, la g u e r r a e ra un dovere nazionale e r ivoluzionar io . Sì, d o v e v a m o voler la e farla...» All 'uscita dal ca rce re , il 6 se t tembre , Cor r idon i lo confermò: «La neutra l i tà è dei ca­strati» disse. Quasi c o n t e m p o r a n e a m e n t e si rompeva anche il fronte degli anarchici l ibertari : Rocca, Dinaie, e perf ino Maria Rygier si d ichiaravano pe r l ' intervento. Arroccati su u n a posizione di net to rifiuto, restavano i socialisti, ma iso­lati da tut to il resto della Sinistra, e condanna t i a u n a imba­razzante alleanza con la «maggioranza silenziosa» delle for­ze m o d e r a t e e conservatrici che facevano capo all 'esecrato Giolitti.

Mussolini si t rovava di f ronte a u n a scelta d rammat i ca : istinto e t e m p e r a m e n t o lo p o r t a v a n o alla g u e r r a , ma la gue r r a lo avrebbe por ta to alla ro t tura col part i to e alla per­dita della sua t r ibuna: il giornale. Per la p r ima volta la sua condo t ta si mos t rò esi tante e ambigua . Pubblicò su Utopia un art icolo di Panunz io in cui si sosteneva che la g u e r r a avrebbe dato al socialismo la vittoria in tutta l 'Europa, e sul-VAvanti! confutò questa tesi in n o m e dell 'ortodossia di part i­to. Il doppio giuoco n o n passò inosservato. «La diplomazia diventa sempre più diffìcile pe r Mussolini - scrisse Azione so­cialista - , anzi pe r i d u e Mussolini, che un bel giorno, riscal­dandos i l 'ambiente, finiranno col litigare sul serio. Chi dei d u e vincerà?» Morso sul vivo, Mussolini reagì r i n c a r a n d o sul p r o p r i o pacifismo con un 'aggress iv i tà che d imos t rava

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quan to poco lo avesse nel sangue. Per tenerlo in riga la Di­rezione gli aveva messo alle costole la Balabanoff, r inghiosa g u a r d i a n a delle diret t ive del pa r t i to . E anco ra alla fine di se t t embre egli d ichiarava g u e r r a a i gue r r a fonda i nel loro stesso toni t ruante l inguaggio.

Il 18 o t tobre (del T 4 ) , la Direz ione socialista si r i un ì a Bologna pe r fare il p u n t o della situazione. Per strada, men­tre si recavano al convegno, i par tecipant i c o m p r a r o n o l'A-vanti!, e r imase ro di stucco. C 'e ra un l u n g o edi tor ia le di Mussolini, il cui titolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante già diceva di tutto. Con molta abilità vi era sostenuta questa tesi: che il d i lemma - o guer ra , o rivoluzio­ne - era pretestuoso e artificioso: «Chi vi assicura che il go­ve rno uscito dalla r ivoluzione n o n debba cercare a p p u n t o in u n a gue r ra il suo battesimo augurale?» E concludeva po­n e n d o n e un altro a risposta obbligata: «Vogliamo essere, co­me u o m i n i e come socialisti, gli spet ta tor i iner t i di ques to d r a m m a grand ioso? O n o n vogl iamo esserne , in qua lche modo e in qualche senso, i protagonisti?»

Mussolini, che partecipava alla seduta, si trovò immedia­tamente nell 'occhio del ciclone, quasi comple tamente isola­to sotto u n a g rand ine di accuse. Le più violente gli furono mosse dai vecchi amici di un t empo: Serrati e la Balabanoff. Egli r ispose a suo m o d o , a t t accando invece di d i fenders i . Ma se aveva sperato di costringere il part i to a cambiar rotta met tendolo di fronte al fatto compiuto, dovette amaramen­te r icredersi pe rché si t rovò del tu t to isolato. Con u n o dei suoi soliti scatti, rifiutò la propos ta di abb andona r e pe r tre mesi la direzione del giornale a l legando motivi di salute, e rassegnò su d u e piedi le dimissioni.

Che a quella decisione dovesse arr ivare, e r ano in molti a p reveder lo . Ma pe rché l'avesse a tal p u n t o precipitata, dal giorno al l ' indomani, senza un minimo di preparaz ione , sen­za nessun tentat ivo di t r a r r e dalla sua qua lche c o m p a g n o del diret torio, era e r imane un g ran mistero. Il giornale, per lui, era non soltanto il mezzo pe r far sentire la sua voce, ma

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anche la sua unica risorsa di vita. Infatti, dalla sera alla mat­tina, si trovò sul lastrico, senza una lira in tasca, e potè tira­re avanti solo grazie a duemila lire mandategl i dal segreta­rio della Federazione dei Lavorator i del Mare, il sindacali­sta Giulietti. Cont ravvenendo all 'ordine di non muoversi da Forlì, accorse Rachele con la bambina , p e r essere accanto nel m o m e n t o difficile a l suo u o m o , ma anche pe r r e cupe ­rarlo. E ora bisognava provvedere anche a loro.

Molti storici, fra cui anche De Felice, avanzano il dubbio che il suo non fosse stato affatto un salto nel buio in quanto ave­va già solide garanzie di po te r lanciare un nuovo giornale. Chi scrive crede di poter lo escludere sulla base delle confi­denze fattegli in tempi non sospetti (1937) da colui che glie­le avrebbe fornite, Filippo Naldi, allora fuoruscito a Parigi. Naldi era nel '14 di re t tore del Resto del Carlino di Bologna. Secondo qualcuno, sarebbe stato lui a «lavorare» Mussolini per indur lo a passare dalla par te dell ' interventismo su inca­rico del Ministro degli Esteri San Giuliano. Con me , Naldi smentì questa voce e me ne dimostrò l 'infondatezza con d u e a rgoment i che mi s embrano inoppugnabi l i : egli e ra u o m o di Giolitti, n o n di San Giuliano, e questi non era affatto in­terventista. Da quanto mi disse, le cose si e rano svolte così:

Q u a n d o Mussolini lasciò VAvanti!, sebbene ne fosse stato r icoperto d ' ingiurie, Naldi si precipitò a Milano, e si offrì di f inanziargl i un nuovo giornale. Solo chi n o n ha conosciuto Naldi p u ò stupirsi dell'offerta e annusarci sotto Dio sa quali intrallazzi. La verità è che Naldi avendo il fiuto degli uomi­ni, e specialmente dei giornalisti, aveva capito che su Mus­solini c'era da pun ta re . E, sebbene soldi n o n ne avesse nem­m e n o lui, era sicuro di p o t e r n e t rovare pe r i l lancio «d 'un cavallo di quella razza». Altrettanto sicuro era di poter lo do­mare e strumentalizzare come elemento di ro t tu ra del fron­te socialista. Infatti, anche q u a n d o il fascismo lo costrinse a r i pa ra re all 'estero, seguitò sempre a pa r la re di lui, con un misto di dispet to e di tenerezza, ma senza mai vena tu re di

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odio, come di un «ragazzaccio» fuorviato da cattive compa­gnie.

Mussolini, sulle p r ime , n o n voleva n e m m e n o riceverlo, e all'offerta di dena ro si adombrò . Ma Naldi, ch 'era u n a sire­na, provvide subito a rassicurarlo: sarebbe stato, disse, de­naro pulito e senza condizionamenti : Mussolini sarebbe sta­to libero di difendere le cause che voleva, senza r i sponder­ne a nessuno. E su questa condizione l 'intesa fu raggiunta . Resta da sapere dove Naldi attinse il mezzo milione che poi versò a Mussolini . A me disse che lo r agg rane l lò da var ie par t i interessate non all ' intervento, ma alla ro t tura del fron­te socialista. Ma negò recisamente di averlo avuto dal l 'am­basciatore francese, Bar rè re , e di questo sono oramai tutti, o quasi tutti persuasi . Dai francesi ricevette aiuti p iù tardi , ma gli vennero dai socialisti. Mussolini non cambiò idea pe r p r e n d e r e dei soldi. Prese dei soldi pe r difendere la sua idea.

E su questa idea, caso mai, che forse commise un e r ro re . Lanc iando II popolo d'Italia, egli c redeva p robab i lmen te di t rascinars i d ie t ro il pa r t i to socialista, o a l m e n o di c rearvi una forte scissione. Glielo aveva fatto c rede re la valanga di consensi che gli era piovuta addosso da par te di quei g r u p ­pi sindacalisti, riformisti , repubbl ican i ed anche anarchici che si stavano conver tendo all ' interventismo. Ma aveva sot­tovalutato la compattezza del part i to con cui ora doveva fa­re i conti.

Il popolo d'Italia uscì il 15 novembre , vent ic inque giorni d o p o le dimissioni di Mussolini àa\YAvanti! In tre set t imane Naldi aveva trovato u n a vecchia tipografia e allestito u n a re­dazione di poche s tamberghe ammobil ia te con casse e cas­sette. In d u e ore era già esauri to nelle edicole, e nei giorni successivi la t i ra tura non fece che a u m e n t a r e fino alle 100 mila copie. Sotto la testata, esso recava la dici tura: «Quoti­diano socialista». Ed era soprat tut to questo a dis turbare Ì'A-vanti! che passò alla controffensiva lanc iando il r i tornel lo : «Chi paga?»

Il 24 Mussolini fu convocato di fronte alla sezione sociali-

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sta milanese, cui era iscritto, pe r r i spondere del «tradimen­to». E vi si presentò . Fu u n a scena da «tribunale del popolo» che tuttavia n o n dovette dispiacere al suo teatrale tempera­men to . Alla presenza di Serrat i , Balabanoff e altri massimi dir igenti , egli fu sottoposto a un autent ico linciaggio in un coro d' insulti , fischi e schiamazzi. Q u a n d o fu chiamato sul palcoscenico pe r difendersi, fu bersagliato da u n a g rand ine di mone t ine che volevano dire: «Venduto». Invano Serrati , p e r dargli m o d o di par lare , si sbracciava a chiedere silenzio. Te r r eo in volto e màd ido di sudore , Mussolini riuscì solo a far t raudi re qualche frase smozzicata: «Sono p ron to a sotto­m e t t e r m i a qualsiasi commiss ione d ' inchiesta. . . Sono e ri­m a n g o un socialista...» Alla fine, a lzando la voce fino a do­m i n a r e il t umul to , gr idò: «Voi c rede te di p e r d e r m i . V'illu­de te . Voi mi odia te p e r c h é mi ama te ancora. . .» Le u l t ime parole si perse ro fra urli e sghignazzate.

Cinque giorni d o p o la Direzione si r iunì al gran comple­to p e r e s a m i n a r e i l caso. Alcuni p r o p o s e r o di s o t t o p o r r e Mussolini a inchiesta, ma l 'espulsione era o rmai decisa: re ­stava solo da sceglierne la motivazione. Zerbini ed altri chie­sero che venisse p ronunc ia t a pe r indisciplina. Ma Serrati e la Balabanoff furono irremovibili e t rascinarono la maggio­ranza: Mussolini veniva radiato pe r «indegnità morale».

U n a cer ta r eaz ione in seno alla «base» ci fu. Al Circolo Ca t t aneo 300 giovani socialisti secessionarono dal par t i to , altri g r u p p i in L o m b a r d i a e R o m a g n a p rese ro le par t i del «perseguitato» sino a farsi espellere. Ma il g r a n d e scisma in cui forse Mussolini aveva sperato n o n ci fu: la forza coagu­lante che sempre spr igionano i partiti di massa ebbe la me­glio e p iano p i a n o r iassorbì pa recch i di que i t ransfughi . Plausi e ades ioni p iovvero invece da altri g r u p p i . A n o m e della Voce, Prezzolini gli telegrafò: «Partito socialista ti espel­le, Italia ti accoglie», Salvemini gl'invio un caldo messaggio, e tutta la s tampa dell ' interventismo di sinistra - radicale, re­pubb l icano e socialista r i formista - si schierò compa t t a in suo favore. Par t icolarmente entusiasta fu il Fascio Rivoluzio-

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nano di Azione Internazionalista che si e ra costituito ad opera dei sindacalisti co r r idon ian i . Sicché Mussolini m a n t e n n e i suoi galloni di Generale , ma di un altro esercito.

Alcuni suoi apologet i scrissero p iù ta rd i che fu ques to esercito a trascinare, sotto il suo comando , l'Italia in guerra . Questo è falso. Sotto la bandie ra dell ' interventismo si schie­rava un coagulo di forze disparate che n o n riuscirono mai a fondersi, e che si possono a g g r u p p a r e in t re blocchi. Il p iù consistente e agguer r i to era quello di destra, domina to dai nazionalisti, che avevano il loro ba rdo in D'Annunzio. Le sue schiere n o n e r ano numerose , ma potevano contare sull 'ap­poggio di buona par te della cultura e dei giornali che eserci­tavano la più forte influenza sull 'opinione pubblica modera­ta, Corriere della Sera in testa. Esso voleva la gue r ra non tanto p e r i l riscatto delle province i r r e d e n t e , quan to pe r la p r o ­mozione dell'Italia al rango di Grande Potenza militare e co­loniale. Poi c 'era il blocco di cen t ro , costituito dai socialisti riformisti di Bissolati, dai radicali e da u n a par te dei r epub­blicani che vedevano nell ' intervento la difesa degl'ideali de­mocratici, in omaggio ai quali essi r inunziavano a qualsiasi annessione di te r re etnicamente n o n italiane. Terzo, il blocco di sinistra, cui facevano capo la frazione più estremista dei repubblicani, gli anarchici dissidenti e i Fasci di azione che, in omaggio al concetto sorelliano della «violenza levatrice della Storia», vedevano nella g u e r r a il prologo e lo s t rumento di u n a rivoluzione che spazzasse via la vecchia Italia e tut te le sue istituzioni, a cominciare dalla Monarchia.

Il popolo d'Italia p rese subito le dis tanze dai nazionalisti che a loro volta n o n r iconobbero mai in Mussolini un loro alleato, e anzi lo t r a t t a rono s e m p r e con avversione e diffi­denza. Ma seppe abilmente conciliare le tesi di tutto l 'inter­vent ismo democra t i co , di cen t ro e di sinistra, che n o n di­sponeva di altro quotidiano. Così egli si trovò accanto ai Bis-solati, ai Bonomi, ai Cabrini che t re anni p r ima aveva fatto espellere dal part i to, e che furono i pr imi a tendergli la ma­no. Ques to coacervo di forze ebbe certo la sua impor tanza

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per l 'entrata dell 'Italia in gue r ra in quanto rompeva il fron­te della sinistra pacifista, ma n o n ne fu l 'e lemento decisivo: l 'uditorio a cui si rivolgeva, le masse socialiste e cattoliche, r imase ro sorde ai suoi appel l i anche p e r c h é compos te in g ran par te di analfabeti. D'Annunzio e il Corriere della Sera, che si r ivolgevano alla borghes ia , p e s a r o n o mol to p iù di Mussolini, il quale dovet te t rovare in questo la verifica del suo vecchio convincimento che a contare e r ano solo le mi­noranze .

Fra i collaboratori del Popolo d'Italia c 'era di tut to , da Prez­zolini a Papini a N e n n i a Maria Rygier, ma il g r u p p o p iù compat to era quello dei sindacalisti, capeggiati da Panunzio e Lanzillo. C'era u n o dei maggiori poeti del t empo, Umber ­to Saba. E c 'era anche , p iù piacevole e m e n o ingombran t e della Balabanoff, u n a bella ebrea dai capelli rossi: Marghe­rita Sarfatti, che al d i r e t t o r e n o n pres tava sol tanto la sua penna . Salvemini non si era arruola to nella pattuglia, ma la secondava vigorosamente dal di fuori, come facevano Cor­r idoni e De Ambris.

Mussolini t enne la rot ta polemizzando aspramente sia coi nazionalisti che coi socialisti, passati subito all'attacco sul so­lito r i torne l lo : «Chi paga?» Era u n a volgare ca lunn ia cui Mussolini r ispose con u n a ca lunnia n o n m e n o volgare: ri­s foderando con t ro Serra t i la vecchia accusa di spionaggio lanciatagli dagli anarchici . Egli ebbe anche d u e duelli, con Mer l ino e con Treves. Verso il gove rno Sa landra , assunse u n a posizione di stimolo, ma anche di sostanziale appoggio. Secondò i Fasci di azione rivoluzionaria nel loro tentat ivo di fondere sotto la loro band ie ra tutto l ' interventismo di sini­stra. Ma q u a n d o questo decise di forzare la m a n o al gover­no p r o v o c a n d o un inc idente alla f ront iera con l 'Austria, Mussolini lo richiamò al senso della realtà. «Dire che noi fa­r emo la rivoluzione pe r o t tenere la guer ra , è dire u n a cosa che n o n p o t r e m o m a n t e n e r e : n o n ne abbiamo la forza.» E caldeggiò la redazione di un documen to con cui tutti gl'in-

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terventisti di sinistra, fascisti e sindacalisti compresi , s ' impe­gnavano a sostenere anche la Monarchia se questa si fosse decisa a c o n d u r r e l'Italia all ' intervento.

Via via che si avvicinava il «Maggio radioso», la sua pole­mica coi nazionalisti s'intiepidiva, men t re quella contro i so­cialisti e i giolittiani assumeva toni sempre più aspri. «Tu mi chiedi cinque r ighe di prosa pe r Giolitti - scrisse a Prezzoli-ni -. Ecco: io vorrei somministrargli cinque palle di revolver allo stomaco.» Il 6, sotto il titolo E l'ora, dedicò un entusia­stico c o m m e n t o al discorso di D 'Annunz io a Q u a r t o . E q u a n d o Salandra, che in tutta segretezza si e ra già impegna­to a L o n d r a con gli Alleati a dichiarare la guer ra , accorgen­dosi che il Par lamento era in maggioranza neutralista, die­de le dimissioni, Mussolini uscì con questo appello: «Popolo di Milano, a te la parola. Occupa le strade e le piazze. II tuo grido sia: o gue r ra o rivoluzione». Ma era disfatto perché al­la rivoluzione n o n ci credeva, e parlava perfino di suicidio. Poi il Re riconfermò Salandra, la gue r ra fu dichiarata, e co­loro che l 'avevano voluta c i a n d a r o n o , da C o r r i d o n i allo stesso Bissolati che, malgrado i suoi quasi sessantanni , si ar­ruolò come sergente fra gli alpini.

Mussolini avrebbe voluto segui rne l 'esempio, ma la sua d o m a n d a di r ich iamo fu accantonata . Subito i socialisti ne approfi t tarono pe r lanciare contro di lui un nuovo ri tornel­lo: «Armiamoci e partite». Ma ancora u n a volta si trattava di calunnia. Mussolini aveva scomodato tutti i suoi amici di Ro­ma pe r o t tenere il r ichiamo. Lo Stato Maggiore era ostile ai volontar i , e specia lmente a quelli di or ig ine socialista, che considerava agenti d ' inquinamento pe r la t ruppa . Per rive­stire il gr ig ioverde , egli dovet te aspet tare la mobil i tazione della sua classe, che avvenne alla fine di agosto.

Al fronte, secondo i suoi apologeti , Mussolini si sarebbe compor ta to da eroe; secondo i suoi detrat tori , da imboscato o quasi. Il più fedele alla verità è stato lui stesso, nel Diario che pubblicò a punta te nel suo giornale. Atti di g ran valore n o n ne compì, forse anche perché gliene mancò l'occasione.

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Ma fu un b u o n soldato, coraggioso e disciplinato. I galloni di caporal maggiore non gli furono di certo concessi pe r un r iguardo alla sua persona. U n a circolare di Cadorna racco­mandava di tenere sotto stretta sorveglianza gl'interventisti socialisti, che oltre alla diffidenza dei Comand i subivano l'o­stilità dei compagn i . La sua d o m a n d a di ammiss ione a un corso pe r allievi ufficiali venne respinta, e un giorno egli si sentì apos t rofare da un fante in quest i t e rmin i : «Ho u n a b u o n a notizia da dart i : h a n n o ammazzato Corr idoni . Ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti!» Questo era lo stato d 'animo che regnava nelle trincee.

Alla fine di febbraio del '17 un lanciabombe scoppiò vici­no a lui, e u n a gragnuola di schegge lo investì. Gli se ne con­ficcarono in tut te le par t i del corpo, ma specialmente nelle gambe, sicché arrivò all 'ospedale quasi dissanguato. Le pin­ze del chi rurgo dovet tero lavorare a lungo pe r estrargliele, e solo dopo un paio di mesi potè ricominciare a camminare , ma con le grucce. In g iugno fu congeda to p e r invalidità, e potè riprendere il suo posto alla direzione del giornale.

Era t empo perché , senza di lui, Il popolo d'Italia aveva perso smalto e lettori, e anche la sua linea politica aveva subito pa­recchie oscillazioni. Mussolini lo rimise sulla sua rot ta origi­na r i a di o r g a n o de l l ' in te rven t i smo democra t i co , e ve lo m a n t e n n e sino a Caporet to . Alla disfatta militare egli fu tra i pochi che seppero reagire senza p e r d e r e la testa né cadere nell'isterìa. Ma anche in lui il contraccolpo ideologico fu vio­lento. Come nota g ius tamente De Felice, f in allora egli e ra rimasto un socialista, sia p u r e «dormiente». O r a dal sociali­smo cominciò a staccarsi forse anche pe rché l 'esperienza di trincea gli aveva dimostrato l'impossibilità di far breccia nel­le masse. L'unica carta su cui poteva p u n t a r e e r a n o i com­battenti che, u n a volta congedati , avrebbero avuto i loro va­lori da difendere e loro rivendicazioni da avanzare.

La sterzata in questa nuova direzione fu lenta, ma conti­nua . Caldeggiando il p roge t to di assegnare in p rop r i e t à le

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t e r r e ai futuri r educ i contadini , scriveva: «È t empo che la Patr ia offra ai combat ten t i l 'at testazione della sua r icono­scenza e della sua fiducia». E questo era perfettamente into­na to alla sua p r e c e d e n t e l inea socialista. Ma, aggiungeva, pe r assicurare alle masse rurali questo beneficio, ci vuole la vittoria. E la vittoria richiede il massimo sacrificio, anche di certe libertà. «Un conto è la democrazia; un conto è la con­dot ta democrat ica , o piut tosto pa r l amenta re della guer ra : la p iù sublime delle s tupidi tà umane» In t empo di guer ra , Roma democra t ica accettava la dit tatura.» Il 1° agosto del '18, q u a n d o ormai il fiato degli austriaci inchiodati sul Piave cominciava a farsi cor to , dalla testata del Popolo d'Italia scomparve il sottotitolo: «Quotidiano socialista», e fu r im­piazzato da quel lo di: «Quot id iano dei combat tent i e dei produt tor i» . Nell'articolo di fondo il direttore spiegava così il cambiamento: «Quel socialista che figurava in testa al gior­nale aveva senso nel 1914 e voleva dire che nel 1914 si pote­va essere socialisti - nel vecchio senso della parola - e nello stesso t empo favorevoli alla guerra . Ma in seguito la parola socialista e r a d iven ta ta anacronist ica. Non mi diceva più n ien te . Offriva anzi tut t i gl ' inconvenienti della possibile confusione con gli altri...»

C'è chi vede , in ques to m u t a m e n t o di divisa, un fatto t raumatico, un r innegamento , una rot tura di Mussolini col suo passato. Noi c red iamo che sia più esatto par lare di un suo r i torno alle origini. Mussolini non fu mai un vero socia­lista. Anche q u a n d o spiccava nel partito come figura di pri­mo piano, n o n lo amava e ne disprezzava gli altri dirigenti. Usava ques ta qualifica come un'et ichet ta di comodo pe r conquis tare le masse, alle cui sorti era del tutto insensibile - come aveva ben visto la Balabanoff - e che gl'interessava-no soltanto come «materiale rivoluzionario» per la conqui­sta del potere , il suo potere . Quando si avvide - e se ne avvi­de in trincea - ch'esse non potevano essere usate nemmeno pe r questo perché di potenziale rivoluzionario non ne ave­vano, r i tornò alla sua vera matrice ch'era quella anarco-sin-

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dacalista e superomista, cioè al solito miscuglio di Nietzsche e di Sorel. Di lì e ra venuto . E lì tornava.

P robab i lmen te alla s terzata con t r ibu ì anche un motivo più pedes t re : le difficoltà economiche in cui II popolo d'Italia si dibatteva. Subito d o p o il cambio del sottotitolo, comparve sul g iorna le mol ta pubblici tà . Era i l r i ng raz i amen to dei «produt tor i» all 'ex-socialista che riconosceva le loro bene ­merenze e la legittimità dei loro interessi. E fra di essi i più solleciti furono i fratelli Per rone , che dominavano i potent i g r u p p i della «Ansaldo» e del la Banca I ta l iana di Sconto. L'Ansaldo aveva fabbricato e vendu to al governo più di un­dicimila cannoni , quat t romila aeroplan i e quasi cento navi da guer ra , r icavando da queste forniture profitti proporzio­nati , o forse sproporzionat i . Che qualche briciola di questi profitti sia f inita n o n nella tasca di Mussolini ( l 'uomo era, p e r s o n a l m e n t e , inaccessibile a l d e n a r o ) , ma nelle esangui casse del suo giornale, è stato det to, ma n o n è stato provato. Di provato c'è solo la massiccia pubblicità che le aziende An­saldo cominciarono a fare sul Popolo d'Italia. Ma ancora u n a volta n o n cadiamo in abbaglio. Mussolini n o n cambiò rotta pe r o t tenere soldi. O t t enne soldi perché aveva cambiato rot­ta. Questo cambiamento lo avrebbe opera to anche se non ci fosse stato da guadagna re nulla: glielo det tavano il fiuto e il calcolo politico, sua unica e suprema bussola.

La vittoria colse di sorpresa anche lui. Ai p r imi di otto­b re aveva scritto che bisognava p repa ra r s i a un altro a n n o di g u e r r a e che n o n impor tava se questa si fosse decisa sui campi di battaglia francesi invece che su quelli italiani. Era quello che pensavano anche Diaz e Badoglio che n o n vole­vano p r e n d e r e l'offensiva. Ma subito si contraddisse: biso­gnava «restituire Caporetto», e la vittoria doveva essere ita­liana. N o n se l 'aspettava così rap ida e facile. Q u a n d o venne, scrisse t r ionfalmente che nessun altro esercito ne aveva ri­por ta ta di così vaste proporzioni . Ma sotto i toni trionfalisti­ci covava l'assillo di un dopo, a cui n o n era p repara to .

Il suo p r i m o tenta t ivo fu di coagu la re i n t o r n o a sé e al

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suo giornale tu t to l ' in tervent ismo sia di des t ra che di sini­stra, e p e r real izzarlo lanciò il p r o g e t t o di u n a Costituente che, sotto l 'egida degli ex-combattenti avrebbe dovuto por­re su nuove basi la società italiana facendovi largo posto ai lavorator i . Fu un e r r o r e . I l f ronte in tervent is ta o r m a i e ra rot to , e p e r r icucirne i t ronconi - quello nazionalista, con­servatore e monarchico , e quello democrat ico, progressista e r epubb l i cano - , n o n bastava i gno ra r e i l p r o b l e m a istitu­zionale, come faceva Mussolini. La propos ta cadde, e Mus­solini r imase un Generale alla ricerca di un esercito.

I pr imi a fornirgli reclute furono i futuristi, che da movi­m é n t o cul turale stavano t e n t a n d o di t rasformarsi in movi­men to politico senza tuttavia riuscire a coagulare in un p ro ­g r a m m a i loro cont raddi t to r i impulsi . In c o m u n e avevano solo il passato d ' intervent is t i e valorosi combat tent i . Per il resto, c 'era di tut to, dal nazionalismo al sovversivismo anar­chico, t enu t i ins ieme da un att ivismo fine a se stesso: n o n p e r nul la il lo ro m o t t o e r a marciare, non marcire. Essi p e r ò e r ano riusciti a legare al loro ca r ro gli arditi che to rnavano dalle t r incee con la nostalgia della violenza, e b e n decisi a p e r p e t u a r l a . I fasci n a c q u e r o dalla loro fusione. Nel feb­braio del ' 19 ce n ' e rano già una ventina.

Per i futuristi e pe r il loro capo Marinetti , Mussolini non aveva mai avuto molta simpatia: l i considerava poco m e n o che ciarlatani, anche se dal '15 in poi li aveva trattati da al­leati e di loro si e ra avvalso nella c o m u n e lotta p e r l ' inter­vento . Con gli ardit i invece aveva stabilito fin dappr inc ip io buon i rappor t i , tanto che aveva anche par tecipato ad alcu­ne loro a d u n a t e . Il pa t to fra loro si saldò IT 1 genna io del T 9, in occasione del discorso di Bissolati alla Scala.

Mussolini nutr iva pe r Bissolati un affetto, fra i cui ingre­dienti forse c'era anche il r imorso. Sette anni p r ima era sta­to lui a farlo scacciare dal part i to socialista al te rmine di u n a veemen te requisi tor ia in cui lo aveva tacciato di t rad i tore . Poi si e r ano ritrovati sulla barricata interventista, e Bissolati n o n solo gli aveva pe rdona to l 'aggressione, ma lo aveva an-

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che efficacemente aiutato a supera re le sue difficoltà. Ma ol­t re a questo c 'era anche il r ispet to che l 'uomo ispirava p e r quelle alte quali tà moral i che facevano di lui l ' incontestato leader dell ' interventismo democratico.

Pochi giorni p r ima , Bissolati si e ra dimesso da Ministro pe r protesta contro Or lando e Sonnino che insistevano pe r l 'annessione della Dalmazia. Lo aveva fatto goffamente, da quel maldestro u o m o politico che era, senza fornirne i moti­vi, senza n e m m e n o in fo rmarne i c o m p a g n i di pa r t i to che infatti e r ano rimasti al governo. In te rmini amichevoli, ma fermi, Mussolini lo aveva invitato a spiegarsi . E Bissolati aveva risposto indicendo un comizio alla Scala.

Di quella serata, Borgese fece nel suo Golia una ricostru­zione forse un po ' colorita dalla fantasia, ma sostanzialmente esatta. Palchi e platea erano in mano ai bissolatiani. Ma il log­gione era piantonato da futuristi e arditi. I dissensi comincia­rono fin dalle pr ime frasi, di cui Marinetti salutava la conclu­sione con u n o stentoreo amen! Presto urli e fischi soverchiaro­no la voce dell 'oratore che si smarr ì e prese a leggere i suoi fogli senza più articolare i periodi, di furia, per sottrarsi il più presto possibile a quel martir io. A un tratto, fra le altre, egli distinse anche la voce sarcastica di Mussolini che gli gridava: «Rinunciatario!» Volgendosi ai vicini, mormorò : «No, lui no!» Poi, come annientato, ripose in tasca i fogli e uscì.

Mussolini cercò in seguito di farsene pe rdona re non lesi­nandogli prove di stima e di affetto. Ma la sua partecipazio­ne alla chiassata e r a stata calcolata. Aveva voluto r e n d e r e pubblica la sua ro t tu ra con l ' interventismo democratico e la sua sa lda tu ra coi fasci futuristi . Ma n o n si t ra t tava di u n a scelta di «destra», come poi frettolosamente si disse. Futuri­smo e ardit ismo n o n e rano catalogabili secondo questa con­venzionale terminologia perché den t ro il loro coacervo c'e­ra, lo abbiamo già de t to , tu t to e il con t ra r io di tu t to . Fra i suoi militanti ne r i t roveremo alcuni con D'Annunzio contro Mussolini, altri con gli «arditi del popolo» che t en te ranno di organizzare u n o squadr i smo rosso con t ro quello n e r o , ed

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altri ancora che si a r ruo la rono sotto le bandie re repubblica­ne , fra le più impavide nella resistenza al fascismo.

Il 2 m a r z o II popolo d'Italia indisse p e r il g io rno 23 u n a g r a n d e a d u n a t a di combat tent i ed ex-combattent i nella se­de dell'Alleanza Industr ia le e Commerciale in piazza S. Se­polcro a Milano. «Sarà un ' aduna t a importantissima» diceva il comunica to . Il 9 l'invito fu r ipe tu to , e stavolta motivato: «Il 23 marzo sarà creato l 'antipart i to, so rgeranno i Fasci di C o m b a t t i m e n t o con t ro d u e pericoli : quel lo misoneis ta d i destra e quello distruttivo di sinistra». Solo il 18 pe rò Mus­solini scese di p e r s o n a in lizza d e d i c a n d o a l l ' avvenimento un articolo che ne spiegava il significato: «Tenendoci fermi sul t e r r eno dell ' interventismo - né potrebb'essere al tr imen­ti, essendo stato l ' interventismo il fatto dominan te della Na­zione -, noi r ivendichiamo il diritto e proclamiamo il dove­re di trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi rivo­luzionari, la vita italiana». In che senso volesse trasformarla n o n lo diceva, o lo diceva con parole che di senso ne aveva­no poco: «Noi vogliamo l 'elevazione mater ia le e spir i tuale dei ci t tadini italiani», e via d ivagando . Il 21 v e n n e stilato l'atto di costituzione, e a firmarlo furono tre socialisti, o che si p roc l amavano tali: Mussolini , Fe r ra r i e Fe r rad in i ; d u e sindacalisti: Michele Bianchi e Giampaoli; e d u e arditi: Vec­chi e Meraviglia.

L ' indomani // popolo d'Italia annunc i ava che l 'iniziativa aveva riscosso un e n o r m e successo e che le adesioni fiocca­vano. In realtà, come risulta da un r appor to della polizia, i convenu t i a quel la ce r imonia di ba t tes imo, di cui p e r vent 'anni tutta l'Italia fu costretta a festeggiare solennemen­te la r i co r renza , n o n furono più di t r ecen to , anche se poi l 'onore di avervi partecipato fu rivendicato da parecchie mi­gliaia di pe r sone che in qualche m o d o r iuscirono a farselo riconoscere. I l g r u p p o più compat to era quello dei sindaca­listi e degli anarchici che d u r a n t e la c a m p a g n a p e r l ' inter­vento avevano dato vita ai Fasci di azione rivoluzionaria sot­to le band ie re di Cor r idon i e De Ambris. Un al tro g r u p p o

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era quel lo dei «trinceristi», fra i quali spiccavano na tu ra l ­m e n t e gli ardit i . Poi c 'era la pat tugl ia dei futuristi, guidata p e r s o n a l m e n t e da Marinet t i . E infine un cer to n u m e r o di avventizi, transfughi da altri movimenti e parti t i - tutti pe rò di Sinistra - , fra i quali Farinacci. Dei loro n o m i n o n resta traccia pe rché già al p r imo congresso dei Fasci, che si t enne d u e a n n i d o p o a F i renze , quest i n o m i e r a n o scompars i , e anzi parecchi di essi figuravano nel campo avversario.

Gli umor i di questa assemblea si possono d e d u r r e dal di­scorso che t enne Mussolini, agli umor i sensibilissimo e sem­pre p ron to a intonarvisi. Chiese l'abolizione del Senato, l'e­stensione del voto alle d o n n e , la convocazione di un'Assem­blea nazionale che decidesse la forma istituzionale e in cui i Fasci avrebbero sostenuto la causa repubblicana, e u n a r ap ­presen tanza basata n o n più sugl ' interessi ideologici ma su quelli di categoria professionale, cioè il r i torno alla «corpo­razione». Ma il tu t to in un tono così demagogicamente po­pulista che al suo confronto Michele Bianchi , che prese la parola dopo di lui, sembrò Cavour.

// popolo d'Italia pa r lò di g r a n d e successo e scrisse che i Fasci si stavano diffondendo pe r tutto il Paese. In realtà dal­l ' adunata di S. Sepolcro n o n e ra uscito nulla di concre to e quan to alla diffusione dei Fasci, alla fine di quel l 'anno 1919, con tavano in tu t t a la penisola m e n o di mille ade ren t i . Lo stesso Mussolini , cui d ' a l t ronde n o n e ra stata r iconosciuta nessuna qualifica di capo, lo considerò un fiasco, e lo d imo­stra lo scarso interesse con cui ne seguì gli sviluppi. Se il Fa­scio ne ebbe sul p i ano ideologico, ques to fu dovu to n o n a lui, ma a De Ambris.

De Ambris n o n aveva partecipato alla serata, e n e m m e n o in seguito fece at to di ades ione, r i t enendo la incompatibi le con la sua carica nella usi , che s ta tutar iamente vietava l 'ap­p a r t e n e n z a a organizzazioni poli t iche. Ma nella sua rivista Rinnovamento egli appoggiò ape r t amen te il Fasciole insieme a Lanzillo e a Panunz io cercò di dargli un c o n t e n u t o p r o ­grammat ico che prevedeva la nazionalizzazione delle Ban-

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che, un f i sco sp ie ta tamente livellatore, l ' espropr iaz ione di tu t ta la t e r r a n o n coltivata d i r e t t a m e n t e dal p rop r i e t a r i o , quella dei profìtti industriali , delle case ad affitto, e dei pa­t r imoni superiori ad un certo ammonta re . Insomma, i l col­po di grazia al capitalismo.

Mussolini n o n mosse obbiezioni sempl icemente p e r c h é n o n c redeva al l 'at tuabil i tà d i un simile p r o g r a m m a , che avrebbe richiesto u n a mobilitazione di masse, ormai inqua­d ra t e e congelate nei d u e g rand i part i t i , quello socialista e quello popolare . Si dice che in questo per iodo egli fece qual­che tentativo di riavvicinamento ai socialisti. Ma è una voce basata su elementi molto labili. E comunque questo tentati­vo, anche se ci fu, d u r ò poco, fino al 15 aprile del '20.

Que l g i o r n o i socialisti avevano inde t to al l 'Arena un g r a n d e comizio d i p ro tes t a p e r c h é in un conflitto d i d u e giorni p r ima con la polizia, c 'erano scappati un mor to e al­cuni feriti. Nazionalisti, arditi e allievi ufficiali inscenarono u n a cont rodimost raz ione nelle vie del cent ro dove si scon­t ra rono coi reduci dell 'Arena. Li aggred i rono a bastonate, li misero in fuga, poi assalirono la sede dell'Avariti! e la deva­starono. Esercito e polizia fecero poco pe r impedi re il taffe­ruglio, al t e rmine del quale res tarono sul selciato t re mort i e u n a quaran t ina di feriti.

L'episodio, il p r imo di controffensiva squadrista organiz­zata, fece e n o r m e impress ione in tut ta Italia, le organizza­zioni dei lavoratori band i rono lo sciopero generale, e gli ar­diti dovet tero mon ta re la guard ia a rmata alla loro sede, che pe r questo da allora si chiamò // covo. Nell 'accaduto, Musso­lini n o n aveva responsabilità, e forse in cuor suo lo deprecò . Ma sul giornale dovette approvar lo definendolo «movimen­to spontaneo di folla, movimento di combattenti , di popolo, stufi del ricatto leninista», pe r non rompe re con gli unici al­leati di cui in quel m o m e n t o disponeva. Ma questo implica­va la r inunzia a qualsiasi speranza di proselitismo nelle mas­se socialiste, rigettate dal sangue fra le braccia del loro par­tito. Cercò di r iagganciare gl ' interventisti democrat ici , ma

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questi non gli avevano pe rdona to la gazzarra inscenata alla Scala contro il loro idolo.

A t rar lo da quella si tuazione che sembrava senza uscita fu la questione fiumana. Alla conferenza della pace di Pari­gi, i nostri rappresentant i Or lando e Sonnino avevano rice­vuto dal Pres idente amer icano Wilson un secco no alla ri­chiesta della Dalmazia, promessaci dal pat to di L o n d r a del '15, e di Fiume che si era aggiunta alle altre pretese italiane pe r p ronunc i amen to dei suoi stessi abitanti. Vedendo vane le loro insistenze, avevano abbandonato il consesso, convin­ti che questo li avrebbe richiamati, ed e rano rientrat i a Ro­ma, dove u n a folla ubriaca di parole e avida di gesti teatrali, li aveva accolti come trionfatori. Erano soltanto degli scon­fitti, e p iut tos to malaccort i pe r ché fu subito chiaro che gli Alleati e rano decisi a concludere anche senza di noi e a no­stre spese.

Mussolini, che fin allora aveva sempre sostenuto, sia pu­re cr i t icamente, O r l a n d o , p laudì alla sua incauta ri t irata e chiese a gran voce che l'Italia procedesse di forza all 'annes­sione di Fiume e della Dalmazia. E q u a n d o Or l ando invece to rnò con la coda fra le gambe a Parigi, r u p p e con lui e lo attaccò ferocemente. Come in seguito dimostrò, non ardeva affatto di en tus iasmo pe r la Dalmazia. Ma sulla r ivendica­zione di Fiume anche l ' interventismo democratico era una­nime. E met tendosene alla testa, Mussolini usciva dall'isola­mento .

«Quando la diplomazia non avrà più niente da dire, par­lerà qualcun altro, e sarà il popolo fiumano e, accanto, tut to il popolo italiano» scrisse, r iecheggiando alcune dichiarazio­ni di D 'Annunzio , che p r o p r i o sulla ques t ione di F iume si p r e p a r a v a a r i en t r a r e in scena da pro tagonis ta . Mussolini gl'invio un te legramma di plauso e poi una lettera in cui di­chiarava di met te rs i «ai suoi ordini» . Il Poeta gli r i spose: «Sono p ron to . Siamo pron t i . La più g r a n d e battaglia inco­mincia e io vi dico che avremo la nostra quindicesima vitto­ria». Il 23 giugno i d u e uomini s ' incontrarono a Roma. Del

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loro colloquio n o n è rimasta nessuna testimonianza. Ma dal seguito degli avveniment i sembra d i po te r d e s u m e r e che , a n c h e se s ' intesero sul da farsi, n o n p r o v a r o n o l ' uno p e r l 'altro nessun t rasporto .

L'incontro col Poeta riabilitò Mussolini agli occhi dei nazio­nalisti. Per la pr ima volta essi gli dettero dei segni di simpatia, dei quali egli si mostrò più imbarazzato che lusingato. Il suo sogno restava quello di r i compor re in to rno a sé il vecchio fronte delle sinistre interventiste. E il momento sembrava fa­vorevole. Anch'esse e rano schierate pe r Fiume. E anch'esse erano ben decise ad opporsi al grande sciopero - il cosiddetto scioperissimo - che i socialisti avevano in an imo di band i re in tutti i Paesi dell 'Occidente pe r protestare contro gli aiuti che questi mandavano agli eserciti russi fedeli allo Zar in rivolta contro il regime di Lenin. Per di più Nitti, salito al potere do­po la caduta di Or lando , aveva indetto pe r novembre le ele­zioni generali, che solo facendo blocco le sinistre interventiste potevano affrontare con qualche possibilità di successo.

Ancora u n a volta, Mussolini ci si provò, e carte da giuo-care ne aveva. Ispirato com'era da De Ambris , i l p r o g r a m ­ma del Fascio n o n differiva molto da quelli della usi e della UIL, e n e m m e n o da quello repubblicano. Le trattative si av­v ia rono bene , e nel cuore del l 'es tate p a r v e r o des t ina te al successo. Ma su un p u n t o l 'accordo si r ivelò impossibi le: l 'inclusione di Mussolini nella lista da presentare agli eletto­ri. Il suo nome , dissero quelli dell 'usi, ci al ienerebbe le sim­pat ie dei socialisti scontent i del loro par t i to , ma n o n p e r questo disposti a schierarsi col «traditore».

Questa fu, pe r Mussolini, u n a svolta decisiva. Visto nau­fragare l 'ultimo tentativo di r iagganciarsi alla sinistra, non gli restava altra scelta che quella di destra, in direzione dei nazionalisti. D 'Annunzio gliene forniva l 'occasione. Il 12 il Poeta gli scrisse da Venezia: «Mio caro compagno , il dado è t ra t to . Par to ora . Domat t ina p r e n d e r ò F iume con le a rmi . Sostenete la Causa v igorosamente d u r a n t e i l conflitto...» L ' indomani II popolo d'Italia titolò con un VIVA FIUME! a ca-

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ra t te r i di scatola, e sa t t amente come i giornal i nazionalisti . Anche pe r Mussolini sembrava che il dado fosse tratto.

L'impresa di Fiume l 'abbiamo raccontata ne LTtalia di Giolit­ti, e n o n vogliamo r ipeterci . Ma qui bisogna r iveder la dal­l 'angolatura di Mussolini pe rché fu su questa part i ta che si giuoco la sua sorte.

Cont ra r iamente a quan to in seguito scrissero i suoi apo­logeti, Mussolini n o n svolse ne l l ' impresa f iumana che u n a par te di «spalla». Il colpo fu organizzato da un g r u p p o di ir­redentist i di osservanza nazionalista, fra cui pr imeggiavano Giuriati e Host-Venturi. E riuscì grazie alla complicità delle t r u p p e dislocate nella zona, fra le quali il Poeta reclutò an­che parecchi volontar i . Sia lui che i suoi consiglieri e r a n o convinti che quel lo sarebbe stato l'inizio di un vasto «pro­nunciamento» militare che avrebbe costretto alle dimissioni il governo di Nitti e aper to la strada a u n a marcia di D'An­nunzio su Roma.

A questa eventualità Mussolini non credette mai. I pr imi giorni egli sostenne ca lorosamente l'iniziativa. Ma q u a n d o vide che l 'Esercito, p u r s impat izzando, n o n si muoveva , e che nel Paese essa n o n provocava contraccolpi di entusia­smo che nelle esigue schiere nazionaliste, comprese che i l suo bersaglio politico era fallito, e cominciò a p r e n d e r e cau­t amente le distanze. D'Annunzio se ne avvide subito. «Sve­gliatevi! E vergognatevi anche - gli scrisse -. Voi t remate di pau ra . E le vostre promesse? Bucate a lmeno la pancia che vi opp r ime , e sgonfiatela. Altr imenti ver rò io q u a n d o avrò consol idato qui i l mio po t e r e . Ma n o n vi g u a r d e r ò in fac­cia.» Un cicchetto in p iena regola, u n o dei tanti che gì'inflis­se, da super iore a subalterno. Mussolini salvò la faccia indi­cendo u n a sottoscrizione in favore di Fiume, che fruttò qua­si t re milioni di lire, e d ichiarandosi p r o n t o a secondare il Poeta in u n a marc ia su Trieste e a n c h e p e r u n o sbarco di suoi fedeli in Marche e Romagna p e r sollevarvi le popola­zioni e i s t au ra re la Repubbl ica : un p r o g e t t o nel qua le ci

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sembra molto improbabile che credesse. Ma a lmeno a paro­le n o n poteva dissociarsene: avrebbe perso la sua clientela ormai formata in g r ande maggioranza dai «fiumani».

Il 7 ot tobre , a b o r d o di un aereo, raggiunse il Poeta, ed ebbe con lui un colloquio di due ore, cui nessuno assistette. A quanto pare egli riuscì a dissuadere D'Annunzio dal p ren­de re altre iniziative dicendogli che pr ima conveniva vedere come sarebbero andate le elezioni e che, anche se l ' insurre­zione fosse riuscita, c 'era il pericolo che a i m p a d r o n i r s e n e fossero i sovversivi, i quali avevano in p u g n o le masse e po­tevano fargli fare la fine di Kerenski . Sulla via del r i to rno , dovette a t te r ra re pe r via del mal tempo presso Udine dove i carabinieri lo fe rmarono e lo condussero al Quar t ie r Gene­rale di Badoglio. Fu il p r i m o incont ro fra i d u e uomini , al t e rmine del quale il Generale riferì di aver trovato in Mus­solini un interlocutore ragionevole e modera to .

Pochi g iorni d o p o si ap r ì a F i renze il p r i m o congresso naz iona le dei Fasci. I de legat i d icevano di r a p p r e s e n t a r e o l t re 40 mila a d e r e n t i . Ma si t ra t tava di p r o p a g a n d a : gli aderen t i e r ano m e n o della metà. Mussolini ne fu l 'assoluto d o m i n a t o r e . Egli aveva l 'arte, grazie al cor to fraseggiato e al gesto p e r e n t o r i o , di a p p a r i r e dras t ico e r isoluto anche q u a n d o , invece di aff rontare i p rob lemi , li evadeva. «Noi s iamo degl i an t ipregiudiz ia l i s t i , degl i a n t i d o t t r i n a r i , de i problemisti ; non abbiamo pregiudiziali né monarch iche né repubbl icane»: ch ' e ra un m o d o d i n o n d i re nul la a v e n d o l'aria di d i re chissacché. Ma su u n a cosa fu esplicito: «D'An­nunzio n o n si muoverà pe rché tutti gli eventi sono favore­voli a lui». C o m u n q u e , il p r o b l e m a n o n e ra lui, ma le ele­zioni.

Perfet tamente conscio che, p resen tandos i da solo, il Fa­scio sarebbe anda to incontro a un clamoroso fiasco, Musso­lini si era ben guarda to dal p r e n d e r e posizione pe r lasciarsi aper te tutte le alleanze. Ancora u n a volta tentò quella con le sinistre interventiste, e ancora una volta fallì. Non gli resta­vano che gli arditi, i futuristi e i reduci di guer ra . A Milano

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si scelse come compagni di lista Marinetti , Podrecca, Ar turo Toscanini, Lanzillo e Ferrar i . Ai Fasci di tu t te le al tre città consent ì di far blocco con chi volevano, secondo le conve­nienze locali. Ma risultò che quasi tutti avevano bloccato a destra, coi nazionalisti e coi liberal-conservatori.

La campagna elettorale fu dura . Q u a n d o n o n e rano vuo­te, le piazze in cui si svolgevano i comizi fascisti e rano ostili. L'incolumità degli orator i e ra affidata a un p u g n o di legio­nari fatti venire appos i tamente da Fiume. Ma d'incidenti ce ne furono parecchi, e a Lodi ci scappò anche il mor to . Il ri­sultato fu in tono con questo preambolo . Nella circoscrizio­ne di Milano, su 270 mila voti, la lista capeggiata da Musso­lini n o n ne raccolse neanche cinquemila. In tutta Italia, l'u­nico fascista che riuscì fu un certo Coda in Liguria. I sociali­sti, che avevano r ipor ta to un clamoroso successo assicuran­dosi ben 156 seggi men t re 100 e rano andat i ai «popolari» di Don Sturzo, celebrarono i funerali di Mussolini p o r t a n d o n e in giro la bara. I fascisti reagirono lanciando contro un cor­teo socialista dei pe ta rd i che provocarono una diecina di fe­riti. Dopo una perquisizione, Mussolini, Marinetti , Vecchi e altri dirigenti vennero arrestati pe r detenzione di armi. Ma Nitti ne ord inò subito la scarcerazione anche su sollecitazio­ne del d i re t tore del Corriere della Sera, Luigi Albert ini che, pe r quanto ostile ai fascisti, e anzi p ropr io pe r questo, com­p r e n d e v a i l van taggio che quest i av rebbe ro t ra t to dalla «persecuzione».

Mussolini scrisse a D 'Annunz io u n a le t tera in cui fra le r ighe si legge l'invito a riconoscere quanto giusti fossero sta­ti i suoi consigli di p rudenza . Ma, aggiungeva, la situazione era meno nera di come sembrava: solo, bisognava da r tem­po al Paese di renders i conto che la nuova Camera era peg­giore di quella precedente . Dopodiché affidò il messaggio a De Ambris, r accomandandogl i di t enere sotto sorveglianza il bollente e imprevedibile Poeta.

A Fiume, De Ambris trovò un clima assai diverso da quel­lo che si aspettava. Svanito il sogno del «pronunciamento»

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militare e della Marcia su Roma, i nazionalisti avevano per­so quota , e fra i legionari si era fatta s t rada la speranza di realizzare il colpo d 'accordo coi socialisti. Uno di essi, Mario Carli, aveva pubblicato un opuscolo, II nostro bolscevismo, che terminava con queste parole: «Tra Fiume e Mosca c'è forse un oceano di tenebre . Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono d u e rive luminose. Bisogna, a l p iù pres to , get tare un pon te fra queste d u e rive». L'appello era stato raccolto an­che sull'altra sponda. Oltre al sindacalista Giulietti, anche il vecchio irriducibile anarchico Errico Malatesta si dichiarava p ron to a mettersi agli ordini di D'Annunzio. E, cosa ancora più incredibi le , perf ino Len in dichiarava che l 'unico vero rivoluzionario italiano era D'Annunzio.

Contagiato da questi umor i , De Ambris, ch 'era anda to a F iume pe r sorvegliare il Poeta, ne diventò invece il princi­pa le co l labora tore al pos to di Giuriat i . Fu lui infatti poco dopo a ispirargli e a redigere quella curiosa Costituzione di Stato corpora t ivo che si ch iamò la «Carta del Q u a r n a r o » , che p r e t e n d e v a fare di F iume u n a specie di Spar ta . D'An­nunz io vi aggiunse soltanto degli svolazzi estetici intagliati nel suo solito gusto decadente .

Per quan to irritato, Mussolini si gua rdò bene dal denun ­ciare questo «nuovo corso». Ma, pe r tagliargli la strada, ri­p rese con maggior violenza gli attacchi ai socialisti. La sua posizione si faceva sempre più difficile. La Sarfatti racconta che ogni t an to cadeva in p r e d a allo sconforto, par lava di vendere il giornale e di a n d a r e a guadagnars i il pane all 'e­stero come manovale o suonatore di violino. La t i ratura del Popolo declinava, alcuni redat tor i si dimisero ed egli non eb­be n e a n c h e di che pagargl i la l iquidazione, i Fasci e r a n o dapper tu t to in crisi, dilaniati dalla lotta intestina fra gli ele­ment i di destra e quelli di sinistra.

Sia p u r e a malincuore, Mussolini dovette decidersi a op­tare pe r u n a delle d u e an ime. Ma in realtà la scelta era già pregiudicata . D'istinto e vocazione, n o n c'è dubbio che fin allora egli e ra stato un u o m o di sinistra. Ma a sinistra n o n

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aveva r ipor ta to che smacchi e delusioni. Invano aveva cer­cato di r icucirne in torno a sé i litigiosi f rammenti . L'ultimo colpo a questo tentativo lo aveva dato il fiasco elettorale. Gli e lement i di or ig ine socialista, sindacalista, anarch ica e re ­pubblicana, fra i quali c 'era anche Nenn i che avevano for­mato il grosso dei pr imi Fasci, ne avevano già secessionato. Per colmare questi vuoti, n o n c'era che da spalancare le por­te a conversi di tutt 'al tra estrazione sociale e ideologica: stu­denti , ex-combattenti delle ultime leve desiderosi di pe rpe ­tuare l'«avventura», scampoli della piccola e media borghe­sia benpensan te e conservatrice che invece vedevano nel fa­scismo la «diga» cont ro la sovversione, e u n a crescente fa­lange di spostati in cerca di torbido in cui pescare.

Questa trasfusione di sangue, è difficile dire se Mussolini la provocò o l'accettò. Si p u ò solo di re che col suo istintivo oppor tun i smo, e con la scusa del «problemismo», egli aveva lasciato ta lmente nel vago l ' impalcatura ideologica del suo movimen to da consent i re a ciascuno d ' in te rp re ta r lo come meglio gli conveniva: che fu la caratteristica del fascismo an­che dopo essere diventato regime. C o m u n q u e , q u a n d o nel maggio del '20 i Fasci t ennero a Milano il loro secondo con­gresso, egli si t rovò di fronte a u n a platea del tut to diversa da quella di piazza S. Sepolcro, e pe r riaffermare la sua po­sizione di capo dovette spostarsi sensibilmente a destra. Dei diciannove membr i della vecchia direzione, tutta di sinistra, ne furono rieletti solo la metà, e i due più autorevoli - Mari-netti e Vecchi - si dimisero subito dopo .

Mentre si svolgevano questi dibattiti, il governo Nitti en­trava in crisi e dopo una breve agonia cedeva il posto a Gio­litti. L'avvenimento colse di sorpresa Mussolini, che ancora u n a volta si t rovava di fronte a u n a scelta scabrosa. Schie­rarsi contro il vecchio statista significava sfidare tutta l'Italia modera ta e benpensan te , che in lui vedeva una garanzia di o rd ine e di normalità. Pronunciarsi a suo favore significava sfidare D 'Annunzio , an imato da un inestinguibile r anco re verso il «boia labbrone» che nel ' 15 aveva capeggiato la resi-

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stenza neutralista. Ma fu la corrente a r imorchiarlo. In mol­te città, a g e n d o di p rop r i a iniziativa, i Fasci si misero a di­sposizione dei c o m a n d i mil i tar i p e r i l m a n t e n i m e n t o del­l 'ordine. Era chiaro che i loro nuovi adept i simpatizzavano col n u o v o gove rno . Per p r e v e n i r n e le reazioni , Mussolini scrisse al Poeta u n a lettera in cui, descrivendogli a tinte apo­calittiche la situazione in terna del Paese, gli diceva che crea­re difficoltà a Giolitti significava fare il gioco dei sovversivi, contro i quali le forze patriott iche non e rano in g rado di lot­tare da sole. E sul Popolo d iede , sia p u r e con qualche riser­va, il ben to rna to al vecchio statista.

U n a volta incamminat i su questa china, gli avvenimenti p r ec ip i t a rono . C'è chi dice che , fin d 'al lora, fra Giolitti e Mussolini si stabilì, a lmeno tacito, un pat to di collaborazio­ne in senso reazionario. Questo non è vero. Giolitti deplorò e p u n ì molti Prefetti e Questor i che accettavano la collabo­razione dei fascisti e ne favorivano le violenze. Ma la cosa avveniva del tu t to spon taneamen te . Era fatale che le forze del l 'ordine simpatizzassero con chi nelle emergenze le spal­leggiava, e che dal canto loro tanti moderat i , spaventati dal disoi-dine, v e d e n d o che i fascisti si schieravano con l 'auto­rità costituita e ne venivano «coperti», corressero a ingrossa­re le loro fila. In pochi mesi il mov imen to che d o p o il cla­moroso fiasco elettorale del '19 quasi tutti, e forse anche lo stesso Mussolini, avevano dato pe r spacciato, e ra diventato abbastanza forte pe r passare alla controffensiva. Le p r ime operazioni di «squadra» si svolsero a Roma contro l'Avanti! che venne messo a sacco, e a Pola contro la sede delle orga­nizzazioni slave che fu incendiata.

Subito d o p o la Confederaz ione Genera le del Lavoro tentò u n a prova di forza con l 'occupazione delle fabbriche, cui ader i rono anche l'usi e I ' U I L , le vecchie alleate di Musso­lini. Questi t enne un at teggiamento ambiguo. Deplorò il ge­sto di violenza, ma nello stesso t e m p o denunc iò la sordi tà degli imprendi tor i alle rivendicazioni. Era la stessa posizio­ne assunta da Giolitti che si rifiutò d ' intervenire nella diatri-

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ba, e quando Agnelli gli chiese di far sgomberare la Fìat con la forza, rispose: «Benissimo. Darò l 'ordine all 'artiglieria di bombardar la». Il fatto è che i Fasci stavano cercando di or­ganizzare dei «sindacati nazionali» in cui raccogliere i t ran­sfughi delle organizzazioni socialiste, e quindi n o n volevano disgustarsi gli operai . Era l 'ultimo soprassalto dell 'anima so­cialista di Mussolini. Egli fece anche delle ape r tu re a Buoz-zi, il capo dei metalmeccanici. Ma come al solito, senza esito.

L'intesa fra Mussolini e Giolitti si saldò sul p r o b l e m a di Fiume. Svi luppando la manovra , già iniziata da Nitti, di ac­costamento alla Jugoslavia, Giolitti stava pe r concludere con questa l 'accordo di Rapallo che finalmente risolveva le scot­tanti pendenze fra i d u e Paesi: l'Italia avrebbe r inunziato al­la Dalmazia, meno Zara e alcune isole, m e n t r e la Jugoslavia avrebbe riconosciuto a Fiume lo status di «città libera». Biso­gnava d u n q u e che D'Annunzio se ne ritirasse, o ne venisse sloggiato con la forza. In questo secondo caso, Giolitti sape­va che non c'era da temere grossi contraccolpi nel Paese, or­mai stanco delle bravate del Poeta e desideroso solo di nor­malizzazione. L'unico che poteva farne un pretesto di disor­dini era Mussolini, di cui era quindi necessario assicurarsi a lmeno la neutrali tà.

Q u a n d o e come s'iniziarono le trattative, è incerto. Si co­nosce solo il t ramite at traverso cui si svolsero: il Prefetto di Milano, Lusignoli . Alla fine di se t tembre Mussolini ebbe a Roma un incontro col Ministro degli Esteri Sforza, il g rande fautore e vero artefice dell 'accordo con la Jugoslavia, o rmai in via di definizione, e s ' impegnò a n o n intralciarlo. Doveva pe rò farlo in m o d o da n o n r o m p e r e col Poeta, che n o n po­teva pubbl icamente r innegare . E questo era un po ' più dif­ficile.

Fin dal l ' indomani della marcia su Fiume, i suoi rappor t i con D 'Annunzio e r ano stati incert i . Ma d o p o la sua «acco­stata» a Giolitti, si e r a n o fatti a d d i r i t t u r a tesi. E se n o n si e r ano rotti , e ra solo pe rché l 'uno aveva bisogno dell 'al tro. Perciò ai pr imi di set tembre De Ambris aveva invitato Mus-

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solini a Fiume. Ma Mussolini si era fermato nel suo viaggio a Trieste, il che doveva aver molto irritato il Poeta.

Alcune set t imane d o p o , De Ambris gli m a n d ò un p iano di azione, la solita azione: sortita di D 'Annunzio da F iume coi suoi Leg ionar i p e r u n a marc ia su Roma, di cui i Fasci dovevano p red i spo r re il t e r r eno e cu ra re l 'organizzazione. Ed era l 'ennesima prova che il Poeta mancava totalmente di fiuto politico. Mussolini rispose ch 'era d 'accordo, che D'An­nunzio era p ropr io l 'uomo che ci voleva pe r una simile im­presa, ma che questa n o n poteva svolgersi p r ima della pri­mavera del ' 2 1 . Per r innovargli l'invito a Fiume, D 'Annun­zio gli m a n d ò il suo collaboratore Foscanelli. «L'invito - que­sti scrisse - fu accolto s tancamente. Si capiva che il capo del fascismo n o n ne aveva voglia. Alle insistenze perché fissasse la data della partenza, non fu esplicito. Si capiva che subor­dinava l'accettazione a qualche altro avvenimento.»

L'altro avvenimento era il trattato di Rapallo con la J u g o ­slavia, di cui stava p e r essere a n n u n c i a t a la conclus ione e che segnava la l iquidazione, con le b u o n e o con le cattive, del l ' impresa dannunz iana . Tutti si aspettavano, da par te di Mussolini, una reazione veemente . Egli scrisse invece un ar­ticolo in cui si dichiarava «soddisfatto» di quella soluzione «migliore di tutte quelle p receden temen te progettate», p u r conc ludendo con uno sperticato elogio di D'Annunzio: «Se oggi Fiume è libera, è italiana e ha il vasto possesso del suo por to e delle sue ferrovie; se oggi Fiume è contigua all'Ita­lia, di cui costituisce una specie di repubblica periferica che sarà, pe r forza di cose, italiana: se oggi Fiume respira e p u ò gua rda re con fiducia al suo avvenire, lo deve soltanto a Ga­briele D 'Annunz io e ai suoi legionar i e a tut t i coloro che h a n n o difeso la causa di F iume, d e n t r o e fuori di Fiume». Era un benservito, condi to di tutti gli onor i , al Poeta, e in­sieme un invito al governo a procedere .

L'articolo fece l'effetto di u n a bomba. E tre giorni dopo , in sede di Comitato Centrale, Mussolini dovette fronteggia­re l'attacco dei fascisti «fiumani», che lo accusavano di tradi-

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mento . Fu u n a seduta drammat ica . Spalleggiato da Cesare Rossi, Mussolini difese la p ropr ia posizione, ma pe r non es­sere messo in m i n o r a n z a dove t te accet tare un o r d i n e del g iorno di compromesso in cui si r ibadiva la solidarietà con D'Annunzio al quale poi scrisse u n a lettera di sostanziale ri­pud io , ma condita di formale devozione. «Ed eccoci di nuo ­vo soli - gli r ispose ind i r e t t amen te il Poeta in un pubbl ico discorso -, soli contro tutti, col nostro solitario coraggio. So­li cont ro un vasto coro di ammoni to r i e di minacciatori re ­munera t i . . .» Ma nel lo stesso t e m p o incaricò De Ambris di cercare a tutt ' i costi un accordo col «traditore».

L'incontro fra De Ambris e Mussolini ebbe luogo a Trie­ste, presente Foscanelli che ne ha lasciato un resoconto del­la cui fedeltà n o n c'è ragione di dubi tare . Mussolini non era più l 'uomo che al Poeta chiedeva ordini . Glieli dava. Ascoltò con aria seccata e distratta il solito proget to di sortita da Fiu­me a b o r d o di a lcune navi da g u e r r a già g u a d a g n a t e alla Causa p e r u n o sbarco in R o m a g n a . Ma a ques to p u n t o sbottò: «E Bologna rossa? E i socialisti dell 'alta Italia?» Il col­loquio si trascinò straccamente in un clima di reciproca sfi­ducia e irr i tazione. Alla fine Foscanelli, che ne aveva preso nota, fu prega to di gettare i suoi appun t i nella stufa.

De Ambris proseguì pe r Roma alla ricerca di un accordo col governo che permet tesse al Poeta di ri t irarsi da F iume salvando la faccia, e alla meglio lo raggiunse . Ma il suo im­prevedibi le capo all 'ult imo m o m e n t o lo m a n d ò all 'aria an­nunz iando che avrebbe resistito «fino al sacrificio supremo». Mussolini gli fece eco a m m o n e n d o dal le co lonne del suo giornale: «Signori del governo: evitate, a q u a l u n q u e costo, una nuova Aspromonte». Ma con temporaneamen te avvertì Lusignoli, pe rché lo riferisse a Giolitti, che mai avrebbe col­labora to a sp ingere la Nazione alla g u e r r a civile. Q u a n d o cominciò a cor re re la voce della imminen te azione militare contro Fiume, alzò la voce pro tes tando vivacemente, ma an­che informando Lusignoli che si trattava soltanto di tattica.

I l 23 dicembre, d u e giorni p r ima che Caviglia ordinasse

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alle sue t r u p p e di marciare su Fiume, D'Annunzio lanciò un appello agl'italiani pe r invocarne la solidarietà. L' indomani Mussolini convocò la Direzione dei Fasci in u n a r iunione se­gre ta , che tale r imase . Secondo Lusignol i p e r ò Mussolini riuscì a far trionfare la sua tesi che quella di D'Annunzio era o rma i u n a causa p e r d u t a , da a b b a n d o n a r e a l suo dest ino. Per salvare come al solito la faccia, egli dedicò al «Natale di sangue» un violento articolo intitolato Un delitto, in cui dice­va che «sul g o v e r n o di R o m a r icade il s a n g u e versato». E con questo saldò il conto col Poeta, che stava abbandonando Fiume pe r r inchiudersi nella sua villa di Gardone .

U n o dei t r e p ro tagon i s t i del g iuoco e ra e l iminato . La parti ta ora si r iduceva agli altri due : Giolitti e Mussolini.

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C A P I T O L O S E C O N D O

I DUE FASCISMI

Sullo scorcio del '20, Mussolini diceva di avere ai suoi ordini 88 Fasci con 20.000 iscritti. Anche se la cifra r i spondeva al vero - e c'è da dubi ta rne -, era u n a forza modesta, come del resto aveva d imost ra to i l f iasco elet torale de l l ' anno pr ima . Ma p iù che l 'esiguità dei r a n g h i , contava la loro e te roge­nei tà e f r ammentaz ione . I Fasci n o n e r a n o un par t i to , né mostravano alcuna voglia di diventarlo. Si chiamavano «mo­vimento», ma o g n u n o s i muoveva p e r conto suo sotto la spinta p ropuls iva di qua lche ras locale, r ibelle a qualsiasi tentativo di direzione centralizzata.

Sociologicamente p a r l a n d o , l ' e lemento più forte e ag­gue r r i t o e r a n o gli ex -comba t t en t i della piccola borghes ia u r b a n a : quella che aveva paga to i l p iù forte con t r ibu to di sangue alla g u e r r a e che ora più g ravemente ne pagava le conseguenze dell'inflazione e della disoccupazione. In essa, sulle idee prevalevano gli umori , e questi umor i e rano rivo­luzionari , anzi eversivi. Il «piccolo borghese imbestialito», come sprezzantemente lo chiamava Trotzky, era imbestialito un po ' con t ro tut t i : con t ro i socialisti che , al r i t o rno dalle t r incee , lo avevano svil laneggiato e aggred i to , ma anche cont ro i capitalisti «pescicani» che avevano lucrato alle sue spalle, la Monarchia , la Chiesa, i part i t i , la «politica» in ge­nerale, insomma quello che oggi si chiama Xestablishment.

Con simile mater iale u m a n o , p r o n t o a contestare anche lui, e ra difficile p e r Mussolini fare i l giuoco con un u o m o della forza e dell 'esperienza di Giolitti. Ma p rop r io in quel momen to il fascismo subiva una trasfusione che ne cambia­va radicalmente il sangue, grazie alla conversione delle cam-

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p a g n e , specia lmente della Padania , della Toscana e delle Puglie.

P rop r io p e r le sue t e n d e n z e r ivoluzionar ie , i l fascismo non aveva fatto molta breccia nella vecchia p ropr ie tà agra­r ia , n a t u r a l m e n t e conservatr ice , anzi retr iva. Ma ques ta classe, sopra t tu t to in Emilia, impau r i t a dalla occupazione delle ter re , opera ta dalle «leghe» rosse e bianche, nella qua­le aveva visto il p r o d r o m o di u n a definitiva espropriazione, aveva venduto , anzi svenduto le p ropr ie cascine e fattorie. E i nuovi propr ie tar i , tutti ex-mezzadri , o fattori, o piccoli col­tivatori diretti, por tavano nella difesa dei loro diritti ben al­tro spirito e grinta. Essi videro nei Fasci la «guardia bianca» della propr ie tà e vi accorsero in massa col loro bagaglio d'i­dee - se così vogliamo chiamarle - reazionarie. Per loro, fa­scismo era sinonimo di ordine, e ord ine era sinonimo di re­pressione. A inventare la tecnica della mobilitazione di squa­d re e della spedizione punit iva furono loro, che pe r nume­ro e violenza fecero presto a soverchiare la vecchia guardia cittadina. Le cifre par lano chiaro. In pochi mesi gli 88 Fasci diventarono 834 e i 20 mila iscritti, 250 mila. Molte zone, e precisamente le zone agrarie come la Toscana e l'Emilia co­minciarono a passare quasi in teramente nelle loro mani.

Questo imponen te afflusso di ceti terrieri infuse u n o spi­rito nuovo, f rancamente reazionario, al «movimento» met­tendo in crisi la vecchia Direzione dei Pasella, dei Rossi, dei Bianchi eccetera. Ma per il m o m e n t o dava a Mussolini, nei confronti di Giolitti, una grossa forza contrattuale, e soprat­tutto gli consentiva di cambiare le carte del giuoco: egli po­teva far c redere che il fascismo fosse un elemento di stabilità e di conservazione, come in quel momento gli conveniva.

Era alle viste un evento che poteva radicalmente muta re tutta la scena politica, e sul quale Giolitti faceva molto asse­g n a m e n t o : il congresso socialista inde t to a Livorno pe r la metà di genna io (del '21). I l par t i to era in grave crisi n o n soltanto pe r i dur i colpi che gli avevano inferto i fascisti, la cui azione in t imidator ia aveva d i rada to le sue falangi, ma

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anche pe r la mezza scomunica inflittagli dalla Internaziona­le, o rmai in te ramente dominata dai sovietici che reclamava­no la sua completa sottomissione agli ordini di Mosca. Essi e rano convinti che l'Italia fosse ma tu ra pe r u n a rivoluzione p ro le ta r i a di mode l lo russo . E fra i d i r igen t i i taliani c 'era u n a piccola frazione, capeggiata da Gramsci e Bordiga, ben decisa a far trionfare questa tesi.

Sia Giolitti che Mussolini seguivano la v icenda con an­sietà. Giolitti sperava che la frazione «comunista» - come or­mai si chiamava - si sarebbe staccata dal par t i to t rascinan­dosi gli e lement i massimalisti e così lasciandolo alla mercé dell'ala riformista capeggiata dai Turat i e dai Treves, dispo­sti a formare con lui un governo e a «macinare» i fascisti nel giuoco pa r l amen ta re . Tut to questo invece Mussolini lo pa­ventava, ma n o n ci credeva forse perché , essendo stato dei loro, i socialisti li conosceva meglio di Giolitti. Lo dimostra­no gli articoli ch'egli dedicò al congresso, p r ima che questo s ' inaugurasse. Anche lui dava pe r scontata la secessione dei comunisti . Ma i socialisti, diceva, sarebbero rimasti quelli di p r i m a e di s empre : dei massimalisti parolai , dai quali n o n c 'era nul la da aspet tars i e coi quali e ra megl io farla finita approf i t tando della loro crisi pe r indire nuove elezioni.

I fatti d imostrarono che, come fiuto, ne aveva più del vec­chio Giolitti. I comunist i secessionarono pe r fondare il loro part i to . Ma quello socialista r imase nelle man i dei Serrati e dei Lazzari, con cui l 'accordo era impossibile. Per le elezioni, che ormai s ' imponevano, a Giolitti non restava che un allea­to: i fascisti: n o n solo per la forza elettorale che rappresenta­vano, ma anche perché questo era l 'unico m o d o di assorbirli in quello che oggi si chiamerebbe «l'arco costituzionale» do­ve la loro carica eversiva si sarebbe fatalmente s tempera ta . In ques to senso va inteso il «filofascismo» che anco r oggi molti gli r improverano . Il suo giuoco con Mussolini n o n fu mai connivenza, ma soltanto calcolo, sia p u r e sbagliato. Gra­zie a lui e ra riuscito a liquidare senza t raumi D'Annunzio. E se gli aveva concesso una certa libertà di azione contro i so-

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cialisti, e ra pe rché sperava che ciò li r iducesse alla ragione, cioè alla collaborazione col governo. Se questo fosse avvenu­to, n o n c'è dubbio che il fascismo si sarebbe liquefatto in po­chi mesi. Siccome non era avvenuto, non restava che fagoci­tare Mussolini nella legalità e lasciarvelo logorare.

I l fatto è p e r ò che Mussolini , mol to p iù a g g u e r r i t o di q u a n t o Giolitti sospettasse, e ra pe r f e t t amen te conscio di questo piano, e ben deciso a sventarlo. Le difficoltà fra cui si muoveva e rano grosse. Gli agrar i avevano dato al fascismo un cospicuo contr ibuto di uomini e di mezzi, ma vi portava­no anche un ot tuso spirito d ' in t ransigenza reazionaria che ne inceppava la manovra . Per loro, Giolitti e ra un «sovversi­vo» con cui si doveva rifiutare qualsiasi accordo che, in vista delle elezioni, Mussolini considerava invece necessario un po ' pe r sfuggire al pericolo di un fiasco come quello del '19, un po ' pe r d is t rar re i l vecchio statista dal suo e te rno sogno di un «fronte» coi socialisti riformisti e coi popolar i di Stur-zo, da cui il fascismo sarebbe rimasto schiacciato.

Queste difficoltà appa r i r anno speciose e poco credibili a coloro che Mussolini se lo r i co rdano solo come il Duce. Ma in quel m o m e n t o Mussolini n o n era affatto Duce, e pe r im­p o r r e la sua volontà doveva combat tere d u r e battaglie che spesso lo costringevano a scendere a compromessi . Prima di svelare la sua intenzione di formare con Giolitti e i suoi uo­mini delle liste comun i - i «Blocchi Nazionali» -, fece fare dai vari Fasci delle aduna te regionali pe r sondarne gli u m o ­ri. Risultò ch 'e rano notevolmente discordi su quasi tutto. E fu p ropr io su questa disunione ch'egli giuoco pe r far valere, ma sempre con estrema prudenza , la sua volontà.

I suoi articoli sul Popolo d'Italia di ques to p e r i o d o sono u n a vera e p ropr i a doccia scozzese di r ichiami e di conces­sioni alle «squadre» tanto p iù ubr iache di violenza q u a n t o più sicuro e completo si delineava il loro trionfo sulle piazze e nelle s trade. Per garant i rsene la docilità, n o n si fece scru­polo di r ichiamare nel giuoco p ropr io l 'uomo che tanto ave­va faticato ad escludere: D'Annunzio.

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Deluso dalle ultime vicende di Fiume, il Poeta si era rin­chiuso nella villa di G a r d o n e d icendo che mai più sarebbe to rna to ne l l ' a rena politica, ma n o n poteva tagliare i pon t i coi suoi uomini che lo str ingevano d'assedio. Foscanelli, Me-cheri e soprat tut to De Ambris e rano ancora convinti che nel n o m e di D 'Annunzio si poteva giuocare la cal la della rivo­luzione, avevano raccolto i reduci di Fiume in u n a Federa­zione Nazionale dei Legionar i , e fondato a lcuni per iodic i pe r t e n e r n e vivo lo spirito. I r appo r t i di questi uomini col fascismo e r a n o complessi e cont raddi t to r i . I d i r igent i , che sapevano come stavano le cose, covavano pe r Mussolini un sordo rancore . Ma la cosiddetta «base», p u r essendo rimasta traumatizzata dal suo voltafaccia al m o m e n t o del trat tato di Rapallo, simpatizzava con le «squadre», nelle quali del resto c 'era tu t to un f i lone d a n n u n z i a n o che s ' incarnava nel ras della Venezia Giulia: Marsich.

Pur ce r cando di res ta r fuori dalla mischia, i l Poeta ap ­poggiava gli sforzi di De Ambris , l anc iando di q u a n d o in quando ai suoi fedeli dei messaggi da Sibilla conditi di frasi latine tipo Undique fidus undique firmus, ma sempre incitanti a tenersi al r iparo dai «contagi». Oltre al dispetto, egli nutr i ­va pe r Mussolini il disprezzo del l 'uomo di cultura per il roz­zo manegg ione . Ma nello stesso t empo , impress iona to dai suoi successi, n o n voleva inimicarselo. Non si sa bene se fu di sua testa o pe r sugger imento di qualcuno che il 28 marzo egli m a n d ò a Mussolini d u e legionari p e r sollecitare un in­con t ro con lui. Mussolini n o n chiedeva di megl io . Sapeva che di lì a una sett imana Giolitti avrebbe sciolto la Camera e aper to la campagna elettorale: non gli restavano quindi che pochi giorni pe r get tare la maschera e annunz ia re ai suoi la decisione di e n t r a r e nei Blocchi Nazionali : con la car ta di D'Annunzio nella manica, la cosa gli sarebbe riuscita più fa­cile.

«Rompo un lungo silenzio» gli scrisse subito, ed e rano in­fatti p iù di qua t t ro mesi che n o n aveva più avuto r appo r t i con lui, «dovuto a un disagio morale , provocato più o meno

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in buona fede da taluni individui vissuti in margine alla tra­gedia f iumana. . . Sarò i m m a n c a b i l m e n t e da voi m a r t e d ì prossimo 5 aprile.» Ma pr ima del 5 aprile a n d ò a par lare ai «camerati» di Bologna e di Fer rara , i più riottosi, i p iù re­pubblicani, e quindi i più difficili da convert ire all'idea delle elezioni nel blocco d 'o rd ine giolittiano che implicava la fe­del tà alle isti tuzioni. Dopo aver da to a n n u n z i o della sua prossima visita a Gardone , disse: «Non sentite voi che il ti­mone passa pe r un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti a Gabriele D'Annunzio, l 'uomo nuovo?» Subito corse la vo­ce che anche il Poeta in tendeva p o r r e la sua cand ida tu ra e la partecipazione al blocco non incontrò più opposizione.

Il 5, come promesso, Mussolini andò a Gardone . Del col­loquio, n o n si sa nulla. Ma a lmeno in par te si p u ò ricostruir­lo da d u e messaggi di D'Annunzio: u n o a De Ambris in cui lo invitava a presentarsi candidato in una lista ind ipenden te a Pa rma ma senza scendere in polemica coi fascisti pe rché Mussolini si era impegnato a r ispettare «lo spirito della Co­stituzione fiumana»; l'altro a Calza Bini, pe r rassicurarlo che la sua qualità di legionario non era affatto incompatibile con quella di dir igente del Fascio romano .

Quest i d u e diversi l inguaggi fanno p r e s u m e r e che l'in­contro fra i d u e uomini si svolse all ' insegna dell 'ambiguità; ma che anche se n o n p re se impegn i , D 'Annunz io si lasciò irret ire da Mussolini, cui una sola cosa premeva: che il Poe­ta n o n gli si mettesse di traverso e lasciasse c redere di essere d 'accordo con lui. De Ambris se ne rese conto e protestò con violenza: «Se l 'opera nostra - scrisse al Comandan te -, con­dotta in mezzo a difficoltà di ogni sorta, ti sembra degna di approvazione, fa' che si possa pubblicare u n a tua parola che valga a t ronca re le chiacchiere a rb i t ra r ie e a confermarci , davanti a tutti i legionari, la tua fiducia. Se invece n o n credi di po te r d i re questa paro la , s ap remo tutt i - o a lmeno io -quel che resta da fare».

Avendo ot tenuto ciò che voleva, due giorni dopo Musso­lini faceva ratificare dal Comita to Cent ra le dei Fasci l 'ade-

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sione ai Blocchi Nazionali, ma senza r inunciare alle misure di sicurezza. Disposto a e n t r a r e nel g iuoco di Giolitti, ma non a res tarne pr igioniero, lasciò subito in t ende re che pe r la composizione delle liste bisognava fare i conti con lui, e che se in alcune circoscrizioni i fascisti dovevano mettersi al r imorchio dei giolittiani, in altre e rano i giolittiani che do­vevano metters i al r imorchio dei fascisti. Allergie ideologi­che ne mostrò poche. Coi nazionalisti l'alleanza era già cosa fatta; ma in alcune province egli lasciò liberi i suoi di accor­darsi anche coi popolar i . Screzi ce ne furono parecchi , ma quasi tutti di o rd ine personale . Il Blocco di Milano rischiò di fallire pe rché il d i re t tore del Corriere della Sera, senatore Albertini, cercò di p o r r e un veto che poi dovette r imangiar­si, alla iscrizione di Mussolini. Quest i a sua volta lo pose a Filippo Naldi, l 'uomo che gli aveva dato i mezzi per fondare Il popolo d'Italia.

Non tutte le forze di democrazia laica che facevano capo a Giolitti avevano accettato di b u o n grado l'alleanza coi fa­scisti: malgrado la sua amicizia col vecchio statista, il senato­re Frassati, p e r esempio, diret tore de La Stampa, aveva qua­lificato l 'operazione un «pasticcio» e prede t to che, me t t endo in fuga molti elettori modera t i , avrebbe giovato soltanto a Mussolini.

Questi dal canto suo si affrettò a fornire materia ai sospet­ti di doppio giuoco r incarando nella t ruculenza del suo lin­guaggio, d a n d o m a n o ancora più libera alle «squadre» che ne approf i t tarono largamente , e p r e n d e n d o le distanze dai suoi stessi alleati. Da Giolitti, che ormai non poteva più fare macchina indietro, egli aveva ot tenuto quello che gli conve­niva: l 'ammissione del fascismo nell 'arco costituzionale e il suo r iconoscimento come insostituibile garante del l 'ordine. Ora voleva d imos t ra re che l 'ordine poteva res taurar lo sol­tanto lui: lo Stato di Giolitti non ne era più in grado. Anzi il 10 maggio, alla vigilia del voto, giunse a scrivere che, d o p o le elezioni, il po te re , caso mai, doveva essere affidato a Sa­landra: «Giolitti non p u ò p re t ende re di governare la nazio-

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ne all'infinito. È vecchio ed è anche oltrepassato». Così Mus­solini teneva fede ai patti. Quan to a Salandra, gli professava stima propr io perché - come i successivi fatti d imostrarono -non ne aveva punta : lo preferiva a Giolitti perché lo conside­rava un avversario molto più facile da battere.

Il r e sponso delle u r n e , che fu conosciuto il 15 maggio , diede ragione a Frassati e fu pe r Giolitti una grossa delusio­ne . I socialisti, di cui si p revedeva il crollo, pe r se ro solo 34 seggi, di cui la metà a n d a r o n o ai comunist i che ne ebbero 16. I popolar i ne g u a d a g n a r o n o 7, a r r ivando così a 107. I Blocchi ne o t t ennero 275, che rappresen tavano u n a buona maggioranza, ma insidiata dalla eterogeneità delle alleanze. Dent ro di essi, i fascisti ebbero 45 eletti, e Mussolini r ipor tò un mezzo plebiscito sia a Milano che a Bologna.

Come rivalsa alla funebre farsa inscenatagli dai socialisti nel '19, Mussolini sciolse a s tormo le campane della vittoria, e dichiarò subito che i fascisti n o n avrebbero mai partecipa­to a un governo di Giolitti e si sarebbero astenuti dal p ren ­de re pa r te alla seduta inaugurat iva della nuova legislatura con relativo discorso del Re pe rché n o n avevano ancora de­ciso se e rano pe r la Monarchia o pe r la Repubblica.

A questo p u n t o forse Giolitti capì che il suo piano di atti­r a r e Mussolini nel g iuoco p a r l a m e n t a r e e di mac inarve lo era fallito. Il rifiuto dei fascisti di par tecipare al governo si­gnificava ch'essi si p r o p o n e v a n o di con t inuare nel Paese la lotta armata , per r intuzzare la quale sarebbe occorso un po­te re stabile e au to revo le , un Esercito e u n a Polizia sicuri, u n a pubblica opinione favorevoli: tutte condizioni che man­cavano. Per tenersi in piedi, avrebbe dovuto appoggiarsi al punte l lo infido dei popolar i di Don Sturzo, da sempre suo nemico. E il 15 giugno preferì dimettersi , passando la mano a Bonomi, il transfuga del socialismo che insieme a Bissola­ti, a Cabrini e a Podrecca Mussolini aveva fatto espellere dal part i to, e che ora militava in u n a delle tante frazioni demo­cratiche.

Questo avveniva a metà giugno (del ' 2 1 , si capisce).

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Dopo D'Annunzio, Mussolini si era così liberato dell 'avver­sario che più temeva. Ma doveva ancora vedersela coi suoi, e n o n era facile p e r c h é n o n ne possedeva lo s t r umen to : i l par t i to . Le nuove leve agrar ie avevano por t a to alla ribalta degli uomini nuovi e di notevole personali tà come Grandi , Balbo, Farinacci, Arpinati , ma non avevano muta to la natu­ra del movimento che restava ancora disarticolato. Il Comi­tato Centrale non aveva quasi alcun po te re sulle «squadre», ciascuna delle quali era legata da un vincolo quasi medieva-lesco al ras locale: Arpinati a Bologna, Balbo a Ferrara, Fari­nacci a Cremona eccetera.

Secondo De Felice, lo stesso Mussolini n o n si r e n d e v a esatto conto di questa situazione. E solo così si spiega il pri­mo dei suoi e r ror i tattici, che lo condusse a u n a crisi pe r po­co mortale. Egli vedeva abbastanza chiaramente le prospet­tive che gli si apr ivano e che, cont ra r iamente alle appa ren ­ze, n o n erano rosee. Le squadre ormai imponevano la loro legge nelle piazze, nelle fabbriche, nelle campagne . Questo r iempiva di soddisfazione gli agrari , i quali alla politica n o n ch iedevano al tro che un ' az ione repressiva. Ma i ceti med i urbani non si contentavano di così poco. Essi volevano l'or­dine e avevano simpatizzato coi fascisti finché questi aveva­no combat tuto la violenza rossa. Ma ora che questa violenza s'illanguidiva, dei fascisti sentivano meno il bisogno. Occor­reva offrir loro qualche altra cosa. Occorreva offrir loro una politica, che n o n fosse soltanto quella del manganel lo e del­l'olio di ricino.

Di questo , Mussolini e ra cosciente, così come lo era del fatto che, legandosi t r o p p o s t re t tamente agli agrar i e al ca­pitalismo, rischiava di d iventa rne la «guardia bianca»: cosa r i pugnan te n o n soltanto al suo fiuto, ma anche al suo tem­pe ramen to , che se n o n era precisamente quello del rivolu­zionario, era p e r ò quello del capo-popolo , del t r ibuno de­magogo. A differenza dei suoi «gerarchi», Mussolini n o n si lascerà mai abbagliare dal m o n d o borghese e dai suoi giar­dini di Armida. Il retaggio socialista faceva di lui un «uomo

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di massa», e s empre lo r imase. L'etichetta di «destra» a cui l 'al leanza coi nazionalist i e la massiccia p reva lenza degl i agrar i lo c o n d a n n a v a n o , gli pesava, e i suoi se n ' e r ano ac­corti. Q u a n d o si era trattato di far loro inghiott ire l 'adesio­ne ai Blocchi giolittiani, nonos tan te l'abile e spregiudicato ricorso alla carta di D 'Annunz io , molti squadris t i avevano infilato nelle loro canzoni guerresche un ritornello che, con chiara al lusione ai suoi trascorsi socialisti, diceva: «Chi ha tradito, tradirà». E q u a n d o egli aveva deciso l 'astensione del g r u p p o p a r l a m e n t a r e dalla sedu ta rea le alla C a m e r a p e r n o n c o m p r o m e t t e r e le p rop r i e pregiudiziali repubbl icane, ben 19 depu ta t i su 34 gli si e r ano schierati con t ro costrin­gendolo a u n a soluzione di compromesso.

O r a la s i tuazione e ra questa . Coi suoi q u a r a n t a c i n q u e «onorevoli», egli rappresentava in Parlamento u n a forza che poteva anche giuocare le sue carte, ma a pat to di non resta­re isolata. Qual i al leanze fossero possibili, Mussolini si gua rdò dal dirlo. Egli aveva salutato il nuovo governo come «un governo campa to in aria poiché fascismo e socialismo restano ancora fuori della porta», e questo appar igl iamento aveva dato fastidio a molti fascisti. Ma il 5 luglio, m e n t r e Bo-nomi componeva faticosamente la lista dei Ministri da p re ­sentare al Re, sia sulYAvanti! che sul Popolo d'Italia comparve la notizia che una delegazione fascista e una delegazione so­cialista stavano negoziando un «patto di pacificazione».

Il contraccolpo fu immediato . I dirigenti dei Fasci emilia­ni e veneti chiesero, anzi imposero l ' immediata convocazio­ne del Consiglio nazionale, men t r e le squadre , pe r far nau­fragare il pat to , moltiplicavano le loro razzie e aggressioni. Il Consiglio si t e n n e a Milano il 12, e Mussolini si accorse subito di aver sottovalutato l 'opposizione. Anche il ras fio­rent ino Perrone Compagni si schierò dalla par te di Marsich e Farinacci fieramente avversi al pat to. Fra gli stessi «came­rati» milanesi, che r appresen tavano la vecchia guard ia del «Fascio pr imigenio», solo Cesare Rossi e ra incondizionata­men te pe r il pa t to , di cui forse e ra stato il vero ispira tore .

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L'altro ve t e r ano , Pasella, p r e s e n t ò un o r d i n e del g io rno compromissorio e t en tennante .

Con la prontezza di riflessi che lo distingueva, Mussolini evitò lo scontro frontale r ipiegando sulla proposta di Pasella, ch 'era quella di accantonare per il momen to il patto, lascian­do p e r ò i singoli Fasci liberi di p r o c e d e r e ad accordi locali coi socialisti e t enendo la por ta aper ta a quello, globale, con la Confederazione Genera le del Lavoro, dei cui dir igenti -Buozzi, Baldesi, Colombino - Mussolini tessè l'elogio.

Contentandosi del mezzo successo ch 'era anche un mez­zo insuccesso, egli sperava probab i lmente di r i p r e n d e r e la par t i ta q u a n d o i suoi avversari si fossero convinti del per i ­colo mortale che li minacciava: la formazione di un governo con socialisti e popolar i pe r met tere fuori legge un fascismo isolato. Ma le squadre si affrettarono a r e n d e r e i r reparabi le la ro t tu ra . M e n t r e ancora a Milano si discuteva, millecin­quecento squadristi occupavano mil i tarmente la ribelle Tre­viso. E pochi giorni dopo , u n a massiccia spedizione puni t i ­va fu lanciata contro Sarzana.

Qu i p e r ò avvenne un fatto nuovo che volse l 'episodio a favore di Mussolini. In attesa con l 'arma al p iede sull'itine­rar io delle squadre , stavolta n o n c 'erano soltanto gli «arditi del popolo», cioè i r epar t i a rmat i che socialisti e comunist i avevano organizzato pe r contrapporl i a quelli fascisti. C'era­no anche i carabinieri, che ebbero presto ragione degli assa­litori. Nello scont ro ci fu rono parecch i mor t i , a lcuni dei quali e rano stati finiti dalle roncole e dai forconi dei conta­dini inferociti.

In pubblico na tu ra lmente Mussolini deplorò l'eccidio dei suoi, ma p a r l a n d o n e con Rossi ebbe pa ro le di fuoco p e r i responsabili di quelle dissennate imprese, «gli ufficiali paga­tori delle varie Agrar ie che sognano la soppress ione delle leghe operaie e l ' annul lamento delle conquiste sindacali». Si ribellava alla camicia di forza che la reazione terr iera cerca­va d' imporgli . «Un cerchio di odio si sta s t r ingendo in torno al fascismo: bisogna spezzarlo.»

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Per ten tare di spezzarlo, convocò a Roma, dove si trova­va, il Consigl io nazionale , a cui fece inghio t t i re la r ip resa delle trattative pe r la pacificazione e u n a «circolare» da spe­dire a tutti i Fasci perché si astenessero dalle violenze e dal­le spedizioni puni t ive . C o n t e m p o r a n e a m e n t e pubbl icò un articolo, Ritorno al principio, in cui diceva pressappoco que­sto: che il vero fascismo era quello del '19, nato pe r la difesa della Nazione, n o n di certi interessi di classe, e che a questo bisognava ora t o rna re , s t r appando lo ai professionisti dello «sterminismo». In pa ro le povere : i l fascismo era un movi­mento di masse e pe r le masse, n o n la «guardia bianca» de­gli agrar i e del capitalismo in genere .

Ma ancora u n a volta dovette p r e n d e r e atto che la sua po­sizione di Duce e ra tut t 'a l t ro che affermata. Marsich e Fari­nacci scesero con lui in gue r r a aper ta rassegnando le dimis­sioni dal Comitato Centrale, men t r e l '»uomo nuovo» del fa­scismo bolognese, Dino Grandi , addi r i t tura lo ridicolizzava sul sett imanale del part i to, Eassalto.

Stavolta le d u e anime del fascismo e rano di fronte, e n o n si poteva evitarne lo scontro, che poi era la conseguenza del­la crisi iniziata da q u a n d o lo squadr ismo agrar io e provin­ciale aveva sopraffatto il nucleo sindacal-futurista di piazza S. Sepolcro. Secondo Mussolini, il fascismo n o n aveva che d u e alternative: o la rivoluzione, o il pat to di pacificazione. Siccome la p r ima sarebbe stata il suicidio, n o n restava che la seconda.

Ma i suoi avversari rovesciavano l ' a rgomentaz ione . Per gli squadristi , il suicidio sarebbe stata la pacificazione, che li avrebbe costretti a smobili tare. Dopodiché, cosa avrebbero fatto loro e i loro rasi E cosa di loro avrebbero fatto i sociali­sti, u n a volta d i sa rmate e disciolte le squadre? Al t re t tanto motivato e ra i l dissenso dei sindacalisti, che ora t rovavano in G r a n d i un a g g u e r r i t o campione . Giovane avvocato d i Bologna che aveva fatto i l suo a p p r e n d i s t a t o in t r incea, Grandi era un fascista della seconda leva, quella agraria, ma d'ispirazione dannunz iana e più vicino ai Corr idoni e ai De

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Ambris che alla par te padrona le e conservatrice. Egli aveva a t t ivamente col laborato a sv i luppare u n a organizzazione sindacale fascista che in Emilia già cominciava a c o n t r a p ­porsi a quelle socialiste. Parecchi lavoratori vi accorrevano un po ' pe r pau ra , un po ' pe r a t t razione dei manganel l i . I l fascino della violenza era il solo vantaggio che il sindacali­smo fascista aveva su quello socialista. Se vi avesse rinunzia­to, l 'organizzazione sarebbe andata in rovina.

O che sottovalutasse queste forze contrarie, o che si con­siderasse ormai impegnato a «tirare diritto», Mussolini spin­se avanti le trattative, e le concluse il 2 agosto nell'ufficio del Presidente della Camera , De Nicola, dove il pat to venne fir­mato . Bonomi , che ne aveva seguito con ansia la v icenda, esultò. La pacificazione, oltre a r appresen ta re una garanzia di ord ine pubblico, spianava la strada alla collaborazione, o pe r lo meno a u n a opposizione più morbida , che gli avreb­be permesso di riuscire là dove Giolitti aveva fallito.

In real tà la f i rma del pa t to , lung i dal c h i u d e r e , apr iva u n a nuova fase, e anco ra più roven te , fra Mussolini e lo squadrismo. Regione pe r regione, i ras avevano chiamato a raccolta i loro uomin i e da to avvio a u n a pioggia di o rd in i del g iorno che r ipudiavano il pa t to e ne contestavano l'au­tore talvolta pers ino sbeffeggiandolo. Qualcuno n o n si con­ten tò delle paro le . G r a n d i e Balbo si r eca rono add i r i t t u ra da D'Annunzio pe r offrirgli la successione di Mussolini alla guida della rivoluzione fascista. Grand i ha raccontato a chi scrive che il Poeta, dopo averli c o m p u n t a m e n t e ascoltati, ri­spose che p r ima doveva «consultare le stelle». Per tre notti le in terrogò, ma le stelle non risposero perché e rano coper­te dalle nuvole. E i d u e se ne to rna rono a casa, pe r sempre guariti dalla loro infatuazione dannunziana .

Mussolini reagì all 'aggressione da u o m o deciso a giuoca-re il tu t to pe r tu t to . «Se il fascismo n o n mi segue - scrisse sul suo giornale -, nessuno po t rà obbligarmi a seguire il fa­scismo.» E pochi g iorn i d o p o , a t t accando f ron ta lmen te Grandi e rinfacciandogli la sua qualità di «convertito dell 'ul-

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tima ora», aggiungeva: «La prossima sett imana sarà la setti­m a n a dell 'esame di coscienza del fascismo italiano. I risulta­t i m ' i n d i c h e r a n n o la s t rada da segui re . Molti rospi ho in­ghiottito in questi ultimi tempi, e molte solidarietà accettato pe r car i tà di fascismo. Ma a tu t to c'è un l imite, e io sono giunto a questo limite. Il fascismo p u ò fare a m e n o di me? Certo, ma anch' io posso fare a m e n o del fascismo. C'è posto pe r tutto in Italia: anche per t renta fascismi, il che significa, poi, pe r nessun fascismo».

L'esame di coscienza fu fatto il 16 agosto a Bologna, dove si r iun ì il «vertice» del fascismo p a d a n o . E pe r s ino il p iù mussoliniano dei ras, il ferrarese Italo Balbo, bocciò il pat to e chiese la convocazione di un Congresso nazionale che ne sancisse la decadenza. Mussolini rispose d u e giorni dopo sul suo giornale: «La parti ta è ormai chiusa. Chi è sconfitto, de­ve andarsene . E io me ne vado dai primi posti. Resto, e spe­ro di po te r restare, semplice gregar io del Fascio milanese».

L'impressione suscitata dalle sue dimissioni, subito segui­te da quelle di Cesare Rossi da vicesegretario del part i to, fu e n o r m e e contraddit toria . Gran par te di quella borghesia li-beral-conservatrice, che si riconosceva nel Corriere della Sera di Albert ini e che verso Mussolini si e ra s e m p r e mos t ra ta diffidente, n o n nascose le sue preoccupazioni . Ma il colmo dell ' insipienza lo toccarono i socialisti che si abbandona ro ­no al t r ipudio e annunz ia rono baldanzosamente u n a r ipre­sa in g r ande stile della loro azione rivoluzionaria, provocan­do immedia tamente un r ipensamento dei fascisti dissidenti.

Probabilmente, Mussolini aveva contato anche su questo. Cer to , aveva contato sul fatto che fra questi dissidenti n o n ce n 'era nessuno che potesse aspirare a p r e n d e r e il suo po­sto. C o m u n q u e , una cosa è sicura: quel posto, egli n o n ave­va nes suna in tenz ione di lasciarlo. Rossi, che conosceva il suo u o m o meglio di tutti, fu il p r imo a capirlo. I suoi scatti -confidò a De Ambris - s embrano impulsivi e spontane i : in real tà sono s e m p r e calcolati. E difficile del res to c r e d e r e ch'egli volesse rimettersi nella condizione, in cui si e ra già

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trovato coi socialisti, di r ep robo r innegato: stavolta sarebbe stata la fine della sua carr iera politica.

O s t e n t a n d o il p iù g r a n d e distacco, e lasciando c o r r e r e molte voci sulle sue intenzioni di ritiro, aspettò che fossero i suoi avversari a p r e n d e r e l'iniziativa di un riavvicinamento. L'attesa n o n fu lunga. A fine agosto si riunì a Firenze il Con­siglio nazionale, e Grandi , che ne fu il dominatore , vi assun­se la par te di «pontiere» facendo votare un ord ine del gior­no con cui il pat to di pacificazione non veniva né approvato né bocciato, ma lasciato alla discrezione dei vari Fasci come già era, e facendo respingere le dimissioni sia di Mussolini e di Rossi che di Marsich e Farinacci.

Mussolini non diede segno né di soddisfazione né di di­sappun to . Sapeva che quelle decisioni e r ano inter locutorie pe rché la vera part i ta si sarebbe giuocata al Congresso na­zionale, già indet to per novembre . Tutte le sue mosse furo­no di preparaz ione a questo evento, e recano il segno di u n a cautela in net to contrasto con l'impulsività che amava attri­buirsi. Sacrificò agli avversari l 'uomo da essi più odiato, Ce­sare Rossi, facendolo decadere da vicesegretario, ma conti­n u a n d o a tenerlo presso di sé come consigliere personale, e sp ingendo invece avanti un altro suo fido, Michele Bianchi. Per il resto, lasciò fare agli altri, impegnandos i solo, ma n o n di persona, con una serie di articoli delegati ad altri collabo­ra tor i del g iornale , sul p u n t o che gli stava p iù a cuore : la trasformazione del «movimento» in «partito», che gli avreb­be dato il modo di controllarlo meglio. Non abbandonò tut­tavia la sua maschera di sdegnato Achille, e i suoi interventi , sia alla Camera che sul giornale, furono radi e brevi. Anche q u a n d o a M o d e n a ci fu bat taglia ape r t a fra squadr is t i e guard ie regie, che si saldò con otto mor t i e u n a vent ina di feriti, si limitò a c o m m e m o r a r e i caduti .

La sua azione giornalistica la r iprese in p ieno solo in ot­tobre, alla vigilia del congresso socialista, spiegandovi tut te le sue risorse di tattico consumato . «Sarà il mese della pin­gue vendemmia turatiana» scrisse. Che credesse veramente

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alla vittoria di Turati , è dubbio. Ma è certissimo che la teme­va come la peggiore delle j a t t u r e e voleva, annunc i ando la in questi termini , aizzare i massimalisti. Il successo dell 'ala r iformista di Turat i avrebbe significato a b reve scadenza i socialisti al governo, e quindi l ' isolamento del fascismo, e la sua mor t e pe r consunzione . Ma n o n avvenne. Ancora u n a volta il massimalismo ebbe la meglio, e grazie ad esso a iso­larsi furono di nuovo i socialisti. Mussolini trasse un respiro di sollievo, anzi di t r ipudio, che trapelava dal suo commen­to: «Il fascismo ha ora dinanzi a sé un giuoco di vaste possi­bilità. Può fare grandi cose - "cose", n o n "gesti"; "fatti", n o n "parole" - pu rché sappia cogliere in sintesi le necessità del­l'ora». E il discorso era rivolto n o n solo ai socialisti, ma an­che ai fascisti.

Q u a n t o avesse ragione , lo d imost rò subito d o p o il Con­gresso dei popo la r i , i quali dove t t e ro p r e n d e r e at to della impossibilità di un'accostata ai socialisti, che sempre più re­sp ingevano ogni forma di col laborazione e si c h i u d e v a n o nel ghe t to . Mussolini ne approf i t tò i m m e d i a t a m e n t e p e r gettar loro un ponte . «I rappor t i fra popolar ismo e fascismo non possono esser basati su pregiudiziali anticlericali o, peg­gio, ant icat tol iche, che n o n sono nella nos t ra mental i tà» scrisse spudora t amen te il vecchio bes temmiatore che aveva sfidato Dio a fulminar lo sul colpo. «C'è u n a des t ra con la quale il fascismo p u ò vivere in r appo r t i di b u o n vicinato.» Questa parola destra, fin allora egli aveva cercato sempre di evitarla. Ora l'accettava come un ramoscello d'ulivo ai suoi avversari interni .

Il 7 novembre , q u a n d o al l 'Augusteo di Roma si r iunì il terzo Congresso nazionale del fascismo, i giuochi e rano già fatti. Grandi , che tutti aspettavano di veder emergere come l 'antagonista di Mussolini, t enne un discorso che di risoluto aveva soltanto gli accenti. Egli difese il p r o p r i o ope ra to , e cioè l 'opposizione al pat to di pacificazione, solo pe r ragioni retrospett ive in quan to i l p rob lema n o n era più d 'at tuali tà essendo stato risolto, caso pe r caso, dai singoli Fasci, e corse

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ad abbracciare Mussolini. Ques t i insistè sul pa t to , ma la­sciando chiaramente in tendere che lo considerava solo mer­ce di scambio: era p ron to a rinunciarci se gli altri accettava­no la t rasformazione del mov imen to in par t i to . E così av­venne. Per p u n t o d 'onore , Grandi , Giuriati e Marsich vota­rono contro. Ma furono i soli, e anch'essi poi accettarono di far par te della nuova commissione esecutiva. A segretario fu eletto Michele Bianchi, mussoliniano sicuro, con quat t ro vi­cesegretar i , di cui t re (Starace, Teruzzi e Marinelli) e r a n o mezze figure manovrabil i a bacchetta. L'unico vero opposi­tore di Mussolini, Farinacci, e sponen te e campione dei ras provinciali, venne escluso da tutti gli organi direttivi. Mus­solini aveva vinto, e la sua vittoria significava che il fascismo, abbandona ta la pre tesa di presentars i come movimento ri­voluzionario di sinistra, quale lo avrebbero voluto Grandi , Farinacci e Marsich, p resentava la sua cand ida tu ra a forza egemone della destra e infilava la «via par lamentare» al po­tere.

C'era un pericolo, e Mussolini lo capì subito: che questa svolta a des t ra met tesse il par t i to alla mercé della sua ala reaz ionar ia inca rna ta sop ra t tu t to dal ras p i e m o n t e s e De Vecchi, u o m o di poco cervello, ma tu t to T r o n o e Altare, e che quindi poteva anche to rnar comodo per i l futuro. Que­sta ala era na tu ra lmente sostenuta dai nazionalisti che nella sua vittoria vedevano una vittoria loro e già se n ' e rano im­baldanziti.

Mussolini, che pe r i nazionalisti seguitava a covare le an­tipatie del vecchio rivoluzionario, sventò subito la minaccia sca tenando, o meglio facendo scatenare dai suoi u n a pole­mica contro di loro. Grandi scrisse a chiare lettere che i na­zionalisti avevano poco di che t r ipudiare : non e rano i fasci­sti che dovevano identificarsi in loro, ma loro nei fascisti. I nazionalisti p ro tes tarono con veemenza, e sul piano ideolo­gico ne avevano di che. Ma il r appo r to di forza - unica cosa che in politica conta - dava ragione ai loro avversari. Sia pu­re fra risse, ma lumor i e bronci , le «camicie azzurre» di Fe-

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de rzon i s ' i n t eg ra rono s e m p r e d i p iù con quel le n e r e d i Mussolini fino a perdervi comple tamente la loro identità.

Di defezioni impor tan t i , i l nuovo corso ne provocò u n a sola: quella di Marsich, il ras del fascismo giuliano. Gran ga­lan tuomo e a rden te patriota, Marsich n o n aveva mai avuto idee politiche molto chiare. L'avventura f iumana e la devo­zione a D'Annunzio gliele avevano vieppiù confuse. Il p re ­testo della r o t t u r a fu u n a intervista di Mussolini che si di­chiarava p r o n t o a una collaborazione con Giolitti. In realtà egli n o n sapeva perdonargl i di u su rpa re il posto che secon­do lui spettava soltanto al Poeta. Per un certo t empo la sua let tera di r ipud io fu t enu ta segreta. Q u a n d o fu pubblicata dal giornale dei Legionari , Mussolini aveva già circoscritto e l iquidato il caso. Non t rascurò tuttavia di sfruttarlo pe r ri­badire la sua linea. Marsich, disse al Consiglio nazionale, so­gnava la conquis ta del p o t e r e p e r la via r ivoluzionar ia di u n a marcia su Roma. Il fascismo r ipudia tutto questo: a Ro­ma c'è già, e vuole restarci con tutt 'altri mezzi.

O r m a i aveva capito che la maschera de l l 'uomo d 'o rd ine era quella che più gli conveniva.

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C A P I T O L O T E R Z O

L'AGONIA DI UN REGIME

Bonomi, che vi aveva pun ta to tutte le sue carte, non soprav­visse al fallimento del pat to di pacificazione. L'ordine inter­no, ormai sfuggito al control lo dei pubblici poter i , e ra alla mercé delle squadre che avevano risolto a loro favore la par­tita della violenza.

Questa aveva i suoi epicentr i in Padania e in Toscana, le zone d o m i n a t e dagli ag ra r i , e la r o t t u r a di equi l ibr io fra quelli che oggi si ch i amerebbe ro «gli oppost i estremismi», e ra sop ravvenu ta t ra la fine del '20 e il p r inc ip io del ' 2 1 , q u a n d o a p p u n t o gli ag ra r i avevano p re so nei Fasci i l so­pravvento. Uno degli episodi decisivi e ra stato quello di Pa­lazzo d'Accursio, il Municipio di Bologna, il giorno in cui vi si era insediata la nuova Giunta socialista. N e m m e n o oggi si sa con prec is ione chi ne fu responsabi le . M e n t r e la folla aspet tava in piazza che i l s indaco par lasse , a lcune b o m b e caddero dal tetto. Il pubblico che assiepava la sala consiliare ne r i t enne responsabil i i r app resen tan t i della minoranza e si mise a sparare contro di essa. L'avvocato liberale Giordani venne abbat tu to a revolverate, il suo collega Colliva ferito, m e n t r e in piazza si conta rono u n a diecina di cadaveri. L'ag­gressione fu at tr ibuita ai socialisti, cont ro cui l ' indomani si sca tenarono le squadre di Arpinat i , il ras di Bologna, e del suo l uogo tenen t e Bonaccorsi . La città fu sotto il control lo dei loro manganell i .

Un mese dopo , fu la volta di Ferrara. In origine, il Fascio di Ferrara era stato il più rivoluzionario e a sinistra di tutti. Lo aveva fondato un t emera r io gigante , ex-bersagl iere ta­tua to di ferite e di medag l i e , Gaggiol i . Ma di proseli t i ne

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aveva fatti pochi pe rché la borghesia te r r ie ra n o n si fidava dei suoi a t t egg iamen t i sovversivi. Ancora alla fine del '20 e r ano in tu t to u n a quaran t ina , conosciuti pe r sop rannomi (Sciagura, Finestrachiusa ecc.). Ma poi era arrivato Balbo.

Balbo n o n aveva aderi to al p r imo fascismo perché n o n lo trovava, pe r i suoi gusti, abbastanza repubbl icano. Tornato dalla gue r ra , pe r la quale si era a r ruo la to poco più che ra­gazzo come ufficiale degli Alpini, aveva r ipreso a Firenze i suoi studi universi tar i . Fu l'Associazione Agraria che lo ri­chiamò a Fer ra ra pe r ché p rendesse in m a n o gli squadrist i locali e desse loro u n a riassettata borghese. Per le sue gesta di trincea, pe r il suo coraggio, pe r la sua loquela facile, an­che se inceppata dalla lisca, aveva tut te le carte in regola pe r incutere rispetto agli squadristi e p a u r a ai socialisti. Non gli mancavano n e m m e n o dei doni di calore umano , di genero­sità e di allegrezza goliardica che gli valsero qualche simpa­tia fra gli stessi nemici. Q u a n d o il Prefetto proibì il manga­nello, Balbo a r m ò i suoi uomin i di stoccafissi che, picchiati con energ ia sulla testa degli avversari , vi p r o d u c e v a n o gli stessi effetti; e che poi facevano da p ia t to forte di g r a n d i mang ia te conviviali cui talvolta venivano invitate le stesse vittime.

Gaggioli e gli altri della sua b a n d a t en ta rono a lungo di con t ende re a Balbo la supremazia nel Fascio ferrarese. La rivalità era p u r a m e n t e di potere personale, ma aveva anche un suo rozzo risvolto ideologico. Anarchico convertito dalla guer ra al nazionalismo, Gaggioli era tagliato nello stesso le­gno dei fascisti rivoluzionari di piazza S. Sepolcro, e a tutto era disposto fuorché a fare lo scherano della borghesia agra­ria. Ma solo questa poteva dare alle squadre i mezzi pe r di­ventare un vero movimento politico, e na tura lmente li det te a Balbo che, oltre al resto, possedeva anche un notevole ta­lento organizzativo. Q u a n d o , nell 'apri le del ' 2 1 , Mussolini venne a Fe r ra ra , Balbo gli fece t rovare in piazza Ariostea t r en tami la «camerati» fatti affluire con tut t i i mezzi dalle province della Padania . Fra essi i Gaggioli e gli altri della

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sua razza e rano oramai ridotti ad esigua minoranza grega­ria.

Analoga sorte aveva subito il Fascio fiorentino o meglio i Fasci p e r c h é f in da p r inc ip io ce n ' e r a n o stati d u e . U n o , quel lo più au ten t ico , faceva capo a u n a mezza dozzina di c iompi rot t i a qualsiasi avven tura : Banchell i de t to «il Ma­go», Dumin i , Frullini e i d u e fratelli Nenciolini ; l 'al tro, si­gnorile, in cui militavano i più bei nomi dell 'aristocrazia ter­r iera toscana. La faida fra queste d u e fazioni avrebbe anche po tu to arr ivare al sangue se a conciliarla non fosse interve­nuto un media tore che aveva buoni titoli al rispetto sia del­l 'una che dell 'altra. Dino Per rone Compagn i era marchese ed ex-ufficiale di cavalleria: il che lo accreditava presso i no­bili che lo sentivano dei loro. Ma ai ciompi lo rendeva sim­patico l 'essere stato deg rada to pe r debiti di giuoco e il suo m o d o di vivere da ro t tame fra bische e d o n n e . Così fu lui a emergere e a diventare il capo di tutti, secondato da un cer­to Tambur in i che si guadagnava la vita compi lando biglietti da visita grazie al suo unico talento: la calligrafìa.

La fusione avvenne ai pr imi del ' 21 , sul sangue. Un anar­chico lanciò una bomba in via Tornabuoni provocando d u e mort i e una ventina di feriti. Perrone Compagni assunse su­bito la direzione della rappresagl ia in cui tutti si t rovarono uniti . Per due giorni la città echeggiò di spari. U no s tuden­te fascista, Giovanni Ber ta , che voleva r a g g i u n g e r e la sua s q u a d r a ol t re l 'Arno, fu aggred i to sul p o n t e dai socialisti che , d o p o averlo lanciato ol t re la spallet ta, gli recisero le mani aggrappa te a u n a sporgenza. Gli scontri si fecero an­cora più fitti e sanguinosi. A Scandicci i socialisti dr izzarono barr icate che Tambur in i e spugnò lanciandovi cont ro i suoi camion. I rossi t en t a rono la rivincita a Empoli , q u a n d o un motociclista traversò il paese u r l ando che i fascisti e rano in a r r ivo . Tut t i corse ro ai fucili, e q u a n d o sop ragg iunse ro i d u e convogli li p rese ro sotto il loro fuoco incrociato. U n o , carico di mort i e di feriti, riuscì a proseguire . L'altro fu bloc­cato dalla folla inferocita che ne linciò selvaggiamente i pas-

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seggeri . Solo a massacro ul t imato, si resero conto che n o n di fascisti si trattava, ma di poveri marinai in trasferta da Li­vorno . I fascisti accorsero subito d o p o , da Firenze, p e r in­fliggere il castigo, che fu d u r o . E da allora le spedizioni pu­nitive in tutta la Toscana non si contarono più anche perché queste consentivano ai vari ras di mettersi in luce e di rinsal­dare il p ropr io pr imato .

Quel lo d i C a r r a r a , Rena to Ricci, che sembrava un bri­gante albanese pe r via del lunghiss imo fez appun t i t o sulla testa, aveva acquistato g ran prestigio pe r l 'energia con cui aveva domato gli anarchici che in quella città avevano la lo­ro roccaforte. Ma n o n riusciva ad aver ragione di Sarzana, dove i fascisti n o n osavano n e m m e n o en t r a r e . Ci si p rovò lui di persona. Ma dopo aver lasciato pe r strada mort i e fe­riti, salvò la pelle solo grazie a l l ' in tervento dei carabinier i che lo r inch iuse ro in p r ig ione . La s q u a d r e s i mosse ro da tutta la Toscana pe r liberarlo, e fu u n a delle prove generali di mobilitazione su g rande scala.

Stavolta p e r ò i carabinieri , che di solito ai fascisti lascia­vano mano libera, spararono. I fascisti, che non se l 'aspetta­vano, si dispersero pe r i campi, e i contadini ne fecero scem­pio. Il conto fu saldato da u n a ventina di mort i e u n a trenti­na di feriti. Ma na tu ra lmente si trattava di un saldo provvi­sorio perché subito dopo i fascisti vollero la rivalsa, e anda­rono a cercarsela sopra t tu t to nelle c a m p a g n e fra Arezzo e Grosseto, le zone p iù rura l i e p iù rosse della Toscana. Ne andava di mezzo anche gente che non aveva nulla a che fa­re con questi «opposti estremismi», e Roccastrada a n d ò ad­dir i t tura devastata. Pe r rone C o m p a g n i organizzava queste imprese anche pe r da re m o d o ai Dumini e ai Nenciolini di sfogarvi i loro uzzoli di violenza. L'unione fra i d u e Fasci re­stava p reca r i a e n o n fu mai c o m p l e t a m e n t e r agg iun ta . I ciompi si r ifiutavano di fare la guard ia bianca dei signori i quali fecero abbat tere Pirro Nenciolini a revolverate.

A questo squadrismo diviso e rissoso faceva eccezione so­lo Cremona perché il ras che vi dominava lo aveva preso sin

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da pr inc ip io e cont inuava a t ener lo sa ldamente in p u g n o . Roberto Farinacci era u n o dei pochissimi capi fascisti, forse l 'unico, che n o n avesse meri t i combattentist ici . D u r a n t e la guer ra , e ra r imasto a casa, o meglio in stazione pe rché era impiegato delle ferrovie, e come tale esentato dal r ichiamo. I suoi avversari infatti lo chiamavano «Tettoia», e dapprinci­pio non lo avevano preso molto sul serio anche perché non amava mettersi in p r ima fila, e nelle spedizioni punit ive ar­rivava a cose fatte. In compenso pe rò era dotato di un senso politico, che sin dagl'inizi gli aveva permesso d ' in t ravedere abbas tanza c h i a r a m e n t e Io svi luppo del fascismo. Subito aveva compreso la necessità di appoggiarsi agli agrari , par­t icolarmente forti in quella provincia, e di far leva sui loro mezzi pe r u n a soluzione rivoluzionaria. Fra i suoi squadristi n o n c 'erano dissidenze: e rano tutti pe r lui, che n o n era af­fatto p e r Mussolini e pe r i suoi «compromessi». Nel '21 era stato eletto deputa to , ma siccome n o n aveva ancora i 25 an­ni prescritti dalla legge, alla Camera n o n aveva avuto il tem­po d'illustrarsi se non per un gesto teatrale che si era r i torto contro di lui. Affrontato fon . Misiano, socialista ex-diserto­re , gli aveva ingiunto di consegnargli la pistola, che poi ave­va gettato sul tavolo del Capo del Governo , Giolitti, dicen­dogli : «Se la tenga». «Non posso p e r c h é n o n ho i l p o r t o d 'arme» aveva risposto pacatamente Giolitti.

Rientrato a Cremona , Farinacci aveva preso in p u g n o la città nel più semplice e incruento dei modi : t enendo in sta­to di p e r m a n e n t e occupazione le sedi della Provincia e del C o m u n e e compor tandos i come se ne fosse lui il titolare. Il Prefetto chiese a Roma cosa doveva fare. «Applichi il codi­ce» gli risposero dal Ministero. E siccome il codice n o n con­templava un simile caso, il Prefet to lasciò fare. Era il mo­mento in cui Balbo faceva le sue prove generali di mobilita­zione. Fra le camicie ne re che si stavano concen t rando c'e­r ano anche quelle di Farinacci, ma n o n c'era Farinacci che n o n amava quelle sagre e non voleva mescolarsi con gli al­tri. Egli era già in piena rot ta con Mussolini pe r via del pat-

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to di pacificazione, e n o n intendeva piegarsi, ma non inten­deva n e m m e n o confondersi coi Balbo, i Grand i e gli Arpi-nati forse pe rché ne p revedeva pross ima la sottomissione. Fin da allora egli aspirava a porsi come alternativa di Mus­solini, cioè come capo della opposizione in terna , quale poi sarebbe rimasto fino alla Repubblica di Salò.

Nel Mezzogiorno lo squadr i smo fu tale sol tanto in Pu­glia, zona agrar ia p e r eccellenza, e trovò subito un capo in un g r a n d e feuda ta r io locale, C a r a d o n n a . Q u a n d o Balbo suonò i corni de l l ' aduna ta a Ravenna pe r far capi re ai ro­magnoli ch 'era inutile cont inuare la lotta, ma anche pe r am­moni re Mussolini ch 'era inutile fare la pace, tutti r imasero sconcertati dall 'arr ivo di un manipo lo di uomin i a cavallo: e rano gli squadrist i di Ca radonna , che aveva dato la caccia ai socialisti delle Murge come gl'inglesi d a n n o la caccia alla volpe. O g n u n o infatti nel l 'eserci to fascista po r t ava la sua un i fo rme , o se ne inventava u n a . Ma tut t i ins ieme e r a n o u n a t r u p p a accampata in t e r r a di conquista, e ben decisi a t ra t ta re l 'Italia come tale. L 'operazione sognata da Giolitti di assorbire il fascismo e di t r i turar lo nel giuoco par lamen­tare si rivelava sempre più improbabi le , e c o m u n q u e t rop­po al di sopra delle possibilità di un Bonomi.

Era stato l 'episodio più i nc ruen to , quel lo di C r e m o n a , a met te re in crisi il governo esponendolo al ridicolo e d imo­s t randone l ' impotenza.

L'ultima spinta alla crisi la de t t e il crack della Banca di Sconto. Questa Banca era dei fratelli Per rone , i quali spera­vano di risolvere con essa, cioè col r isparmio ch'essa riusci­va a ras t re l la re dalle tasche dei depos i tan t i , le gravi diffi­coltà in cui si dibat teva la loro az ienda s iderurgica «Ansal­do» che, d o p o gl ' immensi profitti di guer ra , n o n riusciva a r idimensionare i p rop r i impianti sulle più modeste esigenze di pace. I Perrone, che già pochi anni pr ima avevano tenta­to d ' impadroni rs i anche della Banca Commercia le , ci si ri­p rovarono , ma inut i lmente . Si rivolsero alla Banca d'Italia

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ch i edendo le d i consorz ia re altr i qua t t r o Ist i tuti p e r fare fronte ai creditori. Ma Bonomi si rifiutò di far pagare a tut­ti gl'italiani gli e r ror i dei Per rone , la Banca di Sconto dovet­te chiudere gli sportelli, molte aziende creditrici fallirono, e il panico dilagò insieme alla disoccupazione.

L'episodio tuttavia n o n avrebbe sortito effetti decisivi se non si fosse innestato in una più vasta crisi politica. La mag­gioranza liberale, su cui Bonomi si reggeva, e che non aveva mai avuto organica consistenza, era vieppiù divisa. Due suoi g rupp i , quello di «Democrazia liberale» e quello di «Demo­crazia sociale» si fusero fo rmandone u n o solo che si chiamò «Gruppo democratico» e che, forte di circa 150 deputa t i , si p r o p o n e v a di rovesciare Bonomi p e r r i c o n d u r r e a l po te re Giolitti; ma ebbe cont ro di sé tutta la costellazione dei g r u p ­pi che facevano capo agli altri t re notabili del l iberal ismo: Or lando , Salandra e Nitti. In questa situazione, l 'unico sicu­ro appoggio di Bonomi e rano i popolar i di Sturzo.

Anche costoro e r ano divisi. Come nella democrazia cri­stiana di oggi, la cosiddetta «base», domina ta da Miglioli e dalle sue «leghe bianche», era comple tamente spostata a si­nistra, vedeva nel fascismo il vero nemico da combat tere , e anche pe r questo avrebbe voluto l'alleanza coi socialisti. Co­storo però , fedeli alla loro vocazione del ghet to, vi si rifiuta­rono , d a n d o così buone carte a Sturzo pe r cont inuare la col­laborazione col governo centrista di Bonomi , di cui o rma i egli era l 'arbitro.

Nel gennaio del '22 il papa Benedet to XV morì , e pe r la p r ima volta dalla breccia di Porta Pia il governo prese uffi­c ia lmente pa r t e a l lut to della Chiesa facendo e s p o r r e nei pubblici edifici le bandiere a mezz'asta e m a n d a n d o il Mini­stro della Giustizia, ch 'era un popolare , a fare u n a visita di condoglianze in Vaticano. Il gesto suscitò le ire dei liberali, fedeli alla tradizione laica del Risorgimento, e divise vieppiù la precaria maggioranza di Bonomi. Il nuovo Pontefice, che assunse il nome di Pio XI , e ra il Cardinale Ratti: un lombar­do che, già conservatore pe r formazione familiare e di am-

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biente, lo era diventato ancora di più d o p o l 'esperienza fat­ta come Nunzio in Polonia, dove aveva visto all 'opera il bol­scevismo e ne aveva contrat to l 'orrore. Come Arcivescovo di Milano si e ra guadagna ta la simpatia dei fascisti facendone benedi re in chiesa i gagliardetti. E appena eletto, pe r la pri­ma volta dal 1870, spalancò il balcone su piazza San Pietro pe r impar t i re la benedizione Urbi et Orbi.

In questa situazione, na tura lmente , lo squadrismo guaz­zava. Sebbene seguitasse ad agitare lo spauracchio della ri­voluzione rossa, questa e ra già stata debellata, o meglio si era auto-debellata. Indeboli to dalla secessione comunista, il part i to socialista si era prat icamente dissolto in tre t ronconi in g u e r r a t ra loro su tu t to . A des t ra la frazione di Turat i e dei riformisti che volevano la col laborazione coi liberali e coi popolar i pe r un governo che arginasse la violenza squa­drista. A sinistra, un g r u p p o che chiedeva la sottomissione del part i to alla «Terza Internazionale» di Lenin, cioè la sua trasformazione in un part i to comunis ta di obbedienza mo­scovita. Al centro, i massimalisti di Serrati che n o n volevano nessuna collaborazione con nessuno, né coi popolar i , né coi liberali, né coi comunisti , ben decisi a «restare se stessi», cioè a consumarsi nella loro solitaria impotenza. Erano stati que­sti ultimi a vincere il congresso di Milano. Ma la stavano pa­gando cara. Le grandi confederazioni sindacali - C G L , USI e U I L - sempre più si distaccavano da loro, e nel febbraio (del '22) si u n i r o n o in u n a «Alleanza del Lavoro» r o m p e n d o i ponti col part i to.

Ques to p a n o r a m a suggerisce l ' impressione che ben po­chi si rendessero conto della imminenza e gravità del peri­colo fascista. Gli stessi socialisti, che p u r e ne subivano p iù d i r e t t a m e n t e le conseguenze , n o n r iuscivano a s u p e r a r e , per farvi fronte, le p ropr i e divisioni e allergie. E quan to ai liberali e ai popolari , sembrava che gli uni e gli altri avesse­ro più a cuore le vecchie d ispute sulla scuola laica e sui ri­tuali r isorgimentali che n o n la difesa della democrazia . In­fatti fu p r o p r i o pe r reazione al l 'arrendevolezza di Bonomi

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ai popolar i e ai suoi atti di omaggio alla Chiesa, che il Grup ­po Democra t ico s i r i t i rò dal gove rno m e t t e n d o l o in crisi. Era la fine di febbraio del '22, n o n mancavano che dieci me­si alla Marcia su Roma.

Era u n a classica «crisi al buio» pe r ché nessuno aveva in tasca la ricetta pe r risolverla, o meglio o g n u n o aveva la sua, inconciliabile con quella degli altri. I giolittiani, com'è logi­co, r ivolevano Giolitti, con t ro cui p e r ò si schieravano n o n soltanto i popolar i di Sturzo che nutr iva pe r lui la più insa­nabile ant ipat ia , e n a t u r a l m e n t e i socialisti fedeli alla loro divisa «contro tutti»; ma anche gli altri g r u p p i liberali che facevano capo a Or lando , Salandra e Nitti. Solo alcuni di es­si, come Amendola e Frassati, vedevano con chiarezza la ne­cessità di u n a coalizione che s i p r o p o n e s s e come compi to pr imar io la lotta al fascismo, e perciò chiesero che la Came­ra per intanto si pronunciasse pe r un drastico rafforzamen­to del l 'ordine pubblico contro tutte le violenze. Ma Mussoli­ni scompigl iò subito le car te del giuoco facendo vo ta re la mozione dai suoi 45 deputa t i e anzi a s sumendone il pa t ro­na to come se delle violenze egli fosse n o n il responsabi le , ma la vittima.

Fu la p iù l u n g a crisi della storia p a r l a m e n t a r e i tal iana p ropr io nel m o m e n t o in cui più urgeva un governo che go­vernasse. In seguito Sturzo negò di aver oppos to un veto a Giolitti, e forse fo rmalmente è vero nel senso che lo lasciò p ronunc ia re dal part i to. Ma i giolittiani, se n o n e rano abba­stanza forti pe r fare da soli un Ministero, lo e r ano tuttavia quanto bastava pe r impedi re che lo facessero altri. E inutile qui r id ipanare la complicata matassa dei giuochi, dei dopp i giuochi , delle e s t enuan t i t ra t ta t ive che s i p ro t r a s se ro p e r set t imane. Quella che infine fu trovata era la solita soluzio­ne di compromesso : n o n p o t e n d o Giolitti, i giolittiani r iu­scirono a por ta re al governo u n o dei suoi «ascari» più fede­li, ma anche dei più sbiaditi: Luigi Facta.

Facta era un bravo avvocato di provincia piemontese con tut te le virtù, ma anche con tutti i limiti del suo ambien te :

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un u o m o probo e integro, che d o p o t r e n t a n n i di vita parla­m e n t a r e ne aveva o rma i u n a cer ta esper ienza, aveva rico­per to con onore alcune cariche ministeriali, non aveva altra ambizione che quella di servire fedelmente il suo Capo , né altre idee che quelle di lui. Tutto gli si poteva chiedere fuor­ché risolutezza e immaginazione, cioè p ropr io le qualità che più urgevano.

Ma forse fu p ropr io per questo che i popolari decisero di appoggiar lo: speravano di tenerlo pr igioniero come aveva­no fatto con Bonomi.

Mussolini aveva segui to la vicenda con comprens ib i le an­sietà. La crisi di gove rno andava tu t ta a suo vantaggio in quan to rivelava l'inefficienza del Par lamento e la decompo­sizione dei par t i t i t radizionali . Ma poteva anche risolversi col r i torno al po te re di Giolitti, l 'unico uomo che egli segui­tava a t emere . La nomina di Facta, anche se la criticò, n o n gli dispiacque di certo.

Egli n o n aveva ormai alcun dubbio sulla strada da segui­re, anche se n o n era di suo gusto. Erano stati gli agrari a in­grossare di uomini le fila del fascismo, e ora e rano gl ' indu­striali che ne ungevano le ruote . Su questi finanziamenti si è molto r o m a n z a t o fino a pa r l a r e di «pioggia d 'oro». N o n è così. Secondo gli accertamenti di De Felice, i regolari contri­but i de l l ' indus t r ia al fascismo cominc ia rono tra la fine del '21 e gl'inizi del '22, e n o n supera rono mai le 200.000 lire al mese che, anche nella valuta di quei tempi , e r ano u n a cifra piut tosto modes ta . Ma questa veniva versata alla di rezione del part i to. E questo era il fatto nuovo. Sin allora i contribu­ti e rano stati quelli, ancora più modesti , versati dagli agrari , ma d i re t tamente ai ras provinciali che anche da questo trae­vano la loro r iot tosa forza. Gl ' industr ia l i davano invece al part i to che così poteva cominciare a rafforzare le sue strut­ture centrali. ,

Questa conversione del g r ande capitalismo u r b a n o al f i ­nanziamento del fascismo era il frutto della nuova posizione

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assunta da Mussolini in favore dell'iniziativa privata e con­t ro lo statalismo. Egli aveva o rmai accettato la sua par te di d i fensore della borghes ia , e p e r adeguarvis i n o n esitò a r o m p e r e di nuovo con D'Annunzio.

Dopo la schiarita della visita a Gardone, che nell 'aprile del '21 gli era tanto servita a bloccare la dissidenza dello squadri­smo dannunz iano , i suoi r appor t i col Poeta si e r ano nuova­mente deteriorati. Pur senza r inunziare alla sua par te di ora­colo al di sopra della mischia, D'Annunzio n o n r isparmiava strali al fascismo, che definiva uno «schiavismo agrario». Tan­to che alcuni dirigenti della Confederazione del Lavoro, Bai-desi e D'Aragona, pensarono di servirsi di lui come dell'anti-Mussolini. Non è stato mai del tutto chiarito come si sviluppò questa t rama. Essa ebbe pe r in termediar i De Ambris e Giu-lietti, il capo della Federazione dei Lavoratori del Mare, en­t rambi fiumani. Ma c 'entrò anche Nitti, d iment ico del «ca-goia» che D'Annunzio gli aveva appioppa to . Prima Baldesi, poi D'Aragona andarono a Gardone, vi furono benissimo ac­colti, ma probabilmente ricevettero la stessa risposta che ave­vano ricevuto Grand i e Balbo. Al Poeta piaceva moltissimo venire sollecitato come il g r a n d e arbi t ro e règolo della vita italiana; ma, p u r incoraggiando tut te le speranze , impegn i non ne prendeva con nessuno. Comunque , la manovra a lar­go raggio di cui si parlò, che avrebbe dovuto condur re , sotto il patronato del Comandante , a u n a coalizione fra Nitti, i po­polari e i socialisti, non ebbe il tempo di svilupparsi.

Facta aveva d i ramato ai Prefetti e ai Questori l 'ordine pe­rentor io d ' impedi re le violenze fasciste. Ma la maggioranza dei Prefetti e dei Ques to r i n o n avevano nessuna voglia di obbedire; e i pochi che ne avevano voglia - come il Prefetto Mori di Bologna, il p iù risoluto e coraggioso di tutti - n o n ne avevano i mezzi. Così il m a n g a n e l l o imperve r sava e il sangue correva. Farinacci teneva Cremona nel te r rore . Bal­bo aveva fatto della Padania u n a piazza d 'a rmi pe r le eserci­tazioni delle sue camicie nere . Da Bologna le squadre di Ar­pinat i e Bonaccorsi t enevano le c a m p a g n e nel l ' incubo dei

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loro raids. Non c'era giorno senza morti . E non c'era mor te che non venisse r ipagata con altre morti .

Questo «sterminismo» era la croce n o n soltanto di Facta, ma anche di Mussolini, che ne vedeva compromessa la sua maschera di rispettabili tà borghese . Egli cercava di richia­mare i riottosi dalle colonne del suo giornale: «Quell 'alone di simpatia che ci seguì nel 1921 si è attenuato» ammoniva. Ma, dopo la lezione subita al t empo del pat to di pacificazio­ne , n o n osava p r e n d e r e r i so lu tamente d i pe t to le squad re scatenate. N o n era ancora «il Duce»; e il par t i to , tu t tora in embr ione , n o n gli pe rmet t eva di me t t e re la mordacch ia ai ras e alle loro squadre . Ma capiva che se quell 'anarchia fosse cont inuata , il fascismo si sarebbe i r reparab i lmente squalifi­cato agli occhi della pubblica opinione.

Come al solito, furono i socialisti a riaccreditarlo. Alla fine di maggio, u n a frazione della fazione riformista, capeggiata dal deputato Zirardini, approvò un ordine del giorno che in­vitava il partito a uscire dal suo isolamento e a collaborare con un governo che s'impegnasse a u n a lotta risoluta contro il fa­scismo. Questo invito era vigorosamente avallato dalle orga­nizzazioni sindacali, dissanguate dalle diserzioni dei lavoratori che un po ' sotto la minaccia del manganel lo , un po ' perché avevano perso ogni fiducia nei loro dirigenti di partito, accor­revano sempre più numerosi nei sindacati fascisti. Ma Serrati e i suoi compagni di direzione respinsero l'appello.

Le violenze fasciste r addopp ia rono . A Cremona Farinac­ci fece incendiare la casa di Miglioli e dis t ruggere tutte le se­di delle «leghe bianche». Facta, accusato di debolezza e fi-nanco di connivenza, fu bat tuto e rassegnò le dimissioni, in fondo con ten to di trarsi da quelle peste e di t o rna r sene al suo studio d'avvocato in Piemonte : riconosceva che le cose e rano più grandi di lui e sperava di lasciare il mestolo a Gio­litti, l 'unico in grado di appianar le .

Stavolta Tura t i , incitato da A n n a Kuliscioff, t rovò il co­raggio di ribellarsi alla inerzia del part i to, si dichiarò dispo­sto a collaborare con il governo, e con e n o r m e scandalo dei

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compagni «si prostituì a salire le scale del Quirinale», cioè a conferire col Re sulla persona a cui affidare il manda to . Na­tura lmente egli pensava a Giolitti, che n o n aveva mai smes­so di p e n s a r e a lui. E Mussolini t r emò . Anche dimezzati , i socialisti al governo insieme a Giolitti e ai popolar i significa­vano l ' isolamento del fascismo. Ing iunse a Farinacci di ri­ch iamare al l 'ordine le squadre cremonesi , ma n o n riuscì a imped i r e la g r a n d e mobil i tazione che Balbo aveva inde t to in Romagna dove si stavano concent rando 60.000 fascisti.

Ma Giolitti declinò l'invito, anzi n o n si mosse n e m m e n o da Vichy dove in quel m o m e n t o si trovava. N o n aveva nes­suna intenzione, scrisse in una lettera a Malagodi, di capeg­giare «un ibrido connubio social-popolare» che avrebbe solo condotto l'Italia alla guer ra civile. I motivi di quel rifiuto n o n sono mai stati del tut to chiariti. La gue r r a civile c'era già, e solo un accordo fra socialisti e popolari poteva dare a un go­verno la forza pe r sedarla. Ma pe r questo forse Giolitti pen­sava che occorrevano tutti i socialisti, e n o n u n a frazione. E anche possibile che in lui covasse il rancore verso Sturzo pe r via del veto che gli aveva posto pochi mesi pr ima. Ma l'ipote­si che più somiglia al personaggio è ch'egli considerasse or­mai impossibile un governo che n o n facesse posto ai fascisti.

O r l a n d o , in te rpe l la to p e r p r i m o , n o n riuscì a fo rmare u n a maggioranza di centro-destra . Si p rovò Bonomi a for­m a r n e u n a d i centro-s inis t ra , ma Tura t i n o n gli de t t e in t empo la garanzia della sua collaborazione. Furono chiama­ti, ma inut i lmente, Meda e De Nava. Tentò di nuovo Orlan­do , ma senza successo. Il 30 luglio il Re m a n d ò a r ichiamare Facta e con le lacrime agli occhi, lo scongiurò di formare un nuovo governo. Facta vi si dispose senza entusiasmo, forse convinto di non riuscire. Invece lo accettarono, ma pe r stan­chezza e pe rché frattanto era successo qualcosa che aveva fi­na lmente aper to gli occhi a tutti, anche ai socialisti.

A Balbo, che stava facendo le sue marce e con t romarce pe r la Padania, e ra giunto un te legramma in cui il ras di Ra­venna, Ettore Muti, lo scongiurava di accorrere perché , do-

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po un d u r o scont ro a fuoco coi sovversivi, quest i si e r a n o impadroni t i della città. Balbo marciò su Ravenna alla testa delle sue squadre , d o p o avervi fatto affiggere dei manifesti con cui invitava i «sovversivi» ad abbandonar la , mise a sacco la Casa del Popolo repubblicana e diede alle fiamme la sede delle cooperative socialiste.

Di fronte a questa nuova provocazione l'Alleanza del La­voro indisse lo sciopero generale pe r il 1° agosto. Sturzo de­finì quella decisione, nel m o m e n t o in cui Facta cercava fati­cosamente di cost i tuire il suo secondo gove rno e l ' o rd ine pubblico era nelle man i di Questor i e Prefetti di cui n o n ci s i poteva f idare, «mora lmente un delit to, pol i t icamente un er rore» . E aveva ragione. Lo sciopero genera le era la cosa che più atterriva i ceti medi italiani, e sembrava fatto appo ­sta pe r r iaccreditare ai loro occhi il fascismo.

Mussolini infatti n o n si lasciò scappare l 'occasione. Egli mobilitò i fascisti d ichiarando che se lo Stato n o n fosse stato in g r a d o di far funz ionare i pubblici servizi, ci av rebbe ro pensato loro a mandar l i avanti. Forse non ce ne sarebbe sta­to n e m m e n o b isogno p e r c h é allo sc iopero a d e r i r o n o solo alcune categorie di lavoratori, e pe r metà anche quelle. Ma ai fascisti n o n parve vero mos t ra re alla ci t tadinanza ch'essi e r ano in g r a d o di assolvere quei servizi mobi l i tando i p r o ­pr i tecnici e met tendol i alla guida dei convogli. Nell'assenza dello Stato, essi ne assumevano le funzioni.

Il 3 agosto l 'Alleanza e r a costre t ta a p r o c l a m a r e la fine dello sciopero r iconoscendone il fallimento («E stato la no­stra Caporet to» scrisse mes tamente La giustizia). E le squa­d re , riabilitate agli occhi della pubblica opin ione da quella p rova di forza, pa s sa rono alla controffensiva rovesc iando con la violenza le amministrazioni socialiste nelle città in cui ancora resistevano. Esse r iuscirono a conservare solo Tori­no e Pa rma , dove ci fu u n a vera e p r o p r i a bat tagl ia fra le squadre di Balbo e gli operai trincerati nel l 'Ol t re torrente .

Stavolta Mussolini non cercò di t ra t tenere le squadre, an­zi ne vantò le gesta. «In quarantot t 'ore di violenza sistemati-

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ca - sciisse - abbiamo ot tenuto quello che non avremmo ot­t enu to in quaran to t t ' ann i di prediche.» Col fiuto che lo di­stingueva aveva capito che ormai la pubblica opinione vede­va nel fascismo, e n o n nello Stato, l 'unica forza in g rado di «far andare avanti le cose» e non era più disposta a sottilizza­re sui metodi: lo sciopero generale le aveva fatto paventare il caos. E la reazione era questa: che l'ufficio tesseramento era sempre più affollato di gente che chiedeva l'iscrizione.

Questo pe rò n o n significa che Mussolini avesse ormai la part i ta in pugno , avesse scelto la s trada da battere, e su que­sta avanzasse col suo par t i to compat to , senza più esitazioni sulla tattica da seguire. Per il momen to , egli e ra sicuro solo di d u e cose: che «la Storia andava a destra», come aveva scritto a chiare lettere sul suo giornale d a n d o un definitivo addio ai suoi ricordi e alle sue nostalgie di capopopolo rivo­luzionario, cioè r i n n e g a n d o le pregiudiziali ideologiche da cui e rano partiti i fondatori del p r imo Fascio di piazza S. Se­polcro; e che l'avvenire del fascismo era di diventare la for­za egemone e t raente di tut ta la borghesia conservatrice pe r il m o m e n t o sparpagliata fra nazionalisti, liberali salandrini e anche popolari dell'ala destra.

Ques te e r a n o le forze ch'egli doveva coagulare , ma sul m o d o di farlo era tutt 'al tro che sicuro anche perché n o n sa­peva fino a che p u n t o i suoi lo avrebbero secondato. Quan­do aveva inneggiato alla violenza delle squadre , lo aveva fat­to pe r r i p rende r l e in mano . Ma in realtà quella violenza si e ra scatenata al di fuori di lui, e in molti casi, come a Cre ­m o n a , in polemica con lui che ne vedeva i de le ter i effetti sulla pubblica opinione modera ta di cui considerava neces­sario l 'appoggio. Lo sciopero generale aveva salvato il fasci­smo facendogli r iguadagnare tutti i favori che la danza sel­vaggia del mangane l lo gli avevano a l ienato . Ma o ra biso­gnava imped i re che la danza ricominciasse. Bisognava «le­galizzare» il mangane l lo , cioè met te r lo def in i t ivamente al servizio del l 'ordine costituito, anzi farlo appar i re come l'ele­men to necessario a ricostituire l 'ordine.

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Sopra t t u t t o a ques to compi to Mussolini si ded icò , la­sciando quasi in te ramente a Michele Bianchi, luogotenente sicuro e b u o n organizzatore, l'attività di part i to, e al fratello Arnaldo la direzione effettiva del giornale. Egli stava ora la maggior par te del t empo a Roma, dove aveva preso in affit­to un modes to appa r t amen to in via Rasella. Fece anche, pe r agg iornars i sulla s i tuazione in te rnaz iona le , un viaggio in Germania , dove ebbe colloqui con Stresemann e con Rathe-nau. Ma quella italiana voleva sorvegliarla dalla capitale, si­curo com'era che il regime fosse ormai alla vigilia della ban­carotta e quindi che non ci fosse che da aspettare e cogliere i l m o m e n t o o p p o r t u n o pe r seppellirlo.

Sui giuochi che svolse dietro le quinte ci sono più suppo­sizioni che document i . E certo ch'egli tentò un'accostata alla Monarchia , ma pe r via indiret ta , a t t raverso Cor rad in i che, come capo dei nazionalisti, era na tura lmente persona molto grata a Corte, e il Duca d'Aosta. Non sappiamo se Mussolini scelse questo inter locutore perché ignorava quan to il Re dif­fidasse di lui, o perché lo sapeva. Sembra in ogni caso accer­tato che il Duca si mostrò disposto ad assumere la Reggenza e ad apr i re le po r t e del po te re al fascismo nel caso in cui il Re avesse cercato di sbarrargliele. E n o n è impossibile che Vittorio Emanuele ne abbia saputo qualcosa perché il t imo­re di essere sbalzato dal t rono dal cugino alleato dei fascisti non smise mai di ossessionarlo e pesò molto sulle successive decisioni. Altre accostate Mussolini le tentò con Sturzo, con cui ebbe un colloquio, ma senza risultati, e con Nitti. Ma c'è da dub i t a r e ch 'egl i volesse c o n d u r l e a conclus ione . E più probabi le che egli volesse far ba l ena re a quest i u o m i n i la possibilità di un accordo con lui pe r render l i ancora più in­transigenti nei confronti di Giolitti.

A Milano to rnò verso la metà di agosto, cioè dopo il falli­m e n t o dello sc iopero che r e n d e v a o rma i super f lue tu t t e queste t rame. La battaglia nelle piazze era vinta, e ormai era chiaro che il regime non era più in g rado di tener testa alle squadre trionfanti.

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C A P I T O L O Q U A R T O

«O ROMA, O MORTE!»

«Roma, alma Roma, ti da ra i tu a un beccaio?» aveva escla­mato D'Annunzio . All'idea che Mussolini fosse davvero sul p u n t o d ' i m p a d r o n i r s e n e , i l Poeta a b b a n d o n ò il suo at teg­giamento di oracolo e scese in lizza. Egli m a n d ò a Napoli il suo segretario Antongini con un messaggio pe r Nitti in cui lo invitava a un incont ro di pacificazione e collaborazione. Nitti accettò, ma a condiz ione che vi par tec ipasse a n c h e Mussolini, anche lui ormai pensando , come Giolitti, che l'u­nico modo di combat tere il fascismo fosse di por tar lo a con­dividere le responsabili tà del po te re . Non si sa con quan to entusiasmo, D'Annunzio accettò, e l ' appun tamento fu fissa­to al 19 agosto nella villa - p a r e - del b a r o n e Avezzana in Toscana. Ma il 14 giunse a Nitti un te legramma dal Vittoria-le in cui si annunziava che il Poeta era caduto dalla finestra e versava in gravi condizioni.

La coincidenza e ra t r o p p o vistosa pe r n o n da r luogo a sospetti. Na tu ra lmen te si par lò di un at tentato fascista, ma ne manca qualsiasi prova. Forse il segreto di quell ' incidente sta in una delle tante lettere del Poeta alla pianista Baccarà che gli teneva compagnia , e che non ha mai voluto darle in pasto al pubblico n e m m e n o quando , vecchia e malata, cad­de in miseria. Cred iamo tuttavia di po te r escludere che l'e­pisodio avesse risvolti politici. Fortuito o provocato, tut to la­scia c redere che si trattò p ropr io solo di un incidente, e cre­d iamo di po te r agg iungere che n o n modificò i l corso della Storia. L'incontro non avrebbe p rodo t to nulla: a farlo fallire avrebbe provveduto Mussolini, ormai deciso a fare da sé.

P rop r io in quei giorni di ferragosto si r iunì a Milano il

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Comita to Cent ra le del par t i to fascista, che affrontò i l p r o ­b lema di fondo: conquis ta del p o t e r e p e r via legali tar ia o pe r via rivoluzionaria? Per la via legalitaria si p ronunc iò ri­so lu t amen te G r a n d i , i l cui pens i e ro polit ico aveva subito una rap ida e radicale evoluzione: disgustato dalle violenze degli squadristi , dai quali si e ra t enu to piuttosto appar ta to , egli temeva che, conquis tando il po te re con la forza, il fasci­smo sarebbe rimasto loro prigioniero. Per la soluzione rivo­luzionaria furono invece Bianchi, Balbo e Farinacci.

Mussolini non si p ronunciò . Si limitò a fare u n a diagnosi della s i tuazione che d imos t ra il suo rea l ismo e t empi smo . N o n s i poteva , disse, lasciar passare un al t ro i nve rno che avrebbe p o t u t o r imescolare tu t te le car te del g iuoco. Ciò n o n implica necessa r i amente che la conquis ta del p o t e r e debba farsi con u n a marcia di camicie ne re su Roma, ma a questa eventualità bisogna preparars i perché pot rebbe ren­dersi necessaria.

Perciò fu deciso di unificare le organizzazioni militari sot­to un comando sup remo di cui Balbo fu subito l 'anima. Ma da molti indizi risulta che a questa soluzione Mussolini cre­deva poco: voleva sempl icemente met te r la fra le car te del suo giuoco come a r m a di minaccia e di r icatto. Egli aveva ormai la precisa sensazione che nessuno dei possibili succes­sori di Facta avrebbe accettato di formare un governo senza la pa r t ec ipaz ione dei fascisti. N o n e ra del tu t to sicuro di quale gli convenisse di più, ma era del tut to certo di quale gli convenisse di meno : Giolitti. «Se to rna al potere lui - dis­se a Rossi -, siamo fottuti. Come ha fatto spa ra re su D'An­nunzio, farebbe sparare su di noi.» Anche la soluzione di un triparti to Nitti-Mussolini-D'Annunzio era ormai da scartare p e r c h é in esso la figura d o m i n a n t e sarebbe stato il Poeta, frattanto ristabilitosi dalle conseguenze dell ' incidente. Pote­va esserci u n a soluzione Or lando , ma anche Or lando conta­va d ' imbarcarvi D'Annunzio. Poteva esserci la soluzione Sa-landra, ma Salandra significava lo sposalizio col più smacca­to conservatorismo, men t re Mussolini non voleva ancora ri-

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nunziare a qualche possibilità d'intesa con le sinistre, eppoi r a p p r e s e n t a v a la sfida a Giolitti, che Mussolini paven tava non soltanto come alleato, ma anche come nemico.

Insomma, di tutte, la soluzione migliore era ancora Facta che, come luogotenente di Giolitti, ne godeva la protezione senza pos sede rne le capacità. De Felice sostiene che Facta aveva più polso ed era m e n o succubo di Giolitti di quan to in g e n e r e si c reda . Può darsi . C o m u n q u e , se Mussolini p u n t ò su di lui, fu di certo perché lo considerava n o n il più, ma il m e n o qualificato a fare fronte alla situazione. E i fatti d imost rarono che aveva visto giusto.

Volendo riassumerlo all 'ingrosso, il p a n o r a m a dei cosid­dett i «schieramenti» si p resen tava così. Dopo il fall imento dello sciopero generale, l'Alleanza del Lavoro che aveva cer­cato di r iuni re tutte le forze politiche e sindacali di sinistra, si era comple tamente disintegrata: lo dimostrava la crescita t umul tuosa dei sindacati fascisti passati da 400 a 700 mila iscritti. Dentro il parti to socialista, si era ormai alla vigilia del­la ro t tu ra - che si sarebbe consumata ai p r imi di o t tobre -fra i riformisti di Turati e i massimalisti di Serrati. Questi ul­timi, avendo accettato tut t i i diktat della In te rnaz iona le di Mosca, ne godevano ora l 'appoggio ed e rano p ron t i a fon­dersi coi comunist i come a p p u n t o Mosca voleva. Ma anche fra i comunisti c 'era rot tura . L'ala destra di Tasca era p ron ta ad obbedire. Ma la sinistra non voleva saperne . Il suo capo, Bordiga, n o n faceva differenze fra Giolitti, Turati , Sturzo e Mussolini, e rifiutava la par tec ipazione a q u a l u n q u e coali­zione antifascista, anzi dichiarava: «Se i fascisti abbattessero la baracca par lamentare , ne sa remmo lietissimi».

Al centro e a destra non c'era più nulla, se non le cliente­le personali dei g rand i «notabili», fra i quali era ormai aper­ta la ga ra a l l ' a ccapa r r amen to dei favori di Mussolini . Gli unici decisi a resistergli e a ch iedere u n a coalizione antifa­scista e rano il Ministro degl ' In tern i Taddei , quello delle Co­lonie Amendola , quello della G u e r r a Soleri, e Cocco-Ortu, il cui g r u p p o democra t ico si e ra p e r ò dissolto. Al g r ido di

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«organizzarsi o morire», un g r u p p o di liberali tentò di orga­nizzare un nuovo parti to che inventò anche u n a camicia co­lor kaki da c o n t r a p p o r r e a quelle ne re . Esso t enne a Bolo­gna un congresso dal quale risultò che la maggioranza era composta di conservatori d' ispirazione nazionalista o salan-drina, comunque filofascista, tanto che Grandi potè scrivere che c'era da stupirsi non avesse eletto Mussolini a suo presi­den te .

Sulla strada del po te re restava d u n q u e un solo ostacolo, il Re, che significava le Forze Armate . In mezzo ad esse, le simpatie pe r il fascismo e r ano forti, anzi c 'erano dei Gene­rali come De Bono , Fara e Ceccher in i che in esso aper ta ­m e n t e mi l i tavano. Ma anche i d u e più prest igiosi artefici della vittoria, Diaz e T h a o n di Revel, n o n nascondevano la loro p ropens ione pe r Mussolini, che n o n perdeva occasione pe r r i cordare a tutti che solo grazie al fascismo gli ufficiali potevano por ta re la divisa senza rischio di venire insultati e sputacchiati . Tuttavia nel suo insieme l'Esercito n o n era da «pronunciamento», e in ogni caso avrebbe obbedito agli or­dini del Re.

Questi si guardava bene dallo scoprire le p rop r i e inten­zioni, forse anche pe rché ancora n o n ne aveva. Un giorno aveva chiesto a Facta: «Ma ques to Mussolini , c'è poi da fi­darsene?» Lo aveva conosciuto d u r a n t e la guer ra , un gior­no ch 'era anda to a visitare l 'ospedale da campo in cui il ca­porale dei bersaglieri Mussolini e ra ricoverato pe r le ferite di una granata. E con la memor ia che si ritrovava non c'è da meravigl iars i che si r icordasse di lui, già abbas tanza n o t o pe r la sua azione interventista. Lo aveva rivisto una seconda volta da depu ta to in una cerimonia ufficiale. Ma non aveva avuto con lui veri e p r o p r i r appor t i , certo n o n ignorava le professioni di fede repubbl icana del p r imo fascismo, e ora forse si chiedeva quan to si potesse c redere alla sua conver­sione monarchica.

Secondo alcuni storici, a smontare le sue diffidenze furo­no la Regina Madre Margheri ta e il Duca d'Aosta. Ma la co-

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sa è poco credibile, anzi si p u ò senz'altro scartarla. Effettiva­mente Margheri ta, più che filofascista, era fascista, ma sul fi­glio n o n poteva nulla n e m m e n o come m a d r e perché non lo era mai stata. Q u a n t o al Duca d'Aosta, se influì, fu p ropr io p e r le ragioni oppos te a quel le che si d icono. Pare ch'egli avesse rea lmente assolto la missione propostagl i da Corra-dini pe r conto di Mussolini, e cercato di pe r suadere il Re ad affidarsi al fascismo. Ma se la missione ebbe b u o n esito fu p e r c h é il Re, il qua le detes tava e diffidava del cug ino , so­spet tò subito che questi si p r epa ra s se a de t ron izzar lo con l'aiuto del fascismo. Questo t imore pesò moltissimo sulla sua successiva condotta , e lo stesso Mussolini colse tutti i p re te ­sti pe r servirsene di ricatto moltiplicando gli atti d 'omaggio al Duca d'Aosta e d ichiarando pubbl icamente in un discorso a Udine: «La Corona non è in giuoco pu rché non voglia, es­sa, met ters i in giuoco». N o n la Monarch ia , ma la Corona , che poteva anche - egli sott intendeva - cambiare testa.

C'era poi anche un altro ostacolo, sebbene minore: il soli­to D'Annunzio, che aveva ricominciato ad agitarsi, ma nelle solite contraddi t tor ie direzioni. Da una par te dava spago ai sindacalisti rivoluzionari De Ambris e Giulietti r icevendo gli uomini della Confederazione Generale del Lavoro, Baldesi e D 'Aragona. Dall 'al tra m a n t e n e v a i r a p p o r t i con O r l a n d o , ch 'era anche andato a trovarlo a Gardone , con Nitti, e ora si parlava perfino di un suo incontro con l 'arcinemico Giolitti, «il macellaio di Fiume», in vista di u n a generale pacificazio­ne , che avrebbe dovuto tagliare la strada a Mussolini.

Il 3 agosto il Poeta era a Milano pe r sue private ragioni. I fascisti v e n n e r o a p re levar lo quasi di forza in a lbergo, lo condussero nel palazzo del C o m u n e p r o p r i o allora da essi conquistato a suon di manganell i , lo spinsero al balcone, lo costrinsero a par lare . Davanti a una folla acclamante, D'An­nunz io non e ra u o m o da resis tere, e par lò . Le sue pa ro le fu rono in real tà un invito alla pace , ma i l loro significato n o n contava. Contava soltanto il fatto ch'egli parlava dall'al­to d ' un municipio occupato con la violenza.

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Fu forse anche pe r vendicarsi del l ' inganno in cui i fasci­sti lo avevano t r a t to che , t o r n a t o a G a r d o n e , r ip re se con maggior lena a t rescare cont ro di loro, e q u a n d o Facta gli p r o p o s e d i capeggia re u n a gigantesca marc ia su R o m a di ex-combat tent i pe r celebrarvi il 4 novembre , anniversar io della vi t tor ia , accet tò . Nei d isegni di Facta, la marc ia di D 'Annunz io , che poi sa rebbe r imas to nella capi tale come suo n u m e pro te t to re , avrebbe p revenu to e impedi to quella di Mussolini.

Molte cose lasciano credere che sia stato questo appun ta ­mento del 4 novembre a precipi tare le decisioni di Mussoli­ni. Ma bisogna anche subito aggiungere che queste decisio­ni r iguardavano soltanto la data, perché la situazione le ren­deva comunque inevitabili. Questa era ormai completamen­te nelle mani dei fascisti che dominavano le piazze, dispone­vano delle amministrazioni locali, stavano raccogliendo nei loro sindacati masse sempre più nutr i te di lavoratori, e po­tevano contare sulla benevola neutrali tà, e in moltissimi casi sul l 'aper ta complicità delle forze de l l ' o rd ine e della b u r o ­crazia. Il g r a n d e economista e sociologo Pareto , che aveva sempre seguito con simpatia il fascismo, e di cui Mussolini si proclamava allievo, gli aveva m a n d a t o a dire: «O ora o mai più». Ma Mussolini ne era conscio. Egli non poteva ulterior­mente dilazionare u n a conquista del po te re che i suoi uomi­ni sentivano ormai a por ta ta di m a n o e che le stesse condi­zioni finanziarie del part i to imponevano .

Da q u a n d o alle modes te sovvenzioni degli agrar i si era­no aggiunte quelle, mol to più cospicue, degl ' industr ia l i , i l fascismo poteva contare su un gettito rilevante. Ma n e m m e ­no ques to po teva s o p p e r i r e ai bisogni della Milizia in cui e rano state inquadra te , pe r meglio controllarle, le squadre . Il comando generale era stato affidato a Balbo e De Vecchi, cui poi si e ra agg iun to , in quali tà di «tecnico», De B o n o . Questi era un Generale dell 'Esercito, che sino a pochi mesi p r ima aveva simpatizzato più con l'antifascismo che col fa­scismo, e aveva anche collaborato come esper to mili tare al

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Mondo di Amendo la . Poi, p e r r e c u p e r a r e il r i t a rdo , aveva dato tali segni di zelo fascista che Soleri lo aveva messo fuo­ri q u a d r o . Q u a n d o fu deciso di affiancare a Balbo e a De Vecchi un Generale vero, i p r imi candidat i alla nomina fu­rono Gandolfo e Capello. Ma Gandolfo era malato, e contro Capello militavano molte cose: l 'ombra di Caporet to , la sua affiliazione alla massoneria, la fama di Generale da p r o n u n ­ciamento , e sopra t tu t to il fatto ch'egli e ra inviso a Diaz e a Badoglio, di cui conveniva conservare i favori. Ecco perché la scelta cadde su De Bono.

Nella Milizia, Mussolini n o n aveva molta fiducia, ma la riteneva necessaria pe r controllare le indocili squadre , e ora doveva m a n t e n e r l a e assegnar le un compi to , i l quale n o n poteva essere altro che la conquista dello Stato. «Se in Italia ci fosse un governo degno di questo n o m e - disse u n a volta a Cesare Rossi -, oggi stesso dovrebbe m a n d a r e qui i suoi carabinieri a scioglierci e ad occupare le nostre sedi. Non è concepibile un'organizzazione a rmata con tanto di quadr i e di r ego lamen to in u n o Stato che ha il suo esercito e la sua polizia. Soltanto che in Italia lo Stato non c'è. E inutile, dob­b iamo p e r forza a n d a r e al p o t e r e noi . Al t r iment i la storia d'Italia diventa u n a pochade.»

Q u a n t o precaria tuttavia fosse questa organizzazione mi­litare lo d imos t ra i l fatto che g ran pa r t e delle azioni squa-driste seguitavano a svolgersi al di fuori e all ' insaputa di es­sa. A fine set tembre u n o dei più turbolent i ras locali, Giun­ta, p r o p o s e a Mussolini un ' az ione in g r a n d e a T r e n t o e a Bolzano, dove il fascismo stentava ad affermarsi. Mussolini gliene det te l'assenso forse perché pensava che quel l ' impre­sa nelle t e r r e r eden te avrebbe vieppiù marcato il cara t tere nazionale e patriottico del fascismo. Ma si dimenticò di con­sul tare i t r iumvir i della Milizia e perf ino d ' informarl i . Essi apprese ro dai giornali le gesta di Giunta che pe r il suo raid mobilitò migliaia di uomin i e lo condusse senza esclusione di colpi.

Forse queste dimenticanze e rano volute. Dopo averla co-

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stituita, egli voleva dimostrare alla Milizia che anche in cam­po militare il po te re decisionale spettava soltanto a lui, e che lui in tendeva esercitarlo senza controll i da pa r t e di nessu­no . Infatti le sue in tenzioni n o n le confidava n e m m e n o al segretario del part i to, Bianchi, di cui apprezzava la fedeltà e l ' impegno, ma n o n l ' intelligenza: lo considerava angoloso, settario, puntigl ioso, vendicativo e pr ivo d ' in tui to politico. L'unico con cui si apr iva seguitava ad essere Cesare Rossi, l 'uomo che gli era stato accanto dal p r imo momento , lo ave­va segui to in tu t t e le sue pa l inodie e gli dava s e m p r e dei consigli che corr i spondevano ai suoi desideri.

I l suo p i ano si definì ai p r i m i di o t tobre . R e n d e n d o s i con to che gli avveniment i e r a n o p iù g r a n d i di lui, Facta moltiplicò le sue pressioni su Giolitti, m a n d a n d o g l i a Dre ­nerò il Ministro della G u e r r a Soleri e il Prefetto di Milano, Lusignoli, a scongiurarlo di venire a p r e n d e r e il suo posto. A sua volta Giolitti si servì di Lusignoli p e r negoziare con Mussolini, che si most rò disposto all 'accordo, ma solo pe r ti­rarlo in lungo: bisognava a tutti i costi imped i re che D'An­nunzio, calando a Roma il 4 novembre , vi trovasse come Ca­po del Governo Giolitti e gli riconciliasse il combattent ismo nazionale.

L11 ot tobre Mussolini andò a Gardone pe r dissuadere il Poeta. Di questo colloquio, che si svolse nel p iù g r a n d e se­greto, n o n r imangono test imonianze. Si sa soltanto questo: che subito d o p o Mussolini o rd inò lo scioglimento del sinda­cato fascista dei marit t imi, i quali vennero invitati a r ientra­re nella Federazione del Mare di Giulietti. Ques ta misura , che suscitò le ire dei fascisti genovesi, e ra ev iden temente il prezzo paga to pe r la sua r inunzia al Poeta, che di Giulietti era l'alto p ro te t to re . Ma p a r e che questa r inunzia fosse ri­masta allo stato di vaga promessa e che Mussolini se ne fi­dasse poco.

L'indomani egli convocò a Milano i capi della Milizia, e li mise di f ronte a u n a decisione già presa : il 21 il c o m a n d o doveva essere assunto da un Q u a d r u m v i r a t o composto da

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Balbo, Bianchi, De Vecchi e De Bono che avrebbero prov­veduto al concent ramento delle squadre e alla fissazione de­gl ' itinerari pe r una marcia concentrica su Roma. Per copri­re questi p repara t iv i , i l 24 s i sa rebbe inde t t a u n a g r a n d e aduna ta a Napoli , dove già da t empo era in p r o g r a m m a la r i u n i o n e del Consiglio naz ionale del pa r t i to . «Credo che tut t i sarete d 'accordo» disse. De Vecchi e De Bono , che di cose militari un po ' s ' i n tendevano , n o n lo e r a n o affatto: mancavano le armi, mancava l ' inquadramento , mancava so­pra t tu t to il t empo. Ma Mussolini tagliò corto: e ra p ropr io la mancanza di t e m p o , disse, che impediva di p e r d e r n e del­l'altro. Più tardi fu chiaro che alla marcia n o n credeva nem­meno lui, anzi lui meno di tutti. Ma gliene bastava la minac­cia.

D u e giorni d o p o , in un art icolo, Esercito e Fascismo, egli attaccava violentemente Badoglio pe r u n a frase che gli era stata attribuita: «Al p r imo fuoco, tut to il fascismo crollerà». Non si è mai saputo se questa frase fosse stata effettivamen­te pronuncia ta . Sul momento , Badoglio la smentì. Ma venti anni dopo , caduto il regime, la confermò. C o m u n q u e i fatti che avevano spinto Mussolini all'attacco e rano questi.

Vedendo che le t ra t ta t ive con Giolitti a n d a v a n o p e r le l unghe , Facta e Soleri avevano deciso di p r e n d e r e qualche p recauz ione con t ro un possibile golpe. Avevano convocato p r ima Diaz e Badoglio, che si e r ano mostrat i ottimisti sulla lealtà dell 'Esercito, e poi il generale Pugliese, che comanda­va il presidio di Roma. Questi era stato il più risoluto: aveva chiesto rinforzi e già appron ta to un piano pe r la difesa del­la capitale.

Tranqui l l izzato , Facta n o n fece nul la p e r i m p e d i r e la g r a n d e mobilitazione delle 30 mila camicie ne re convocate a Napoli . Diede solo o rd ine di sorvegliare che n o n fossero a r m a t e e di deviare da Roma i t r en i che le t r a spor tavano . Mussolini pe rò era inquieto. Egli n o n in tendeva affatto con­quistare il po te re con la violenza; ma sapeva che la minaccia della violenza poteva avere effetto solo se il Re e l 'Esercito,

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che facevano tu t t 'uno , n o n si fossero schierati in favore del­le istituzioni. Una decisa presa di posizione in questo senso avrebbe reso inefficace il r icat to. Ma la p resa di posizione n o n venne . Pugliese fu t ra i pochi General i che c rede t t e ro alla ferma decisione della Corona di opporsi al colpo di ma­no fascista, e che fecero di tutto pe r rintuzzarlo. Coi rinforzi di uomini e mezzi che Facta e Soleri gli avevano dato, egli si sentiva in g rado di respingere qualsiasi attacco.

Mussolini part ì pe r Napoli il 23, e a Roma non si fermò che poche ore pe r un incont ro con Salandra. Quest i ha scritto nelle sue m e m o r i e che Mussolini pa r lò p iu t tos to brusca­men te , da u o m o sicuro del fatto suo. Voleva le immed ia t e dimissioni di Facta, ed era p r o n t o ad appoggia re un Mini­stero Salandra in cui ai fascisti fossero riservati c inque Mini­steri, ma nel quale egli n o n sarebbe en t ra to pe r meglio te­nere in p u g n o le squadre . «Al che osservai che sarebbe stata assai difficile, anzi pietosa, la situazione del Ministro dell ' In­terno con lui fuori a capo delle squadre armate.» Mussolini non t enne conto dell 'obbiezione, insistè che n o n c'era tem­po da pe rde re , e r ipartì .

Napoli brulicava di camicie nere . Ne e rano arrivate circa 60 mila che sfilarono pe r o re con labari e gagliardetti sotto u n a pioggia di f ior i . C o m e uni formi e disciplina, e ra u n a specie di a rmata Brancaleone, in cui spiccava la solita caval­leria rusticana di Caradonna . Ma come prova di forza e sfi­da alle istituzioni, aveva la sua efficacia.

Mussolini t e n n e d u e discorsi. U n o a l t ea t ro San Car lo , g remi to della Napol i borghese e b e n p e n s a n t e , cui si p r e ­sentò come il difensore della legalità e il r e s t au ra to re del­l ' o rd ine , r i s cuo tendo caldi consensi . Ad a p p l a u d i r e in un palco c'era anche Benedet to Croce. De Ruggiero, che gli se­deva accanto, gli chiese: «Ma n o n vi s embra un po ' istrio­ne?» «Sì - rispose Croce -, ma i politici devono essere un po ' istrioni.» L'altro discorso Mussolini lo p ronunc iò nel pome­riggio in piazza San Carlo alle sue camicie ne re con ben altri

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accenti: «Prende remo pe r la gola la vecchia classe dir igen­te...» eccetera. Ma n o n si sa se pe r effetto di regìa o pe r l'au­tentica fede monarchica della folla meridionale, q u a n d o fe­ce un 'a l lusione al Re, la piazza scoppiò in un frenetico ap ­plauso che si protrasse a lungo. De Vecchi racconta che, t ro­vandosi sul palco accanto a lui, lo prese pe r un braccio e gli disse di g r idare anche lui viva il Re. «Non rispose. Ripetei: - Gr ida viva il Re! - N o n disse nulla. Insistetti pe r la terza volta, e lui mi rispose secco: - No, finiscila! - G u a r d ò la folla e disse: - Basta che gridino loro. Basta e avanza! -»

Il Consiglio nazionale lo r iun ì la sera al l 'Hotel Vesuvio, ma solo pe r impart irgli le seguent i direttive. In tut ta Italia le squadre dovevano essere messe in pre-al larme il 26. Il 27 sarebbe cominciata la mobilitazione. Alla mezzanotte il par ­tito avrebbe r imesso tut t i i po te r i al Q u a d r u m v i r a t o che avrebbe posto il suo quar t i e r genera le a Perugia . Il 28, in tut te le città, si doveva p rocedere all 'occupazione degli uffi­ci pubblici: p re fe t tu re , ques tu re , stazioni ferroviar ie , cen­trali telegrafiche e telefoniche. Subito dopo , le squadre do­vevano concentrars i a Tivoli, Mon te ro tondo e Santa Mari­nella per lo «scatto concentrico» delle colonne sulla capitale.

Dati questi sommari ordini , Mussolini r ipart ì pe r Milano lasciando a Bianchi il compito di ch iudere il Consiglio, che o rmai n o n aveva più nulla da di re . L'unico che tentò di ri­met te re in discussione le decisioni fu Grand i che, r ient ra to propr io allora da Ginevra, era all'oscuro di tutto. Balbo, ch'e­ra suo amico fraterno ma lo sapeva ostile al gesto di forza, lo aveva fatto nominare Capo di stato maggiore del Q u a d r u m ­virato. «Così righerai dritto» gli disse. Ma Grandi volle ugual­m e n t e d i re la sua. Perché , disse, r i cor re re a u n a soluzione violenta che p u ò spaccare il Paese, mettere in crisi le istituzio­ni e le squadre alle prese con l'Esercito, quando ormai l'Italia era col fascismo che poteva prendersela quando voleva per la via legale delle elezioni? Ma le sue d o m a n d e caddero in un distratto silenzio. «A Napoli ci piove - disse Bianchi -, che ci stiamo a fare? Io vado a Roma.» E la seduta fu sciolta.

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Le notizie che da Napol i e r a n o g iun te a Facta avevano rinforzato la sua propens ione a nu t r i re fiducia. Tutto si era svolto senza incidenti, e il discorso di Mussolini al San Carlo era quello di un u o m o che si p reparava più a governare che a r ivoluz ionare il Paese. Q u a n t o alle sue i n t e m p e r a n z e in piazza, e ra a p p u n t o roba da piazza. Così egli riferì in un te­legramma al Re che in quel momen to si trovava a San Ros­sore. Poi, a quan to pare , scrisse u n a lunga lettera a Mussoli­ni, di cui n o n si è mai t rovata traccia, ev iden temen te invi­tandolo a par tec ipare al governo.

Egli fu qu ind i mol to so rp reso q u a n d o , i l 26, Sa l andra venne a dirgli che i fascisti rec lamavano le sue dimissioni e si p reparavano a marciare sulla capitale, e che perciò occor­reva r ich iamare subito i l Re p e r p r e n d e r e le decisioni che l ' emergenza r ichiedeva. Sa l andra era stato incar icato di quella missione da De Vecchi e Costanzo Ciano che , di r i­to rno da Napoli , e r ano andat i a t rovarlo pe r informarlo di cosa si p reparava . Non è chiaro pe rché lo avessero fatto. E chiaro sol tanto che , sebbene fascisti della pr imiss ima ora , l 'uno e l 'altro di tradizione e formazione militari e r ano più fedeli al Re che a Mussolini, e alla marcia prefer ivano u n a soluzione pacifica d 'accordo con la Monarchia , grazie alla formazione d ' un governo Salandra-Mussolini.

A questo p u n t o comincia u n a specie di balletto di cui, o pe r m a n c a n z a o p e r con t radd i t to r i e t à di tes t imonianze , è impossibile ricostruire tut te le «figure». Facta, a quan to pa­re , n o n c rede t t e a Sa landra . Era convinto che Mussolini bluffasse e che prefer isse g o v e r n a r e con lui. Perciò n o n informò il Re e convocò un Consiglio dei Ministri dove parlò di dimissioni, ma solo pe r imped i re che le desse Ric­cio che, essendo un luogo tenen te di Salandra , aveva tu t to l'interesse ad apr i re la crisi. La decisione fu che tutti i Mini­stri rassegnassero le dimissioni a lui, dandogli p iena facoltà di r impiazzarl i con fascisti q u a n d o fosse stato r agg iun to il compromesso con Mussolini. Alla seduta mancavano i d u e uomini più fe rmamente decisi a resistere: Amendola e Tad-

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dei. Soltanto dopo la mezzanotte Facta telegrafò al Re che la situazione «consigliava» il suo r i torno a Roma.

Tut ta la g io rna ta del 27 fu spesa a cost i tuire govern i . O g n u n o aveva in tasca il suo. De Vecchi e Grand i si batteva­no pe r Salandra che telefonò a Mussolini, cercando di con­vincerlo a venire a Roma. Bianchi, che si e ra fermato nella capitale e si batteva pe r tut to il po tere a Mussolini, scrisse a De Vecchi una lettera di fuoco in cui lo accusava di diserzio­ne, e ne m a n d ò copia al suo capo. In tutto questo tramestìo Facta seguitava a nu t r i re fiducia che Mussolini volesse inve­ce accordarsi con lui. Ma i te legrammi che g iungevano dai prefetti e questori delle varie città n o n confermavano que­ste speranze. Anticipando gli ordini che fissavano l'azione al 28, le squadre di Cremona , Pisa e Firenze l 'avevano già ini­ziata occupando parecchi pubblici uffici e p rovocando inci­dent i .

Il Re arrivò da San Rossore alle ot to di sera. Era di pessi­mo u m o r e e, secondo Soleri, disse a Facta, ch 'era anda to a riceverlo alla stazione, che si rifiutava di del iberare «sotto la press ione dei moschett i fascisti». Era il p r i m o accenno allo stato d'assedio. Del colloquio che si svolse poco dopo fra lui e il Pr imo Ministro a Villa Savoia, manca u n a versione uffi­ciale. Secondo Facta, il Re gli disse che quella gente (cioè i fa­scisti) a Roma non li voleva, e che piuttosto che aprirgl iene le por te , preferiva andarsene in campagna con mafumna e 'l me masnà, con sua moglie e suo figlio. Secondo il genera le Ci t tadini , a iu tan te di c a m p o del Re, quest i invece disse a Facta di presentargli delle propos te condivise da tutto il go­verno, «poi vedrò io cosa si deve fare». Ma questo n o n con­corda con un 'al t ra versione secondo cui Facta, che frattanto aveva ricevuto u n a telefonata di Lusignoli che n o n lasciava più alcun dubbio sulle intenzioni di Mussolini di respingere qualsiasi compromesso, avrebbe invece presenta to le dimis­sioni. Forse le de t te , e il Re le respinse . C o m u n q u e , di ac­certato, c'è soltanto questo fatto incredibile, che, d o p o quel colloquio, Facta andò a do rmi re come se nulla fosse.

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Lo svegliarono nel cuor della not te but tandogl i sul letto un fascio di te legrammi. Le colonne fasciste e rano in marcia verso i loro punt i di concent ramento . Molti viaggiavano sui t reni d o p o averli assaltati e averne fatto scendere i passeg­geri; altri su camion sgangherat i , in bicicletta, a piedi. Era­no s o m m a r i a m e n t e equipaggia t i in fogge p iù bandi tesche che militari, armat i pe r lo più di fucili da caccia, e bat tevano i dent i pe r il f reddo pe rché pioveva come Dio la mandava . Non c'era ombra di disciplina, e neanche di collegamenti. I capi-colonna, Igliori a Montero tondo , Per rone Compagni a Santa Marinella, n o n riuscivano a met ters i in contat to , coi mezzi e sulle s t rade di allora, coi Q u a d r u m v i r i istallati al­l 'Hotel Brufani di Perugia, che poi e rano tre perché De Vec­chi era rimasto a Roma, a tentare con Ciano e Grandi delle «combinazioni» n o n che favorissero, ma che impedissero la marcia, ch'egli stesso avrebbe dovuto comandare .

Il Consiglio dei Ministri si r iunì al Viminale nella luce li­vida dell 'alba: e rano le 6. Pr ima di arrivarci, Facta era pas­sato al Ministero della Gue r ra dove si e ra incontrato col Mi­nistro Soleri, col Ministro degl ' In tern i Taddei , e con Puglie­se, tut t i e t re risoluti a res is tere con la forza alla forza. Al Consiglio la discussione fu breve perché , secondo Paratore, il Genera le Cittadini, che vi prese par te , disse che se il go­ve rno si rifiutava di p r o c l a m a r e lo Stato d 'assedio, il Re avrebbe abdicato. Ma l 'episodio è controverso. Da altre te­stimonianze, risulta che Cittadini era lì solo pe r raccogliere notizie, e questa versione ci convince molto di più. Comun­que, la decisione dello stato d'assedio n o n sollevò obbiezio­ni. Siccome nessuno aveva mai redat to un proclama di quel gene re , Tadde i r i spolverò quel lo di Pelloux del '98 e , a p ­portat ivi i dovut i agg io rnamen t i , ne fece t i rar le copie da m a n d a r e ai prefetti e da affiggere sui mur i della città.

Nel m o m e n t o in cui gli a t tacchini cominciavano il loro lavoro, cioè verso le otto e mezzo, Facta si recava dal Re al Quirinale pe r fargli a p p o r r e la firma, che tutti considerava­no scontata. E qui avvenne il colpo di scena. Il Re, che ave-

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va trascorso la notte in piedi, q u a n d o vide la bozza del p ro ­clama, a n d ò su tut te le furie, anzi s t r appò addi r i t tura il te­sto dalle mani del Primo Ministro, e lo chiuse in un cassetto come se gli scottasse le mani . Q u a n d o poi seppe ch 'era stato d i r a m a t o anche al l 'agenzia ufficiale Stefani, la sua collera n o n conobbe limiti. «Queste decisioni - disse - spettano sol­tanto a me.. . Dopo lo stato d 'assedio n o n c'è che la g u e r r a civile...» E concluse: «Ora bisogna che u n o di noi d u e si sa­crifichi». Per la p r ima e forse ultima volta, Facta riuscì a tro­vare u n a bat tu ta : «Vostra Maestà n o n ha bisogno di d i re a chi tocca». E prese congedo.

Cosa fosse sopravvenuto a far mu ta re idea al Re, è tutto­ra materia di conget ture . Qualcuno dice che c'era già un ac­cordo segreto fra lui e Mussolini, ma questa voce n o n trova conferma in nulla, anzi è smenti ta da molte cose, e da ulti­mo dall 'at teggiamento che il Re aveva assunto la sera prece­d e n t e . Che Facta avesse da to al col loquio di Villa Savoia un ' in te rpre taz ione un po ' personale , è possibile. Ma anche se n o n aveva par la to esplici tamente di stato d'assedio, l'in­tenzione di resistere il Re l'aveva mostrata.

Secondo altri, a spaventarlo fu l 'at teggiamento del Duca d'Aosta che, d i sobbedendo a l l 'ordine r icevuto di res tare a Torino, si e ra trasferito a Bevagna, a pochi chilometri da Pe­rugia , sede del Q u a d r u m v i r a t o . La f igl ia di Facta, d o p o la caduta del fascismo, raccontò che, d u r a n t e il colloquio col pad re , il Re non aveva fatto che r ipetere: «C'è il Duca d'Ao­sta, c'è il Duca d'Aosta...» Cer tamente questi era in contatto con De Vecchi, che da Napoli lo aveva informato di ciò che si preparava . De Vecchi però , fedelissimo al suo Sovrano, lo aveva fatto pe r spingere il Duca ad agire su di lui, n o n pe r p rovocare u n a crisi dinastica. Infatti , caduto il fascismo, il Re disse al Senatore Bergamini di non aver avuto alcun ele­m e n t o pe r dubi tare della lealtà del cugino nel '22 e che, ca­so mai, l 'idea di metter lo sul t rono era stata ventilata dai na­zionalisti, Federzoni e Corradini .

Ciò non esclude che nel l 'emergenza egli abbia paventato

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anche ques ta eventual i tà . Ma a dec ider lo ad a n n u l l a r e lo stato d'assedio furono cer tamente altri elementi , e cioè i pa­rer i delle pe r sone ch'egli consultò quella not te . Fra queste persone, si dice, ci fu Diaz che, in terrogato sull 'assegnamen­to che si poteva fare sull'Esercito, avrebbe i tal ianamente ri­sposto: «L'Esercito farà i l suo dovere , ma sarà meglio n o n metter lo alla prova». A dire questo n o n fu cer tamente Diaz che quella notte si trovava a Firenze, ma forse lo disse qual­che altro: il g r a n d e ammiragl io T h a o n di Revel, o il Gene­rale Pecori Giraldi , o Baistrocchi , o Grazioli . N o n fu rono comunque i più d i re t tamente interessati, cioè il Capo di sta­to maggiore Badogl io e il c o m a n d a n t e del pres id io di Ro­ma, Pugliese, che n o n venne ro convocati. Come mai? E le­gittimo il sospetto che il Re n o n volle sentirli pe rché li sape­va ent rambi decisi a usare la forza.

L'enigma potrebb'essere risolto solo il g iorno in cui i Sa­voia si decidessero ad apr i re gli archivi di famiglia. Ma noi c red iamo ch'esso n o n abbia u n a sola chiave. Forse sull 'ani­mo del Re pesarono, in quella notte insonne, molte cose vi­cine e lontane: il r icordo della camera a rden te di suo p a d r e ucciso da Bresci; la seduta di Montecitorio che, q u a n d o egli vi si e ra presentato , i centocinquanta deputa t i socialisti ave­vano abbandona to al canto di «Bandiera rossa»; lo spappo­lamento dello Stato in quei qua t t ro anni di d o p o g u e r r a fra cont inue crisi di governo e guerrigl ia civile; e infine le ma­nifestazioni di fede monarchica che u l t imamente e rano sali­te dalle piazze fasciste. Ma si tratta solo di conget ture . Tanti anni d o p o , i l Re disse che quella not te era stato informato che b e n 100.000 camicie ne re e r a n o in marc ia su R o m a e che soltanto a cose fatte aveva saputo da Mussolini che inve­ce e rano solo 30.000. Ma ciò r e n d e ancora più incomprensi­bile ch'egli n o n chiedesse informazioni a Badoglio, a Puglie­se e al Minis t ro d e g l ' I n t e r n i Tadde i , gli unici in g r a d o di dargliene.

Alle nove e t renta , q u a n d o to rnò al Viminale p e r infor­mare i colleghi della decisione del Sovrano, Facta era «palli-

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do e disfatto», e alcuni ebbero l ' impressione che non si fosse mostrato abbastanza fermo. Chiamò al telefono Giolitti, che n o n si e r a mai mosso dal suo rifugio p i emon te se . Lo informò di tutto, e lo supplicò di accorrere a Roma. Giolitti disse che avrebbe preso il t r eno la sera, ma n o n potè farlo pe rché ormai la linea ferroviaria era interrot ta .

Alle undici e mezzo, dopo aver det ta to un dispaccio che revocava lo stato d'assedio, Facta tornò al Quirinale pe r l'at­to formale delle dimissioni, e il Re avviò la normale proce­d u r a delle «consultazioni». I l Pres iden te della C a m e r a De Nicola e Cocco-Ortu gli consigliarono di aspettare Giolitti.

Ma il Re aveva già il suo candidato.

Mussolini, in tut to questo frat tempo, n o n aveva dato segni di vita, e n e m m e n o i suoi intimi sapevano cosa pensasse di fare. Di ciò che accadeva a Roma era informato ora pe r ora pe rché nel Consiglio dei Ministri c 'era u n a quin ta colonna di Salandra, Riccio, che riferiva al suo capo, il quale riferiva a De Vecchi, Ciano, Grandi e Federzoni, che a loro volta ri­ferivano a lui. E lui stava a sentire, ma n o n si pronunciava. La sera del 27 la folla che gremiva i l t ea t ro Manzoni n o n gua rdava il palcoscenico su cui si recitava 77 Cigno di Mol-nar, ma un palco alla cui balaust ra si affacciava, posato sul dorso delle man i incrociate, il volto di Mussolini, ch ' e ra lì con la moglie e la figlia. Q u a n d o Luigi Freddi, reda t to re del suo giornale , v ' i r r u p p e trafelato, gli fece cenno di n o n di­s tu rba re , e aspet tò la fine del l 'a t to pe r chiedergl i di quali messaggi era latore.

I messaggi e r a n o gravi . Ant ic ipando - come abb iamo det to - gli ordini , le squadre e rano passate all 'azione e la si­tuaz ione stava p rec ip i t ando q u a n d o ancora n o n s i sapeva come avrebbero reagito il Re e l'Esercito. Mussolini r ien t rò al g iornale e si mise a s t endere il p roc lama della «marcia» alle camicie nere , men t r e Rossi e Finzi facevano il giro degli altri giornali pe r invitarli a r i p rende re la notizia che l 'insur­rezione era cominciata. Il giuoco ora si faceva grosso. Il te-

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lefono squillava in continuazione, ma non sempre Mussoli­ni staccava il ricevitore. Lo passava ad altri facendosene poi r iassumere le notizie pe r evitare d ' impegnars i con risposte o direttive.

Su u n a di queste telefonate la controversia è ancora aper­ta. Federzoni asserisce di aver parlato quella not te con Mus­solini dal Ministero deg l ' In te rn i pe r dirgli che il Consiglio dei Ministri aveva deciso lo stato d'assedio, ma che il Re non l 'avrebbe firmato. Se fosse vero, bisognerebbe d e d u r n e che il Re aveva preso quella risoluzione pr ima che Facta andasse da lui con la bozza del proclama e ch'egli volesse farlo sape­re , attraverso Federzoni, a Mussolini.

U n a cosa è certa: Mussolini, che più tardi avrebbe aspra­mente r improvera to a De Vecchi e a Grandi di aver «tradito la causa della rivoluzione» cercando u n a soluzione «mode­rata» della crisi, si g u a r d ò b e n e dal lo sconfessarli sul mo­mento , anzi si giovò di loro pe r tenere in piedi u n a trattati­va su cui avrebbe po tu to alla peggio r ip iegare : egli sapeva benissimo che le sue squadre non potevano sfidare l'Eserci­to e che, in caso di stato d'assedio, avrebbe dovuto smobili­tarle. Salvemini dice che aveva già p ron to il passaporto pe r scappare in Svizzera, ma questo è asso lu tamente falso. Le a rmi che aveva fatto ammassare nella sede del giornale e i cavalli di frisia di cui aveva circondato l'edificio e rano p u r a messinscena: egli sapeva beniss imo che lo scont ro con le Forze Armate non ci sarebbe stato. Ma era deciso a giuocare la par t i ta fino in fondo, e lo faceva con assoluta freddezza. Di tutti i protagonisti , n o n c'è dubbio che fu lui a vedere più chiaro e più lungo.

La giornata del 28 cominciò male. Dentro i cavalli di frisia, gli squadristi che, al comando di Galbiati, montavano la guar­dia al Popolo, si aspettavano un attacco della polizia che sem­brava imminen te . Dopo u n a not te insonne , Mussolini, più pallido del solito sotto la barba lunga, seguitava a r icevere messaggi cui non dava risposta. Nella notte Bianchi gli aveva telefonato più volte da Perugia pe r scongiurarlo di rifiutare

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qualunque offerta, ma lui era rimasto nel vago, e tutti e rano convinti ch'egli si preparasse a qualche soluzione di compro­messo con Salandra, con Orlando, e forse anche con Giolitti. Ma il nazionalista Rocco, futuro Ministro della Giustizia, ch'e­ra andato a parlargli in mattinata, lo aveva invece trovato fer­missimo: voleva tut to il potere , non era disposto a spartirlo con nessuno. Forse però anche questa era commedia: Musso­lini sapeva che i nazionalisti e rano quelli che più assiduamen­te lavoravano a un Ministero Salandra-Mussolini, non tanto pe r a m o r e di Salandra , quan to pe r ingabbiare Mussolini e decur ta rne la vittoria, e lui voleva con l 'intransigenza tenere alto il prezzo della concessione, se avesse dovuto piegarvisi.

Ma q u a n d o g iunse la notizia che lo stato d 'assedio e ra stato revocato, la commedia diventò realtà. Nel p r i m o po­mer igg io un g r u p p o d ' indust r ia l i milanesi (Benni , Cont i , Crespi, De Capitani e Olivetti), d o p o essersi concertati con Albertini, p e n e t r a r o n o nel suo fortilizio pe r tentare di con­vincerlo alla collaborazione con Salandra. Ma lo t rovarono irr iducibile. Egli n o n sapeva molto bene cosa stesse succe­d e n d o a Roma anche p e r c h é voleva d a r e a d ivede re che n o n se ne curava. Ma lo intuiva.

A Roma succedeva questo: che p r o p r i o nel m o m e n t o in cui Mussolini parlava con gl'industriali, il Re parlava con Sa­landra. Questi, giuocando di abilità, gli propose di dare l'in­carico a O r l a n d o nella speranza di farvelo «bruciare». Ma non ce ne fu il tempo. Accorrendo in gran furia da Perugia, De Vecchi disse al Re che n o n c'era t empo da pe rde re in ma­novre dilatorie: l 'unico con cui Mussolini fosse disposto a col­laborare era Salandra, il quale venne per tanto richiamato e, sull 'affidamento di De Vecchi, accettò l'offerta. In serata il Giornale d'Italia uscì con un 'ed iz ione s t raord inar ia che an­nunciava la formazione di un governo Salandra-Mussolini.

A questa soluzione, oltre a De Vecchi, lavorarono tut to il g iorno, febbrilmente, Ciano, Grandi , Marinelli, Polverelli e Postiglione. Uno dopo l'altro, tutti scongiurarono Mussolini di venire a Roma per por ta re avanti la trattativa. Ma Musso-

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lini n o n si mosse n e m m e n o q u a n d o la stessa p r egh i e r a gli venne rivolta, sempre pe r telefono, da Cittadini pe r espres­so incarico del Re. Era o rmai ta lmente sicuro del fatto suo che scrisse a D'Annunzio: «Le ult ime notizie coronano il no­stro t r ionfo. L'Italia da d o m a n i avrà un gove rno . Sa remo abbastanza discreti e intelligenti pe r n o n abusare della no­stra vittoria». A questa vittoria voleva associarlo, ma pe r far­gli capire che n o n era più il caso di opporvisi. Dopodiché si mise a compi la re la lista dei m e m b r i del suo gove rno , che poi lesse pe r telefono ad Albertini chiedendogli un pare re .

La suspense n o n d u r ò che poche ore , ed ebbe i l suo mo­m e n t o p iù d rammat i co poco d o p o mezzanot te q u a n d o De Vecchi e i suoi amici si r i u n i r o n o nella r edaz ione r o m a n a del Resto del Carlino a piazza Colonna pe r un ult imo tentati­vo d ' i n d u r r e Mussolini al negozia to . Fu De Vecchi a chia­marlo. Ma, al m o m e n t o di par lare con lui, passò il ricevitore a Grandi , che a sua volta lo passò a Polverelli. Questi , dap­pr incipio lusingato dell ' incarico, debu t tò d icendo che par ­lava in nome del Re, ma poi si mise a farfugliare e concluse: «Ecco, c'è qui anche Grandi». E gli ripassò il ricevitore.

La risposta di Mussolini fu brusca e tagl iente. «Non ho fatto quel che ho fatto - disse - pe r provocare la resurrezio­ne di Don Antonio Salandra.» E aggiunse al t re considera­zioni da cui gl ' interlocutori capi rono che, d o p o essersi ser­vito di loro come «copertura», ora egli li considerava, e ma­gari si riservava di denunziar l i , come i «deviazionisti di de­stra» e i «traditori della rivoluzione».

But ta to giù il ricevitore, si mise a vergare un articolo di fondo in cui ribadiva i concetti già espressi a voce: «La vitto­ria n o n p u ò essere mut i la ta da combinaz ioni de l l 'u l t ima ora. Per ar r ivare a u n a t ransazione Salandra n o n valeva la pena di mobili tare. Il governo dev'essere ne t t amen te fasci­sta». E, avutene in mano le p r ime copie, ne spedì un fascio a Perugia pe r rassicurare Bianchi e Balbo, e un altro a Roma per togliere le ult ime speranze di compromesso a chi anco­ra ne nutriva.

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Ma n o n ne nut r iva più nessuno . Alle 9 del mat t ino (del 29) De Vecchi, Ciano e Grandi , con gli abiti gualciti e gli oc­chi arrossati dalla veglia, comunicarono a Salandra che non c'era nulla da fare. Salandra ne chiese pe r telefono confer­ma ad Albertini. E subito d o p o andò al Quir inale pe r decli­n a r e l ' incarico. Il Re convocò n u o v a m e n t e De Vecchi e lo p regò di comunicare a Mussolini che era p r o n t o a offrirgli l 'incarico. Ma Mussolini n o n si lasciò commuovere n e m m e ­no da questo messaggio. «Va bene , va bene - rispose -, ma lo voglio ne ro su bianco. A p p e n a riceverò il t e legramma di Cittadini, par t i rò in aeroplano.»

Il t e l eg ramma di Cit tadini g iunse a mezzogiorno : «Sua Maestà il Re m'incarica di pregar la di recarsi al più presto a Roma des ide rando dar le l 'incarico di formare il nuovo mi­nistero». Solo allora i nervi di Mussolini cedet tero di colpo. Cesare Rossi, che gli e ra accanto, racconta che d o p o aver letto quelle parole Mussolini sbiancò e, accartocciando il fo­glio nella mano convulsa, disse al fratello con voce rotta: «Se a ifoss a ba'», se ci fosse il babbo.

Partì alle otto di sera, ma n o n in aereo, e arr ivò a Roma alle 11 del 30, con molto r i tardo perché il t reno dovette fer­marsi a molte stazioni dove i fascisti avevano p repa ra to ma­nifestazioni di omaggio e di giubilo. «Tra poche ore - an­nunciò - l'Italia non avrà soltanto un ministero, avrà un go­verno.» Trascorse infatti le lunghe ore di viaggio a ritoccare la lista dei Ministri che aveva compilato la sera p r ima e co­munica to ad Albertini . Il giornalista Ambrosini , che lo ac­compagnava , la vide e t rovò il m o d o di comunica r l a alla Stampa. Ma q u a n d o il giornale la pubblicò, essa era già cam­biata p e r le rag ioni che d i r e m o . Dopo aver depos to i l suo scarso bagaglio all 'Hotel Savoia, si p resentò - in camicia ne­ra - al Quir inale . «Maestà - disse al Re - vi por to l'Italia di Vittorio Veneto.» Il colloquio d u r ò un 'ora , e Mussolini ten­ne ad ass icurare che avrebbe evitato qualsiasi d i so rd ine e formato un governo con larga partecipazione di personali tà n o n fasciste e possibilmente rappresentat ive anche di «forze

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popolari». Promise di comunicargl iene l'elenco la sera stes­sa, e alle sei m a n t e n n e la parola.

Nell 'elenco di fascisti ce n 'e rano t re soli, e fra i p iù mode­rati: Oviglio alla Giustizia, De Stefani alle Finanze, e Giuria-ti alle Ter re Liberate. C 'erano d u e democratici: Carnazza ai Lavori Pubblici e Rossi al l ' Industr ia e Commercio . Due «po­polari»: Tangor ra al Tesoro e Cavazzoni al Lavoro. Un libe­rale: De Capitani all 'Agricoltura. Un demosociale: Colonna di Cesarò alle Poste. Un solo nazionalista: Federzoni alle Co­lonie. Un ind ipendente : Gentile, all 'Istruzione. E alle Forze Arma te d u e mili tari c e r t a m e n t e gratissimi al Re: Diaz e T h a o n di Revel.

Solo d o p o aver varato il Ministero, Mussolini si r icordò delle sue camicie ne re che in tan to avevano cont inua to , al­l 'oscuro di tut to , e sotto la pioggia ba t ten te , a intirizzire di freddo e di fame, nei loro accantonament i di Monte ro tondo e Santa Marinella. Invano chiedevano lumi ai Quadrumvi r i di Perugia. I Quad rumvi r i ne sapevano quan to loro, m e n o De Vecchi che stette quasi sempre a Roma a fare, come poi disse, «il capo degli assedianti nella fortezza».

Ricevettero l 'ordine di marc iare su Roma il 30, q u a n d o già Mussolini ne aveva preso saldo possesso e si disponeva a tenere la sua p r ima r iunione di Gabinetto. Ci a r r ivarono al­la spicciolata e con tutti i mezzi: chi in t reno, chi in camion, chi in bicicletta. Ma da 30.000 che e rano - se lo e rano -, pe r s t rada d iven ta rono 70.000, ed altri ne t rovarono ad aspet­tarli in città. Come al solito, gl'italiani correvano in aiuto del vincitore. Un po ' forse pe r ché inviperit i dalla lunga attesa sotto l'acqua, un po ' pe r salvare la faccia della «marcia rivo­luzionaria», si d iedero a provocare gli operai del quar t ie re di S. Lorenzo, dove ci furono u n a dozzina di mort i . Musso­lini impart ì alla polizia e all'esercito ordini severissimi d'im­ped i re a q u a l u n q u e costo altri tumult i . Gli scalmanati se la rifecero sopra t tu t to con gli alberghi , le t ra t tor ie , i caffè, le taverne e i bordell i dove gozzovigliarono tutta la not te sen­za paga re il conto . L ' indomani sfilarono sotto il Quir ina le ,

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dove il Re li salutò dal balcone, affiancato da Diaz e T h a o n di Revel, m a s c h e r a n d o i l d isgusto che doveva p rocura rg l i quell 'esercito di Pancho Villa irto di pugnal i , manganel l i e schioppi banditeschi. Mescolati a quella scalcinata orda, c'e­rano anche ufficiali di alto rango , con le loro divise e meda­glie: fra tutti, dice Soleri, spiccava Capello, abbigliato e ge­sticolante «come un genera le sud-amer icano» . Salvemini racconta che un p re t e , g u a r d a n d o quello spettacolo, disse scotendo la testa: «Noi, nel '70, Roma la d i f endemmo me­glio».

La sfilata d u r ò sei ore. Poi, su ord ine di Mussolini, i mar­ciatori v e n n e r o avviati alla stazione e r ispedi t i alle sedi di origine. La rivoluzione era finita. O meglio, non era mai co­minciata.

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C A P I T O L O Q U I N T O

«UN BIVACCO DI MANIPOLI»

Mussolini aveva composto il suo governo in poche ore , ma e rano state ore intensissime. Il suo p r imo scrupolo era stato quello di d imost rare che il fascismo non era avido di «posti» ed era disposto ad accettare la collaborazione di tutti gli uo­mini di valore. Egli voleva dare al suo Ministero un ' impron­ta meritocratica se n o n p rop r io tecnocratica, anche pe rché n o n si f idava molto dei suoi, quasi tutt i giovani ed esper t i solo di bas tone e rivoltella. I t re che aveva scelto - Oviglio, De Stefani e Giuriati - e r ano fra i m e n o in vista come capi di squadre . C o m u n q u e i d u e portafogli più impor tan t i , gli Esteri e gl ' Interni , li aveva tenut i pe r sé.

Ma al t re d u e cose volle subito sot tol ineare . La p r i m a è che n o n in tendeva t ra t tare con le segreterie degli altri part i­ti che accettavano di collaborare con lui, lasciando ad esse la des ignazione degli uomin i da coop ta re nel suo Minis tero: gli uomin i se li scelse da sé, in terpel landol i o facendoli in­terpellare di re t tamente . Di u n o di essi, Gentile, che n o n era mai stato fascista, n o n conosceva n e m m e n o il nome . Glielo propose, pe r la pubblica istruzione, Lanzillo. Ed egli dovet­te res ta re p iu t tos to s tupi to q u a n d o , all 'offerta, Genti le ri­spose p o n e n d o d u e condizioni : che fossero ristabili te le pubbliche libertà e in t rodot to nelle scuole secondarie l'esa­me di Stato. Mussolini promise.

Ma il suo sforzo maggiore fu quello di sottrarsi subito ad ogni condizionamento di destra. Tutti e rano convinti ch'egli avrebbe chiamato al suo fianco Salandra pe r garantirsi l 'ap­poggio delle forze conservatr ic i . Invece n o n ne p re se in considerazione n e m m e n o l 'eventualità, e t enne a marca re

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subito le distanze dagli uomin i che si e r a n o adopera t i p e r u n a «combinazione» con lui. Fu pe r questo che subito r in­facciò bru ta lmente a De Vecchi di aver cercato di sabotare e muti lare la vittoria men t re «io ero sulle barricate a rischiare la vita, non a lavorare pe r pateracchi ministeriali dell 'ultima ora», e dopo aver r improvera to a Grandi di n o n aver avuto fiducia «nella sua stella», lo mise addi r i t tu ra sotto inchiesta e lo tenne in quaran tena pe r d u e anni .

E difficile pensa re ch'egli credesse ve ramen te a un loro t r ad imen to . Ma gli faceva comodo fingere di c rederc i pe r t enere a bada, met tendole in stato d'accusa, le forze di de­stra ch'essi incarnavano. Coloro di cui più diffidava e rano i nazionalisti, legatissimi al g r u p p o salandrino, che del resto reciprocavano il suo at teggiamento. E il vero motivo pe r cui tenne pe r sé il portafogli degli Esteri fu pe r non darlo a Fe­derzoni , che lo considerava una sua spettanza e che venne invece relegato alle Colonie.

Come al solito, Mussolini n o n voleva essere e t ichet ta to «di destra» e tentava di dare al suo governo un carat tere so­cialmente aper to . Offrì un portafogli anche al repubblicano Comandin i che rifiutò. Ma l 'operazione riuscì coi «popola­ri» che, di fronte al suo invito, si divisero. Contrar i si dichia­r a r o n o la sinistra e il g r u p p o di cen t ro che faceva capo a Don Sturzo. Ma la destra e i centristi di De Gasperi , appog­giati dalla Chiesa, si d ich iararono invece favorevoli, ed eb­b e r o par t i ta vinta pe r ché Don Sturzo, cont ro le sue bat ta­gliere abitudini, sen tendo - come disse Donati a Salvemini -«la sconfessione e la scomunica pendergl i sul capo», lo pie­go. Così Tangor ra a n d ò al Tesoro, e Cavazzoni al Lavoro.

Mussolini pe rò covava un disegno ancora più ambizioso: quel lo di a t t r a r r e nella combinaz ione anche i socialisti. E difficile dire se lo volesse pe r nostalgia dei vecchi compagni , o pe r un complesso di colpa nei loro confronti: qui si en t ra nella psicologìa del personaggio che autorizza tut te le illa­zioni e non ne legittima nessuna. Ma fatto sta che, come di­ce Repaci, egli restava l 'uomo del «patto di pacificazione»,

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quale del resto cercherà invano di r idiventare alla vigilia del delitto Matteotti e sul finire della sua vita a Salò.

Il m o m e n t o sembrava favorevole. I socialisti e rano ormai i r reparabi lmente divisi. L'ala riformista di Turati , che conta­va quasi la metà degli effettivi del PSI , si era staccata dal par­tito pe r costituirne un altro au tonomo, il PSU, e la Confede­raz ione Genera l e del Lavoro ne aveva p reso p re t e s to p e r d ichiarars i i n d i p e n d e n t e da en t r amb i . Fu su ques ta che Mussolini esercitò le sue press ioni r i m a n d a n d o a un mo­m e n t o p iù favorevole eventual i t ra t ta t ive con Tura t i . Per farlo si servì di un curioso personaggio, che vedremo ricom­par i re sempre nelle sue funzioni di media tore al t empo del­la Repubblica Sociale: il giornalista socialista Carlo Silvestri che, p r i m a pupi l lo di Tura t i , e ra poi passato al Corriere di Albertini. La sera del 30 egli fece perveni re a Mussolini un biglietto in cui gli diceva che i suoi sondaggi presso i capi della Confederazione avevano avuto esito positivo: Baldesi accettava di en t ra re nel suo governo, e Buozzi si disponeva a seguirne l 'esempio. «Ma - avvertiva - bisogna fare in fret­ta, e imped i re che da par te di coloro che sono rimasti sba­lorditi dalla rivelazione del vostro p iano - e, voi mi capite, n o n al ludo ai socialisti - si cerchi di forzare la situazione.» Non è chiaro se l'offerta a Baldesi e Buozzi (e qualcuno dice anche a D'Aragona) fosse stata fatta e accettata a titolo per­sonale, senza i m p e g n o da pa r t e della Confederaz ione . Sil­vestri ha poi det to che n o n solo la Confederazione, ma an­che il PSU ne discusse e vi det te il suo assenso. Ma De Felice lo contesta, e crediamo che abbia ragione.

C o m u n q u e , q u a n d o il biglietto raggiunse il destinatario, questi già si era accorto della impraticabilità del suo piano. Avutone sen to re , i l pa r t i to fascista era in agi tazione. N o n voleva saperne l'ala conservatrice che faceva capo a De Vec­chi, n o n volevano sape rne i nazionalisti , n o n volevano sa­p e r n e gli squadrist i s empre animat i dal l 'odio verso i «sov­versivi», non volevano soprat tut to saperne , p e r ragioni con­correnzial i , i sindacalisti . E Mussolini , che già incon t rava

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qualche difficoltà a far ingoiare ai suoi quel Ministero che li escludeva da molti posti, non si sentì di r ischiare u n a crisi analoga a quella del «patto di pacificazione».

Q u a n d o , alle sette di sera di quel convulso 30 o t tobre , egli rese nota la lista dei Ministri, Bianchi e Marinelli diede­ro pe r protesta le dimissioni. Ma Mussolini le respinse. E a Mastromattei , che si lamentava di quella pacifica e incruen­ta conclusione della «marcia», rispose: «Il sangue si paga col sangue, e io n o n voglio fare la fine di Cola di Rienzo».

I l 16 n o v e m b r e p r e s e n t ò i l gove rno alla C a m e r a p e r ch iederne la fiducia. Come dosaggio di lusinghe, di minac­ce e di ricatto, quel discorso r app re sen ta u n o dei «classici» del suo reper tor io . «Con trecentomila fascisti armati di tutto p u n t o - disse moltiplicando pe r dieci la cifra reale -, potevo castigare tutti coloro che h a n n o diffamato e tentato d'infan­gare il fascismo. Potevo fare di quest 'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli , potevo sprangare il pa r lamento e costi­tuire un governo esclusivamente di fascisti». La solita pausa, gravida di minaccia. Poi: «Potevo: ma n o n ho , a l m e n o in questo p r imo tempo, voluto». La Camera gli votò la fiducia con 306 sì contro 116 N O , e subito dopo gli concesse i pieni poteri pe r un anno . I l Senato seguì l 'esempio d u e sett imane d o p o dandogl i una maggioranza ancora più forte: 196 con­tro 19. Come Mussolini aveva det to nel suo discorso, il Par­l amen to , se voleva sopravvivere , doveva ada t ta rs i alla co­scienza naz ionale . E la coscienza naz ionale voleva che si adattasse a Mussolini.

Il Paese, nella sua s t ragrande maggioranza, aveva accettato il fatto compiuto con un respiro di sollievo. Era stanco. Tre anni di gue r r a civile gli avevano ispirato un solo desiderio: l 'ordine, e il fascismo lo promet teva. Della libertà, visto l'uso che in quei tre anni se n 'era fatto, si curava poco, e del resto Mussolini promet teva anche quella. Un fatto pe rò va subito rilevato, che t raspare anche dai ricordi d'infanzia di chi scri­ve: la fiducia andava a Mussolini, n o n al fascismo. Anzi, pe r

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essere più esatti, andava a Mussolini in quan to «domatore» del fascismo. Mio n o n n o , vecchio liberale gioiitt iano e sin­daco del paese, disse al capo delle squadre locali che lo ave­vano to rmen ta to : «Finalmente è venu to il castigamatti che met t e rà a posto anche voi». Il mito di Mussolini nacque in quei giorni , n o n tra i fascisti, ma con t ro i fascisti, e Cesare Rossi ne coniò lo slogan: «Prima mussoliniani, poi fascisti».

Lo condivise anche la classe d i r igen te , e n o n sol tanto - come poi si disse - quella di destra. Le lettere di Giolitti ai suoi amici par lano chiaro: n o n bisognava ostacolare Musso­lini «che ha tratto il Paese dal fosso in cui finiva pe r imputr i ­dire». E Nitti: «Bisogna che l 'esperimento fascista si compia indisturbato: nessuna opposizione deve venire da par te no­stra». Ma non diversamente la pensava Amendola , secondo cui occor reva a iu ta re Mussolini a r ip r i s t ina re la legalità; m e n t r e Salvemini andava oltre augu randos i che Mussolini spazzasse via «queste vecchie m u m m i e e canaglie» della vec­chia classe politica. «Se Mussolini venisse a mori re , e avessi­mo un ministero Turat i , r i t o rne r emmo par i par i all 'antico. Motivo pe r cui bisogna che Mussolini goda di u n a salute di ferro, fino a q u a n d o non muo iano tutti i Turati.» Ma è cu­rioso che lo stesso Turati , come risulta dall 'epistolario della Kuliscioff, riconosceva che la pacificazione poteva ot tenerla solo Mussolini.

N o n bisogna tut tavia equivocare . In quest i consensi c i sarà stata anche della codardia , della stanchezza e della vo­lontà di capitolazione. Ma c'era anche un atto di contrizio­ne . La vecchia classe polit ica sapeva di aver fallito il suo compito di guard iana delle istituzioni, e si rendeva conto di essere caduta, di fronte alla pubblica coscienza, nel più tota­le discredito. In queste condizioni, e ra logico ch'essa vedes­se in Mussolini l 'unico u o m o in grado, pe r l 'intatto prestigio che gli conferiva la sua «novità», di addossarsi i compit i ai quali essa aveva coscienza di essere stata impari . Lo vedeva insomma come «l 'uomo dell 'emergenza» destinato ad esau­rirsi con l 'emergenza. E la Kuliscioff lo diceva chiaro: «Biso-

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gna ch'egli possa pe r co r r e r e tut ta la sua parabola , dovesse r imanere anche un paio d 'anni al potere...» Poi, essa sottin­tendeva - come tutti gli altri -, i partiti tradizionali avrebbe­ro r ipreso in m a n o il mestolo di un Paese normalizzato, fa­cendo tesoro della lezione.

In questa coralità di consensi, gli unici a fare stecca era­no p ropr io i fascisti, che paventavano ciò che gli altri spera­vano. Essi capivano che Mussolini li aveva giuocati mobili­tandoli solo pe r finta, e si sentivano defraudat i della «rivo­luzione». L'aborto della «marcia» li aveva lasciati con la boc­ca a m a r a e n o n si e ra svolto senza incident i . Per fermar le , Grand i aveva dovuto cor re re incontro alle squadre di Bot­tai che volevano a tutt i i costi p r e n d e r e R o m a d'assalto. E al l 'ordine di smobilitazione d o p o la sfilata sotto il Quirinale, esse avevano risposto invadendo e devastando le sedi di al­cuni giornali. Altre violenze ci furono in tutta Italia, e Nitti si salvò a stento dalla bastonatura.

Ma il pericolo più grave essi lo vedevano nella «vendita delle indulgenze» , da cui il fascismo sentiva minacciata la sua «purezza», e p iù ancora forse insidiate le sue «privati­ve». Prontissimi come al solito a cor re re in aiuto del vincito­re, gl'italiani facevano ressa agli uffici tesseramento del par­tito, che n o n resistevano a pressioni e circonvenzioni. Spe­cialmente nel Sud, che al fascismo era sempre rimasto piut­tosto allergico, i vecchi maneggioni del clientelismo scopri­vano improvvisamente in se stessi una irrefrenabile vocazio­ne fascista, e pe r t radur la in tessere q u a n d o queste gli veni­vano rifiutate, s'iscrivevano in massa al part i to nazionalista che in un bat t ibaleno vide decuplicat i i suoi effettivi. A un certo pun to , come peso numer ico , i «Sempre Pronti», come si ch iamavano gli squadrist i di Federzoni , che invece della camicia nera por tavano la camicia azzurra, r ischiarono qua­si di sopraffare quelli di Mussolini.

Di fronte a queste «provocazioni», nei vecchi squadrist i to rnava ad affiorare il fondo massimalista e pa l ingenet ico che aveva an imato i l p r i m o movimento . Essi n o n volevano

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inserirsi nelle s t ru t tu re dello Stato l iberale. Volevano sov­vertirle. E vedendo nella «normalizzazione» il pericolo che Mussolini se ne lasciasse ca t tu ra re , ce rca rono d ' imped i r l a r i co r r endo di nuovo al sangue . All 'ordine di m a n t e n e r e la disciplina e di r i spet tare la vita e la l ibertà dei ci t tadini ri­sposero con u n a r ipresa di bas tona ture e di spedizioni pu­nitive. Il 18 dicembre a Torino furono uccisi vent idue ope­rai , e altri t redici mor t i ci fu rono poco d o p o alla Spezia. Cont ro Molinella, superst i te isolotto del miglior socialismo riformista, che aveva resistito grazie alla forza delle sue coo­perat ive agrar ie e al l 'energia e all ' idealismo del loro orga­nizzatore Massarenti, si scatenarono attacchi su attacchi. Fu in questo clima che m a t u r a r o n o alcuni dei peggior i delitti del fascismo come l'assassinio di Don Minzoni, un sacerdote decorato di medaglia d 'argento, a Ferrara .

A questa r ipresa di violenza che metteva in pericolo tutta la sua azione, Mussolini reagì con t re mosse. La p r ima fu l'i­stituzione di un G r a n Consiglio del Fascismo col quale egli contava di assumere un più diret to controllo del par t i to im­p e g n a n d o i capi che ne facevano par te ad avallare le sue de­cisioni e a farle accettare dai militanti. Sul p iano costituzio­nale questa specie di Politburo fu sempre un rebus nel senso che sia la sua composiz ione che i suoi po te r i r imase ro nel vago: tant 'è vero che nella seduta del 25 luglio '43 - l 'ultima e la sola che abbia contato veramente qualcosa - si discusse se le sue e r a n o decisioni a cui anche il Duce dovesse at te­nersi , o sol tanto pa re r i ch'egli potesse segui re o r i f iutare. C o m u n q u e , è certo ch'egli Io concepì, come dice De Felice, come qualcosa di mezzo fra un «consiglio di palazzo» desti­nato ad avallare le sue volontà e a da r loro maggior vigore, e u n a «camera di compensazione» in cui lasciar sfogare ed esaurire i contrasti in terni del part i to. Col t empo la na tu ra ibr ida di ques t ' o rgano e l ' incertezza delle sue a t t r ibuzioni vennero a galla, e infatti esso n o n esercitò alcun peso. Ma lì per lì permise a Mussolini di r i p r e n d e r e alla meglio il con­trollo su un parti to che gli sfuggiva.

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Fu grazie e in forza di esso, r iunito per la pr ima volta nel­la no t te fra il 15 e il 16 d icembre ch'egli po tè vara re la se­c o n d a e p iù i m p o r t a n t e misura : l ' ist i tuzione di un vero e p r o p r i o esercito fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, forte di 300.000 uomini impegnat i pe r g iuramen­to alla fedeltà n o n al Re, ma al Duce. La decisione era gra­ve, e molti tut tora si ch iedono come potè essere accettata da un Par lamento ancora in larga maggioranza n o n fascista, e sopra t tu t to dal Re, che si vedeva nascere in casa u n a forza a rmata in concorrenza con quella regolare. Il fatto è che tut­ti si resero conto che Mussolini n o n aveva altro mezzo pe r venire a capo della riottosità delle s q u a d r e e r idu r l e al ri­spetto della disciplina. Anzi, a capirlo più e meglio degli al­tri fu rono p r o p r i o gli oppos i tor i che da un co rpo militar­m e n t e i n q u a d r a t o e responsabi l izzato si sent ivano mol to m e n o minacciat i che da squadracce alla mercé dei p r o p r i sanguinar i uzzoli. Forti malumor i vennero invece dall 'Eser­cito, geloso delle sue prerogat ive e privative, e grosse resi­stenze dalle squadre , restie a un inquadramen to che avreb­be distrutto la loro au tonomia e soffocato la loro carica rivo­luzionaria. Infatti n o n tutte si lasciarono assorbire; alcune si s t r insero i n t o r n o ai vecchi ras che le avevano gu ida t e nei tempi della lotta e che condividevano i loro umori .

La terza misura normalizzatr ice fu la fusione coi nazio­nalisti, o meglio il loro assorbimento. Federzoni avrebbe vo­luto resistere, ma n o n ne aveva la forza: sapeva benissimo che le reclute affluite all 'ultima ora nel suo movimento era­no d'accatto e n o n ch iedevano di meglio che di essere tra­ghet tate nel Fascio e nella sua Milizia, in cui i Sempre Pron­ti en t ra rono con slancio.

Così i p rob lemi più u rgen t i furono a lmeno provvisoria­mente risolti, e la normalizzazione potè p r e n d e r e il suo fati­coso avvìo.

Anche Mussolini cercava di normalizzarsi , ma senza r inun­ziare a i n t rodu r r e nell'esercizio delle sue funzioni un «nuo-

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vo stile». Aveva p reso in affitto un modes to a p p a r t a m e n t o in via Rasella, ma n o n ci aveva chiamato Rachele ed Edda, che preferiva lasciare a Milano. Ad accudirgli p rovvedeva un certo Cirillo Tambara , qualcosa di mezzo fra il cameriere e il gorilla, che si e ra fatto apprezzare soprat tut to pe r il mo­do con cui cucinava il piatto preferito di Mussolini: il mine­strone con la co tenna di maiale. Ma in casa il Duce ci stava poco. Si alzava alle sei, usciva poco dopo le sette, e alle otto era già nel suo ufficio di palazzo Chigi, sede del Ministero degli Esteri, attaccato al telefono pe r controllare se tutti era­no al loro posto. «Voglio da quaran ta a cinquantamila uomi­ni che funzionino come un congegno di orologeria» aveva det to p r e n d e n d o possesso della sua carica. E la burocrazia r omana rispose a questo appello all'efficienza nel suo solito modo: mos t randosene entusiasta, d a n d o spettacolo di gran­de solerzia, ma o p p o n e n d o alle innovazioni u n a resistenza di gomma. Fu essa a infliggere la p r ima sconfitta a Mussoli­ni che pre tendeva impor le l 'orario unico: l 'accanimento e la tenacia con cui difese il suo secolare diritto al desinare e alla pennechel la , res tano memorabil i .

Mussolini pe rò non si a r rendeva . Non aveva ancora qua­r a n t a n n i , era al meglio delle sue risorse ed energie e, poco pratico dell 'ambiente r o m a n o e della sua incalcolabile forza passiva, e r a convinto di r iuscire a scuoter lo col suo attivi­smo. «Non sono qui di passaggio - disse -, ma p e r starci e governare . Gl'italiani devono obbedi re e obbed i r anno , do­vessi lottare contro amici, nemici, perfino contro me stesso.» Una pioggia di decreti si abbatté sul Paese, che in tendevano regolare la vita dei cittadini fin nei minimi dettagli. Gli au­tomobilisti dovet tero impara re a non suonare il clacson, se­veramente proibito; i pedon i a camminare solo sul marcia­piede di sinistra; e con gran disperazione del poe ta Trilussa vennero r idot te a mal parti to le «botticelle», cioè le carrozze a cavallo, segno di una Roma arcaica e provinciale.

La società r o m a n a cercò invano di ca t tu ra re Mussolini, come s e m p r e aveva fatto con tut t i gl ' invasori . L 'uomo e ra

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allergico alla mondani tà e nella cosiddetta «società» si senti­va spaesato e a disagio. Seguitava a n o n c u r a r e il p r o p r i o guardaroba , e l 'unica concessione che faceva a quella ch'egli credeva l 'eleganza e rano le ghet te che portava sempre , an­che sull 'abito di cer imonia . I l g iorno in cui p rese possesso del suo ufficio, vi si p resentò con u n a giacca a r ighe verdi e rosse, che sembrava il plaid d ' un cavallo. Il diplomatico Ba­rone-Russo cui era stato discretamente affidato l'incarico di r imetter lo un po ' in sesto, p e n ò parecchio a persuader lo che sotto la marsina n o n si poteva indossare una camicia di lino bianco coi polsini rosa. All'esigenze del cerimoniale si ribel­lava come un cavallo b r a d o alla cavezza, e alla sua p r i m a sortita m o n d a n a - un p ranzo all'Ambasciata d ' Inghi l te r ra - , tutti t r a t t ennero il fiato per le gaffes che avrebbe po tu to fa­re . Invece n o n ne fece nessuna anche grazie al tatto dell 'am­basciatrice Sybil G r a h a m che, seduta accanto a lui, gl 'inse-gnò senza pa re re come si maneggiava il coltello del pesce e come si sorbiva il b r o d o in tazza. Mussolini fece del suo me­glio. Ma, accomiatandosi , disse alla s ignora: «Non sapevo che gl'inglesi bevono la minestra come se fosse birra». Baro­ne-Russo scoprì abbastanza prestò il p u n t o debole del ribel­le: la p a u r a del r idicolo. Fu agi tandogl i davant i agli occhi questo spauracchio che gli fece smet tere l 'abi tudine d'infi­larsi il tovagliolo nel colletto e d ' inzuppare il pane nel vino.

Questi suoi rustici modi tenevano in al larme soprat tut to il Ministero degli Esteri di cui egli aveva assunto il portafo­glio. Mussolini n o n aveva mol ta conoscenza dei p rob lemi internazionali , di cui sin allora si e ra sempre occupato solo ai fini della politica in terna . Ma sapeva di n o n averla, e sin dappr inc ip io accettò d i lasciarvisi c o n d u r r e pe r m a n o dal Segretario generale Contarmi .

Contarini e ra un esperto diplomatico di carriera, cresciu­to alla scuola di San Giuliano di cui condivideva l ' imposta­zione. Di formazione nazionalista, ma modera ta , egli vede­va la collocazione dell ' I talia nel vecchio fronte occidentale ma in u n a digni tosa posiz ione di par i t à con Francia e In-

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ghilterra. Che Mussolini intendesse svolgere in questo con­certo u n a politica di prestigio, n o n gli dispiaceva. Fin dap­principio si adope rò soltanto a smussarne gli angoli, ma n o n è vero che, come dice Guariglia, il vero Ministro degli Este­ri fu lui. Mussolini si avvalse della sua esper ienza e ne ac­cettò i consigli, ma de t t e subi to a d ivede re che la polit ica estera voleva farla da sé.

I criteri a cui la ispirò furono soprat tut to , se n o n esclusi­vamente , quelli della presenza e del prestigio che gli occorre­vano p e r rafforzare la sua posizione a l l ' in te rno . I l 16 no­vembre , poco p iù d i d u e se t t imane d o p o la conquis ta del potere , volle p r e n d e r e persona lmente par te alla conferenza della pace fra Grecia e Turch ia ins ieme al P res iden te del Consiglio francese, Poincaré, e al Ministro degli Esteri in­glese Curzon. Ma invece di raggiungerl i a Losanna, dove si teneva la r iun ione , pre tese che fossero loro a r agg iunge re lui a Territet . Poincaré e Curzon gli de t tero soddisfazione, e in compenso t rovarono in lui il p iù ragionevole degl ' inter­locutori. L'accordo fra i tre fu presto raggiunto , e in privati colloqui Mussolini c rede t te di aver s t r appa to a Curzon un preciso impegno a ridiscutere la quest ione dei Mandati cioè di quei terr i tor i del Medio Or ien te , la cui amminis t razione era stata affidata, sia p u r e a titolo t emporaneo , alle Potenze occidentali. In pubbliche dichiarazioni, Curzon par lò di lui come di «un u o m o d'incredibile energia e dal p u g n o di fer­ro», ma in u n a lettera privata al collega Bonar Law lo definì «un pericoloso demagogo privo di scrupoli». I famosi impe­gni si r ivelarono poi delle platoniche dichiarazioni di b u o n a volontà, ma Mussolini to rnò in Italia con un accredito inter­nazionale, e tut ta la s tampa parlò della sua missione come di un g rande successo che restituiva all'Italia il suo rango di Grande Potenza.

Fu tuttavia subito chiaro che, a pa r t e queste affermazioni di prestigio, Mussolini n o n voleva cor re re avventure. Dopo aver dato con tanta insistenza di «rinunciatari» a tutti coloro che avevano cercato un accordo con la Jugoslavia pe r Fiu-

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me e la Dalmazia, a p p e n a arrivato al potere si affrettò a dar­gli esecuzione i n g i u n g e n d o a fascisti e nazionalisti di n o n c rea re complicazioni . I l p u n t o su cui fu i r removibi le , ma ben sapendo di n o n rischiarvi nulla, fu il Dodecaneso che l'Italia occupava solo a titolo t emporaneo , e di cui l ' Inghil­ter ra chiedeva la resti tuzione alla Grecia. Mussolini replicò con forza che il p roblema era legato a quello dei Mandati: se da questi l'Italia restava esclusa, n o n poteva r inunziare alla sovranità su quelle isole, e la conferenza di Losanna gli det­te ragione.

Ma accanto a queste iniziative, di cui la s t ampa par lava esal tandole, e in cui lo zampino di Contar in i è abbastanza visibile, Mussolini ne p rese pe r con to suo un 'a l t ra , di cui nessuno allora seppe nulla. A p p e n a arr ivato al po te re egli affidò al p rop r io segretario personale, Chiavolini, il compi­to di procurargl i un incontro col Cardinale Gasparr i , i l vero règolo politico della Santa Sede. Chiavolini si rivolse al con­te Car lo Santucci, Pres iden te del Banco di Roma e perso­naggio molto influente in Vaticano. Santucci, che aveva un palazzo con due ingressi, lo mise a disposizione dei due uo­mini, che vi si det tero convegno passando dalle due diverse por te in m o d o da non da r nell 'occhio, una sera della secon­da metà di gennaio (la data n o n è accertata con precisione). Secondo qualche storico fu l'avvìo delle laboriose trattative che sei ann i d o p o sfociarono nella Concil iazione. Ques to non è del tutto esatto. Secondo la testimonianza di Santucci, al te rmine del lungo colloquio cui egli n o n aveva assistito, il Card ina le gli disse che «per ora siamo intesi che n o n con­venga affrontare in p i eno la ques t ione romana» . Ciò vuol d i re che ne avevano par la to , ma solo pe r dars i reciproca­mente u n a prova di b u o n a volontà e raggiungere più facil­men te l 'accordo su altre cose.

Quel la che più stava a cuore a Gaspar r i e ra il Banco di Roma, che finanziava tut te le organizzazioni cattoliche e il loro giornale Corriere d'Italia, e che in quel m o m e n t o versa­va in condizioni d i spera te . Gaspa r r i chiese a Mussolini di

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soccorrer lo , Mussolini s ' impegnò a farlo, e lo fece p e r c h é anche a lui stava a cuore qualcosa pe r la quale Gasparr i po­teva essergli di g r a n d e e decisivo aiuto. Della maggioranza di cui disponeva alla Camera , i popolar i e rano il g r u p p o più compat to , anzi l 'unico g r u p p o compat to perché le altre for­ze di centro e di destra e rano oramai f rantumate. Ma il par­tito n o n era affatto concorde nel l 'a t teggiamento verso il fa­scismo. L'ala dest ra era addi r i t tu ra pe r la collaborazione al governo, cui infatti aveva prestato d u e suoi uomini - Cavaz-zoni e Tangor ra - come Ministri, e alcuni altri come Sotto­segretar i . L'ala sinistra capeggiata da Miglioli e ra risoluta­mente pe r l 'opposizione. La maggioranza di centro , guida­ta da Sturzo e De Gasperi , e ra contro la collaborazione e pe r un appoggio condizionato da molte riserve. Queste t re ten­denze stavano pe r venire a confronto nel congresso del par­tito che si doveva tenere a Torino in aprile. E Mussolini sa­peva che u n a cosa sola avrebbe po tu to i ndu r r e Sturzo, sicu­ro vincitore, a m u t a r e a t teggiamento o ad a b b a n d o n a r e la partita: un r ichiamo della Santa Sede.

Cer to , egli n o n lo chiese espl ici tamente a Gaspar r i . Ma probabi lmente glielo fece capire al suo solito modo : ceden­do a tutte le sue richieste pe r quanto r iguardava non solo il Banco di Roma, ma anche la parificazione delle scuole pri­vate (quasi tutte in mano ai preti) a quelle dello Stato, l'inse­gnamento religioso, il ripristino del Crocifisso nelle aule, la lotta con t ro la massoner ia , e infine anche a d o m b r a n d o la possibilità, sia p u r e p ro ie t t a ta in un avveni re l on t ano , di una conciliazione fra Stato e Chiesa; ma anche facendo pre­sente la difficoltà, pe r lui, di legare le mani alle squadre fa­sciste contro le organizzazioni e le leghe cattoliche se queste con t inuavano a farsi r a p p r e s e n t a r e da un pa r t i to che si schierava contro il governo fascista.

Gasparr i n o n era uomo da scandalizzarsi di un simile ri­catto. Vecchio arnese di Curia temporale , esperto solo di af­fari t e r ren i , scettico sugli uomini , rot to a tut te le loro astu­zie e p ron to a ricambiarle, dovette anzi t rovare di suo gusto

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il l inguaggio del suo inter locutore. E infatti, uscendo, disse a Santucci: «È un u o m o di p r im 'o rd ine : sono molto soddi­sfatto del colloquio». Anche Mussolini lo era, come disse ad Acerbo. Quan to alla questione romana , forse un solo impe­gno avevano preso l 'uno con l 'altro: quello di p rosegui re i loro contatt i a t t raverso un fiduciario, i l p a d r e gesuita Tac­chi Ventur i , che infatti da allora iniziò la sua furtiva spola fra i d u e uomini, e che fu il vero tessitore della lunga t rama che por tò alla Conciliazione. Ma Duce e Cardinale si e rano studiati, e si e r ano piaciuti, o pe r lo m e n o non si e r ano di­spiaciuti.

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C A P I T O L O S E S T O

IL «LISTONE»

P r e s e n t a n d o i l suo gove rno alla Camera , Mussolini aveva de t to ch'essa doveva «sentire la sua par t ico la re posizione che la r e n d e passibile di scioglimento fra d u e giorni o fra d u e anni». Era u n a minaccia, ma con la pistola scarica. Mus­solini aveva chiesto al Re di firmargli un decre to in bianco pe r at tuarla quando gli fosse convenuto, ma il Re glielo ave­va r if iutato. Egli tut tavia si r e n d e v a conto che con poche diecine di deputa t i non avrebbe po tu to t irare avanti a lun­go o avrebbe dovuto farlo a prezzo di compromessi paraliz­zanti. E perciò fin dal p r imo momen to mise allo studio u n a riforma della legge elettorale che gli permettesse di contare su u n a maggioranza stabile.

Favorevoli al p roge t to e r a n o Giolitti, Sa landra e quasi tutt i i vecchi notabili del m o n d o liberale che speravano in un r i to rno al collegio un inomina le , su cui si e r ano sempre fondate le loro for tune. Ma a l l ' abbandono della proporz io­nale si s a r ebbe ro oppost i , ol tre che i socialisti, i popo la r i , che da essa t raevano la loro forza. Inol t re anche in campo fascista, c ' e rano divergenze di opinioni : Farinacci p r o p e n ­deva pe r un r i torno p u r o e semplice al collegio uninomina­le, Bianchi pe r un sistema maggioritario che garantisse d u e terzi dei posti alla lista che avesse o t tenuto la maggioranza relativa. Mussolini, come al solito, n o n si p ronunciava , ma da un ' in tervis ta a un giornale francese sembrava che p ro ­p e n d e s s e p e r il voto p l u r i m o : «E a s su rdo - aveva det to -concedere gli stessi privilegi a un u o m o incolto e a un retto­re d'Università». Ma poi su questa tesi non tornò più.

Il G r a n Consiglio affrontò il p r o b l e m a in marzo , il 25

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aprile optò per la proposta Bianchi contro quella Farinacci, e incaricò Acerbo di t radur la in un proget to di legge. Mus­solini lo p resen tò ai pr imi di g iugno alla Camera , e questa lo diede in esame a una Commissione di cui facevano par te tutti i maggiori esponent i dei vari partiti da Giolitti e Salan­dra pe r i liberali, a Bonomi pe r i socialisti riformisti, a Tura­ti, a Lazzari, al comunista Graziadei, a De Gasperi pe r i po­polari. I contrasti furono aspri, ma alla fine la Commissione approvò il concetto informatore della riforma. O r a pe rò era la Camera che doveva pronunciarsi , ed era chiaro che tutto sarebbe dipeso dai popolari : se costoro fossero stati compat­ti nel rifiuto, il proget to sarebbe stato bocciato, e Mussolini avrebbe subito u n a disfatta catastrofica.

Per il rifiuto era Don Sturzo che il congresso del part i to, tenutosi poco p r ima a Torino, aveva confermato segretario. Per venire a capo della sua opposizione, bisognava toglierlo di mezzo. E pe r toglierlo di mezzo, non c'era che un modo : i n d u r r e la Santa Sede a revocargli l 'appoggio. Per raggiun­gere questo fine, Mussolini ricorse alle sue solite armi della lusinga e della minaccia. Presso il Vaticano, egli poteva van­tare solide b e n e m e r e n z e : aveva r imesso il crocefisso nelle scuole, reso obbligatorio l ' insegnamento religioso, esentato i seminarist i dal servizio mil i tare, migl iorato le condizioni economiche del clero, e infine avviato il colloquio con Ga­sparr i . Ques to p e r ò n o n aveva impedi to all'Osservatore Ro­mano di p laud i re alla r iconferma di Sturzo, che a Tor ino si era bat tuto su tesi ne t tamente anticollaborazioniste.

La campagna che contro di lui si scatenò sulla s tampa fa­scista fu ce r tamente voluta da Mussolini. E a l t re t tanto p u ò dirsi del minaccioso e offensivo at teggiamento che gli squa­dristi assunsero nei confronti dei pret i e delle loro istituzio­ni. Egli ne tenne in freno la violenza, ma se ne servì, facen­do ben capire in Vaticano che avrebbe potu to egli stesso es­serne sopraffatto se non se ne eliminava la causa.

I l Vaticano n o n oppose molte resistenze e, p iù che Don Sturzo, b a d ò a salvare la faccia. In un art icolo sul Corriere

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d'Italia, g iornale molto vicino alla Cur ia , mons igno r Pucci invitò il p re te siciliano a trarsi da par te . De Gasperi , che di Sturzo era il braccio destro p u r senza condividerne appieno l ' intransigenza, cercò di pa ra re il colpo me t t endo in dubbio in u n a intervis ta che la pa ro la di Pucci fosse quel la della Santa Sede . Pucci r ispose che , anche se la sua parola n o n era quella della Santa Sede, ne rispecchiava l 'opinione, e la Santa Sede non smentì . Nello stesso m o m e n t o i cattolici na­zionali, che già avevano secessionato dal part i to , redassero un proclama di adesione al governo e alla riforma elettorale che venne sottoscritto anche da molti dignitari della Corte Pontificia. Sturzo capì l 'antifona e, ancora u n a volta piegan­dosi al volere della Chiesa, rassegnò le dimissioni da segre­tario.

Era il 10 luglio (del '23), p ropr io il giorno in cui alla Ca­mera iniziava il dibattito sul disegno di legge. Restava anco­ra da vedere cosa avrebbero fatto i deputa t i popolar i d o p o i l ritiro del loro capo. In loro n o m e par lò un giovane parla­m e n t a r e toscano, Gronchi , pe r r i lanciare i l p roge t to di un c o m p r o m e s s o p r o p o s t o da De Gasper i : la lista v incente avrebbe avuto i t re quinti dei posti a condizione che avesse o t t enu to u n a quotaz ione di a lmeno i l q u a r a n t a pe r cento . Ma Mussolini, che già aveva rifiutato quella proposta , to rnò a rifiutarla, e molti pensarono che quella ro t tura preludesse alla sua disfatta.

Q u a n d o prese la parola , tutti si aspet tavano un discorso violento, com'era solito farne quando , esaurite le armi della blandizie, r icorreva all ' intimidazione. Non fu così. Due sto­rici non certo teneri verso di lui, Salvatorelli e Mira, r icono­scono ch'egli p r o n u n c i ò in quella occasione il discorso più «parlamentare» della sua carr iera , un vero capolavoro pe r m o d e r a z i o n e e senso di misura , che colse c o n t r o p i e d e gli avversari e ne scompaginò il blocco. Bonomi e i liberali di Amendola abbandona rono il no e decisero di astenersi. An­che il f ronte dei socialisti tu ra t i an i si r u p p e : p e r bocca di D'Aragona, i sindacalisti della C O L si d ichiararono indipen-

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dent i dal part i to. Ma lo sgretolamento più grave e decisivo fu quello dei popolar i . Per impedi r lo e t ene re unit i i suoi, De Gasper i r icorse a un ennes imo c o m p r o m e s s o , p r o p o ­n e n d o nella sua replica che i popolari votassero la fiducia al gove rno p u r r i b a d e n d o il no alla r i forma. Ma n o n riuscì a r icucirne le fila. Alla testa del loro g r u p p o , Vassallo e Cavaz-zoni sal tarono il fosso, molti altri a n n u n c i a r o n o l 'astensio­ne, e da quel momen to fu chiaro che il governo aveva parti­ta vinta. Messo ai voti, il proget to ne raccolse 235 contro 139 e 77 schede bianche.

Forte di quel successo, Mussolini evitò di compromet te r ­lo con mosse precipitose, e m a n d ò in vacanza i deputa t i sen­za accennare a prossime elezioni. In realtà n o n pensava ad altro, e tutto quello che fece in quei t re mesi, lo fece in vista di esse.

Anche gli avveniment i in te rnaz ional i egli l i sfruttò unica­mente a fini di p ropaganda elettorale, e p ropr io pe r questo rischiò di compiervi e r ror i irreparabili .

Il t ra t ta to di Losanna , che assegnava def ini t ivamente il Dodecaneso all'Italia, aveva ancor più guastato i nostri rap­port i con la Grecia, e a invelenirli u l ter iormente era insorto, o meglio si era rinfocolato, il p roblema dell'Albania. La Gre­cia aspirava ad a n n e t t e r s e n e le reg ion i mer id iona l i come p a r t e i n t eg ran t e del suo Ep i ro . L'Italia contestava ques te pretese, era riuscita a farle respingere dagli Alleati, e aveva m a n d a t o u n a commiss ione mil i tare , gu ida ta dal genera le Tellini, a fissare la frontiera fra i d u e Paesi nel modo più fa­vorevole all 'Albania. Ad Atene ci fu rono c lamorose d imo­strazioni anti tal iane e violenti attacchi della s tampa a Mus­solini che, esasperato, o rd inò il concent ramento della flotta a Taranto.

La tens ione e ra già al mass imo q u a n d o , i l 27 agosto, g iunse notizia che Tellini e i suoi col laborator i e r a n o stati t ruc ida t i m e n t r e compivano u n a r icogniz ione. L'episodio sembrava fatto appos ta p e r offrire a Mussolini il des t ro di

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mostrare agl'italiani la sua energia: tanto che, non essendo­sene mai trovati i responsabili, qualcuno avanzò poi l 'ipote­si che ad organizzare sotto banco l'eccidio fosse stato lui stes­so. Ma ne manca qualsiasi p rova , e la cosa ci sembra poco credibile.

La reazione di Mussolini fu sconsiderata, ma di sicuro ef­fetto p ropagand i s t i co . Alla Grecia fu inviato un ultimatum con cui le si ing iungeva di fare, nello spazio di vent iquat -t r 'ore , le scuse, di pagare un ' indenni tà di c inquanta milioni, e di p u n i r e con la mor te i colpevoli. Era chiaro che la Gre­cia non poteva accettare: facendolo, si sarebbe riconosciuta responsabile dell 'accaduto. Cercò con u n a risposta dilatoria di g u a d a g n a r e t empo , ma Mussolini n o n glielo det te . I l 31 agosto la flotta si p resen tò al largo di Corfù, e ne int imò la resa. Il comandan te della piazza rifiutò, e le navi apr i rono il fuoco sul castello veneziano della città.

Pare che questi non fossero gli ordini impartiti da Musso­lini che più tardi definì «superfluo» quel gesto, e l 'ammira­glio T h a o n di Revel, Ministro della Marina, rivolse un rim­provero al comandante della squadra che, se agì di testa sua, avrebbe meritato ben peggio. Nel castello n o n c'era n e m m e ­no u n a gua rn ig ione . C ' e r ano sol tanto dei profughi dalla Turchia, di cui u n a ventina r imasero sotto le macerie, sulle quali i marinai , sbarcati subito dopo, issarono il tricolore.

L'insensato gesto piacque agl'italiani, ma mise la Grecia dalla pa r t e della r ag ione e a t t i rò sull ' I tal ia i fulmini della Società delle Nazioni che lo c o n d a n n ò quasi al l 'unanimità . Mussolini ne fu sconcertato. Sebbene a r appresen ta re l'Ita­lia ci avesse m a n d a t o una personal i tà au torevole come Sa­landra , egli non attribuiva nessuna impor tanza a quel con­sesso, e minacciò di abbandonar lo se esso insisteva a interfe­rire in u n a questione che, coinvolgendo l 'onore e la dignità nazionale, egli giudicava di sua esclusiva spet tanza. Salan­dra fece del suo meglio pe r evitare la rot tura , e ci riuscì gra­zie alle divisioni che già minavano la Società. La Francia aveva interesse a garantirsi l 'appoggio italiano nelle sue dia-

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tribe coi tedeschi pe r la Ruhr, e la stessa Inghi l terra , p u r er­gendosi a pa ladina della Grecia, si mostrava des iderosa di u n a pacifica composizione.

Per arrivarci, si finì pe r accettare la tesi di Mussolini se­condo la quale n o n era la Società che doveva pronunciars i , ma la Conferenza degli Ambasciatori , da cui d ipendeva la commissione militare di Tellini. Pur rendendos i conto della infondatezza di questa tesi, Salandra la sostenne con la sua abilità di avvocato mer id iona le . E anche la Grecia finì p e r piegarvisi quando vide di leguare la speranza di un «fronte» con la Jugoslavia.

Mussolini infatti aveva corso anche questo rischio riattiz­zando, p ropr io sul più bello della crisi con la Grecia, la que­stione di F iume. Siccome la commissione mista italo-jugo-slava non riusciva a fare passi avanti per la delimitazione dei confini e pe r l ' o rd inamen to dello «Stato libero» della città convenuto a Locamo , egli m a n d ò ad assumerne il comando il Generale Giardino. In pratica, questo significava l 'annes­sione p u r a e semplice di Fiume, la Jugoslavia protestò, e su­bito la Grecia le p ropose un pat to difensivo cont ro l'Italia. Ma il re Alessandro e il Capo del Governo Pasic, en t r ambi di t emperamen to autori tar io e quindi simpatizzanti di Mus­solini, non vollero saperne e, salvata la faccia con la nota di protesta, si rassegnarono al fatto compiuto .

La Conferenza degli Ambasciatori avallò le richieste del­l'Italia alla Grecia, anzi le fece sue. E con questo ingegnoso s t ra tagemma procedura le impose alla Grecia di d a r n e sod­disfazione n o n all 'Italia, ma alla Conferenza. Forte di que­sto verde t to , l ' Inghi l te r ra chiese all 'Italia lo sgombero im­media to di Corfù, ch ' e ra la vera posta del giuoco. L o n d r a sospettava che Mussolini volesse fare di Corfù un altro Do-decaneso che, occupato nel '12 a titolo t emporaneo , era poi r imasto def ini t ivamente i tal iano. E il sospetto n o n e ra del tutto infondato: secondo Guariglia, anche se non se la p ro ­poneva , Mussolini sperava che gli avveniment i gli consen­tissero di procedere all 'annessione.

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Infatti n o n vi r inunz iò subito. Alla r ichiesta inglese, ri­spose mobil i tando la flotta, e pe r alcuni giorni sulla stampa fascista i minacciosi accenti del Mare nostrum r i suonarono a piena orchestra. Ma la diplomazia inglese capì che tanta bal­danza e aggressività e rano di p u r a platea e t enne du ro , p u r c o n c e d e n d o a Mussolini tu t te le scappatoie p e r salvare la faccia. Egli subord inò l 'evacuazione dell'isola al castigo de­gli assassini. Ma, siccome gli assassini non vennero scoperti, si accon ten tò del r i sa rc imento di 50 mil ioni e l a r g e n d o n e dieci ai rifugiati greci che avevano fatto le spese del bom­bardamento , e ritirò la flotta.

In sostanza, si e ra a r reso , ma senza r inunc ia re a quegli at teggiamenti gladiatori che gli p rocuravano popolari tà nel Paese. La s t ampa fascista ebbe buon i pre tes t i pe r scrivere ch'egli aveva umiliato la Società delle Nazioni, t enu to testa a l l ' Inghi l terra , e pe r stabilire un raffronto fra lui e Giolitti che nel '20 aveva inghiottito senza reagire l'uccisione di due nostri ufficiali a Spalato.

In t u t t o ques to c 'e ra a n c h e del ve ro . La Società del le Nazioni usciva malissimo dalla prova, e n o n si sarebbe mai r ip resa dal discredi to che gl ien 'era der iva to . Ma Mussoli­ni, sebbene ai fini propagandis t ic i avesse saputo t r a r r e dal­la v icenda i l mass imo prof ì t to , ne e r a r imas to p ro fonda ­m e n t e a m a r e g g i a t o . P a r l a n d o n e con g l ' in t imi , l a definì «una gratui ta e i m p u d e n t e mistificazione ai d a n n i dell ' I ta­lia». E Ciano racconta nel suo Diario che ancora tanti anni d o p o Mussolini gli aveva det to di avere «dal 1923 un con­to in sospeso, e i greci s ' i l ludono se p e n s a n o ch'egli abbia da to i l co lpo di spugna» . C'è da ch ieders i q u a n t o ques to rancore abbia influito sulla decisione di at taccare la Grecia nel '40 cont ro ogni strategica convenienza. Ma qui si en t r a nell 'opinabile.

Liquidato l ' incidente e segnatolo all'attivo del p ropr io p re ­stigio, egli si r idet te an ima e corpo ai preparat iv i delle ele­zioni. Per p resen ta rve lo con probabi l i tà di successo, biso-

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gnava confezionare al fascismo un abito nuovo, che lo ren­desse più rispettabile e accetto a u n a pubblica op in ione in g r a n d e maggioranza modera t a . E l ' impresa n o n e ra facile pe r le resistenze del turbolento e lemento squadrista.

Sin dal l ' indomani della marcia su Roma, si era delineato in seno al part i to un movimento «revisionista» che aveva so­stenuto le tesi «normalizzatrici» del disarmo delle squadre e de l l ' abbandono della violenza. La p u n t a es t rema di questa t e n d e n z a era stato Grand i , che aveva perf ino vent i la to lo scioglimento di tutti i partiti , compreso quello fascista. A po­tere conquistato, egli diceva, il fascismo s'identificava ormai con la Nazione, e doveva farne sue tutte le istanze, dimenti­c a n d o quel le di p a r t e . Forse, a ispirargli quest i propos i t i , c'era anche un interesse personale: Grandi n o n era mai sta­to popo la re d e n t r o il par t i to . Ma n o n e ra il solo a covarli. Sia p u r e in maniera più sfumata, queste e rano anche le tesi di Bottai, che pe r sostenerle aveva fondato u n a rivista, Criti­ca fascista, affidata soprat tut to all'agile e abile p e n n a di Mas­simo Rocca, un cur ioso e inquie to pe r sonagg io che aveva militato nelle fi la degli anarchici, poi era stato u n o squadri­sta fra i p iù accesi e risoluti, e ora , nella lotta cont ro gl'in­transigenti , si mostrava più intransigente di loro.

In questa diatriba, Mussolini non aveva preso posizione. Ma ci sono abbastanza e lement i pe r po te r d i re che n o n gli dispiaceva e che , se n o n p romosso , egli aveva c e r t a m e n t e facilitato la fondazione di un quot id iano, il Corriere italiano che, sotto la d i rez ione di Filippelli, e ra d iventa to l 'organo ufficiale dei revisionisti cont ro Cremona Nuova di Farinacci. Tutto era fra loro materia di contrasto. Ma par t icolarmente era destinato a diventarlo il criterio con cui si doveva proce­de re a formare la lista dei candidati in vista dell'elezioni non ancora annunc i a t e , ma o rma i inevitabili . Gl ' in t rans igent i na tu ra lmen te le volevano riservate ai fascisti di provata fe­de, i cosiddetti «antemarcia». I revisionisti le volevano allar­gate a tutte le persone di provata capacità e competenza, da qualsiasi campo venissero. Era sempre lo stesso d i lemma se

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la rivoluzione dovesse diventare Stato o se lo Stato dovesse d iven ta re s t r u m e n t o della r ivoluzione, ma reso acu to dal problema immediato e concreto della scelta dei candidati .

La po lemica toccò tali p u n t i di asprezza che la G iun ta esecutiva del pa r t i to dovet te in te rven i re . C o m e cit tadella dei vecchi fascisti, essa accolse il p u n t o di vista di Farinacci, ed espulse Rocca. Ma questo compor tava la «purga» di tut­to il revisionismo, di fronte alla quale Mussolini n o n poteva man tene re la sua neutrali tà. I pochi segni che fin allora egli aveva dato e rano parsi in favore dei revisionisti. «Possiamo, dobbiamo regalare a chi vorrà prenderse l i - aveva scritto a Farinacci in agosto - cento o duecentomi la fascisti che, in­vece di facilitare, complicano ba lo rdamente l 'opera del go­v e r n o fascista», e allo stesso motivo e r a n o i sp i ra te le sue «circolari» ai Prefetti, con cui li invitava ad affermare sem­pre , sull 'autori tà del par t i to , l 'autori tà dello Stato. A Filip-pelli i l suo a t t e g g i a m e n t o sembrava t a lmen te ch ia ro che , d o p o la c adu t a di Rocca, scrisse: «A q u a n d o l ' espuls ione dell 'on. Mussolini?»

In realtà, vista a posteriori, la sua e ra la solita tattica: ac­cendere il fuoco, lasciare che altri vi si bruciassero le mani , eppoi in terveni re come paciere al di sopra delle par t i . Co­nosciute le decisioni della Giunta, egli pose Yaut aut: o que­sta le revocava, o lui faceva atto di solidarietà con Rocca. Al­la Giunta n o n restò che dimetters i r ime t t endo l 'ultima pa­rola a lui, che a sua volta la rimise al G r a n Consiglio. Il ri­sultato fu il solito colpo al cerchio e l 'altro alla bot te ; un completo r imaneggiamento degli organi dirigenti del part i ­to con la nomina del «duro» Giunta a segretario politico, la conferma del l 'autori tà prefettizia nelle province, un totale atto di sottomissione del part i to al suo Duce, l 'addolcimento della c o n d a n n a di Rocca in u n a sospens ione di t r e mesi. N e m m e n o stavolta Mussolini si e ra pronuncia to fra revisio­nisti e intransigenti , ma aveva impedi to il trionfo degli uni sugli altri pe rché gli facevano comodo entrambi : gli un i per d imost ra re le sue intenzioni distensive, gli altri pe r tenersi

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in m a n o la carta della violenza con t ro i recalci tranti . E in­tanto risultava come l 'unico vincente di u n a par t i ta in cui tutti gli altri avevano perso.

Quale tipo di part i to e di Stato avesse in testa è pe rò dif­ficile dire , e c red iamo che abbia rag ione De Felice q u a n d o scrive che n o n ne aveva in testa nessuno. Come al solito, egli navigava senza un piano preciso, affidandosi ai venti, e con­tando solo sul p r o p r i o f iuto pe r res ta rne sul f i lo. Nulla di­most ra che in quel m o m e n t o egli pensasse a un r eg ime , e basta vedere il m o d o in cui aveva scatenato e chiuso quella singolare battaglia del revisionismo, che gli e ra servita solo per r i du r r e all 'obbedienza il part i to e r ender lo docile all'o­perazione cosmetica cui intendeva sottoporlo p e r vincere le elezioni. Per il m o m e n t o , il suo t r a g u a r d o era solo questo . Al resto, avrebbe pensato dopo .

Anche le opposizioni n o n pensavano ad altro, e si p repa ­ravano alla battaglia con tale pessimismo che molti propose­ro di n o n combatterla n e m m e n o . L'idea part ì dai repubbli­cani. Dati i vantaggi che la nuova legge elettorale assicurava alla lista governativa, essi dissero, e il ricatto della violenza che i fascisti n o n avrebbero mancato di esercitare, la miglio­re a rma di difesa era l 'astensione: se questa avesse supera to il c inquanta pe r cento, pe r Mussolini sarebbe stata u n a «di­sfatta morale» che lo avrebbe costretto alle dimissioni. Que­sta tendenza a spostare la battaglia dal p iano politico a quel­lo morale era un pre ludio dell 'Aventino, e infatti trovò subi­to un a r d e n t e sosteni tore in Amendo la , che del l 'Aventino sarebbe stato di lì a poco l 'anima e la coscienza.

In un p r imo m o m e n t o questa tesi fu sostenuta anche da un giovane esponente del part i to socialista riformista di Tu­rati: Giacomo Matteotti , d e p u t a t o di Rovigo, che i compa­gni chiamavano «Tempesta» pe r il suo t empe ramen to batta­gliero. Sebbene figlio di ricchi p ropr ie ta r i terr ier i , militava nel pa r t i to fin dal l 'adolescenza, e i fascisti n o n e r a n o mai riusciti ad averne ragione n e m m e n o con le aggressioni. Ma fu a p p u n t o ques to spiri to p u g n a c e che subi to d o p o lo in-

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dusse a rifiutare la tesi astensionista. Molti socialisti, egli dis­se a Tura t i , n o n ch i edono di megl io che di essere esentat i dalla lotta, e l 'astensione n o n farebbe che incoraggiare la lo­ro viltà. Bisognava n o n solo impegnarv is i , ma anche ina­spr i r la , in m o d o da n o n lasciare scampo agl ' indecisi : o di q u a o di là. Ci fu rono , fra i vari g r u p p i , conciliaboli e di­scussioni, anche rovent i . Ma alla fine l ' idea dell 'astensione fu abbandonata .

La Camera fu sciolta il 25 gennaio (del '24), e le elezioni indet te pe r il 6 di aprile. Ma subito fu chiaro che Mussolini in tendeva da r loro il carat tere non di u n a battaglia fascista, ma di un plebiscito p r ò o contro la politica fin lì perseguita. E lo disse a un Consiglio nazionale del par t i to r iuni to il 28 genna io a palazzo Venezia. Nien te normal izzaz ione , di­chiarò, se con questa parola si voleva in tendere lo sbaracca­men to del fascismo e della sua Milizia, che restavano intoc­cabili. Ma niente n e p p u r e «veteranismo» e «diciannovismo». In parole povere: quali che ne fossero i meriti , i fascisti del­la p r i m a o ra n o n dovevano p r e t e n d e r e a l monopo l io dei posti. A par te gli esponent i della sinistra che «noi seguitere­mo a comba t t e re col vecchio vigore delle camicie nere», il fascismo intendeva accogliere nelle sue file, «al di fuori, al di sopra e contro i partit i , tutti quegli uomini del popolarismo, del liberalismo e delle frazioni della democrazia sociale che sono disposti a darci la loro attiva e disinteressata collabora­zione, r e s t ando bene inteso che la maggioranza dev'essere riservata al nostro partito».

Era u n a chiara indicazione di come egli avrebbe compo­sto la sua lista di candidati , che infatti fu subito ribattezzata «il listone» p e r il suo composi to cara t tere di Legione Stra­niera. R ip r endendo la tattica che già aveva usato pe r forma­re i l suo p r i m o Minis tero a l l ' i ndomani della Marcia, egli n o n volle t r a t t a r e coi par t i t i . Tra t tò coi singoli uomin i sbrancando fra loro quelli che più si dimostravano propensi alla collaborazione.

Questa mossa mise in crisi sia gli uomini che i partiti, spe-

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cialmente quello liberale, che alla fine se la cavò lasciando li­beri i p ropr i iscritti di fare a testa loro. Ci furono d r a m m i di coscienza e d r a m m i di ambizione. En t rò nel listone Salan­dra , ma p o n e n d o come condiz ione d i por ta r s i d ie t ro un g r u p p o di fedeli. Vi en t rò , sia p u r e «con immensa perples­sità», Or lando. Vi en t rò De Nicola. Ma non vi en t rò Giolitti, nonostante i ponti d 'oro che Mussolini gli faceva.

Un p r e a n n u n c i o di come si sarebbe conclusa la lotta lo det te lo schieramento in cui l 'opposizione vi scese. Mentre i fascisti presentavano due sole liste, quella nazionale o «listo­ne» e una lista «bis» limitata a quat t ro regioni (Toscana, La­zio-Umbria, Abruzzi e Puglie) nelle quali si sentivano abba­stanza forti da sfidare anche la concorrenza della p r ima li­sta, l 'opposizione ne presentava ben ven tuno , n o n essendo n e m m e n o i r aggruppamen t i più similari riusciti a far blocco t ra loro . Perfino la massoner ia , nonos t an t e l 'ostracismo comminatole da Mussolini, si divise: quella di piazza del Ge­sù col fascismo, quella di palazzo Giustiniani con l'antifasci­smo.

D u r a n t e la c a m p a g n a e le t tora le , i l gove rno fece ogni sforzo pe r man tene re l 'ordine. Gli conveniva pe r d u e moti­vi: anzitutto pe r accreditare la maschera di rispettabilità che Mussolini voleva dargli e da cui d ipendeva il voto modera ­to; eppoi pe r evitare le astensioni, che sarebbero state certa­men te in terpre ta te come un tacito rifiuto del fascismo. Ma n e m m e n o i suoi Prefetti r iuscirono a imped i re le violenze. Esse si eserc i tarono sopra t tu t to cont ro i fascisti dissidenti , che facevano capo a Cesare Forni, Misuri, Padovani, Corgi-ni e Sala. E si capisce perché . Invisi sia ai fascisti che agli an­tifascisti, essi n o n avevano né babbo né m a m m a , n o n pote­vano invocare p ro tez ione dai p r imi , né sol idarietà dai se­condi.

Ma n o n furono loro soli a far le spese de l l ' e s t remismo squadris ta , risvegliato dal clima rovente dei comizi e delle polemiche di stampa. Un candidato massimalista fu ucciso a Reggio Emilia, Amendo la aggred i to e bas tona to a Roma.

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Anche i «popolari» subi rono tali angher i e che, nonos tan te lo scarso conto in cui li teneva, la Chiesa dovette dep lora re le violenze fasciste.

L'indisciplina delle s q u a d r e r e n d e v a furioso Mussolini, che tuttavia non osava combatterla a viso aper to . «Questa è l 'ul t ima volta che si fanno le elezioni così - disse a Cesare Rossi -. La pross ima volta voterò io pe r tutti», e forse n o n immaginava quanto fosse nel vero. Via via che il 6 aprile si avvicinava, d iventava s e m p r e più nervoso e pessimista sui risultati.

Alle u r n e anda rono il 64 pe r cento degli elettori che, pe r le m e d i e i taliane, e ra u n a b u o n a pe rcen tua l e : ol t re i l 5 in più della p recedente consultazione. Il p r imo pericolo, quel­lo dell 'astensione in massa, era stato evitato. Poi vennero le altre cifre. Su circa 7 milioni di voti validi, il listone e la lista bis ne raccolsero 4 milioni e 650 mila, par i al 66 pe r cento. Più tardi si disse che c 'erano stati dei brogli e che pe r esem­pio la maggior par te dell 'oltre mezzo milione di voti annul ­lati e rano perfe t tamente validi e avevano solo il torto di es­sere andat i all 'opposizione. Ma Gobetti, u n o degli antifasci­sti più intransigenti , ma anche più onesti, contestò la conte­stazione: anche se dei brogli c 'erano stati, disse, non aveva­no alterato il senso del p ronunc iamen to popolare : sia p u r e più pe r i demeri t i degli avversari che pe r i merit i suoi, il fa­scismo aveva vinto: p e r sovvertire questa realtà, bisognava anzitutto riconoscerla.

La nuova Camera si apr ì il 24 maggio, festa nazionale per­ché era la r icorrenza dell ' ingresso dell 'Italia in guerra , e nel discorso con cui, come al solito, inaugurava la legislatura, il Re salutò i d e p u t a t i come «la gene raz ione della vittoria». Quelli fascisti, in camicia nera , esultavano considerando de­finitivo e irreversibile il loro trionfo. E infatti dal p u n t o di vista numer ico , la loro maggioranza era schiacciante.

Fra listone e lista bis avevano conquis ta to 374 seggi, la­sciandone poco più di cento a un 'opposizione demoralizza-

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ta e divisa. I socialisti, r ispet to alla legislatura p r eceden t e , e rano calati da 123 a 46, i popolar i da 108 a 39, e la galassia dei g rupp i democratici da 124 si era r idot ta a 30. Solo i co­munist i - fatto significativo - avevano guadagnato passando da 15 a 19.

Tutti avevano dichiarato che il fatto di essere riusciti a so­pravvivere m a l g r a d o le condiz ioni di svantaggio in cui l i aveva messi la nuova legge elet torale e le in t imidazioni di cui e rano stati fatti segno d u r a n t e la campagna , dimostrava che il fascismo aveva vinto solo una battaglia e che la gue r r a cominciava ora. Ma in real tà questa g u e r r a n o n sapevano come farla, e n o n riuscivano a t rovare fra loro un accordo pe r u n a strategia comune .

Tut to questo p e r ò n o n ubriacava Mussolini che, col suo solito realismo, vedeva anche il rovescio della medaglia. L'a­nalisi dei risultati d imostrava che la vittoria era m e n o bril­lante di quan to risultasse sul p i ano ar i tmet ico. A r e n d e r l a schiacciante era stato il sottoproletariato del Sud, che aveva come al solito votato, secondo la vecchia logica delle «clien­tele», n o n pe r u n a scelta ideologica, ma pe r il part i to di go­ve rno : p r o n t o a cambiare , se ques to pa r t i to d o m a n i fosse cambiato. I ceti operai del N o r d il fascismo lo avevano rifiu­tato m e t t e n d o n e in m i n o r a n z a i l l is tone. Era ques to che preoccupava Mussolini, ed è di qui che bisogna par t i re pe r c o m p r e n d e r e quanto avvenne subito dopo .

Come dice De Felice, la manovra di Mussolini era perfet­t amen te riuscita sul cen t ro e sulla destra , dove n o n e ra ri­mas to , a fargli oppos iz ione , che qua lche notabi le a ti tolo pe r sona le come Giolitti. Da ques ta pa r t e , n o n aveva più niente da temere . L'opposizione gli veniva tutta da sinistra, ed era p ropr io questo che lo preoccupava. Come forza, non era granché . Divisi o rmai in d u e part i t i - quello riformista di Turat i (PSU), e quello massimalista di Serrat i (PSI) - i so­cialisti, anche sommat i ai comunist i , non r app re sen tavano più che un milione di voti rispetto ai quasi d u e che avevano assommato fin allora. Ma e rano i depositari dell 'etichetta di

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«sinistra» cui Mussolini n o n aveva mai cessato di ane la re , anche a costo di mettersi contro il p ropr io part i to. Non vo­leva passare pe r un u o m o di destra, o delle destre. Ed ecco perché , subito dopo la vittoria, si affrettò a lanciare qualche sonda verso gli sconfitti.

Qu i si en t ra in un capitolo molto discusso, e che farà an­cora molto discutere pe r l'impossibilità di da re concretezza di prova a quelle che sono soltanto delle ipotesi. Ch'egli in­tendesse svuotare i socialisti a t t i randone le t r u p p e nei p ro ­pri ranghi , ana logamente a quan to aveva fatto con liberali, conservatori e nazionalisti, n o n c'è dubbio . E n o n c'è dub ­bio n e m m e n o che il suo bersaglio preferi to fosse la Confe­derazione Generale del Lavoro. Ci s'era provato col «patto di pacificazione». Ci s'era provato subito d o p o la Marcia su Roma. Ed è abbastanza dimostrato che stava p e r riprovarci-si a l l ' indomani della vittoria elettorale del 6 aprile.

Lasciamo stare le testimonianze di Carlo Silvestri che, es­sendo stato o essendosi s empre cons idera to l ' i spiratore di questa manovra , l 'ha probabi lmente molto romanzata . Egli dice di aver avuto in visione d i re t t amente da Mussolini, al t empo di Salò, i document i che dimostravano il suo tentati­vo di t rova re un accordo n o n solo con la Confederaz ione Genera l e del Lavoro , ma anche coi socialisti tu ra t i an i del P S U . Ma questi document i , che facevano pa r t e dei fascicoli r iguardant i il delitto Matteotti, si persero nella fuga di Mus­solini verso la mor te a Dongo. Tuttavia qualcosa di vero nel­le affermazioni di Silvestri c'è, pe r ché lo r i conobbe anche Cesare Rossi in un articolo scritto dopo la Liberazione.

Più convincent i sono altre d u e tes t imonianze. U n a è di Giunta che, d e p o n e n d o sul processo Matteott i d o p o la ca­duta del fascismo, dichiarò: «Mussolini non ebbe il coraggio di por t a re i socialisti al governo nel '22, ma li avrebbe por­tati alla fine di g iugno del '24», e precisò anche i nomi di co­loro che intendeva invitarvi: D'Aragona o Casalini ai Lavori Pubblici, e Ti to Zaniboni - un socialista turat iano plurideco­rato di g u e r r a - come sottosegretario alla Presidenza. L'al-

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t ra è di Umber to I I , che dice di aver avuto da suo p a d r e la conferma di queste intenzioni di Mussolini.

A tu t to questo poss iamo c rede re senz 'a l t ro , anche per ­ché queste intenzioni Mussolini le aveva covate sempre . In quali tentativi si siano concretate , n o n si sa. Si sa p e r ò che i socialisti qualcosa si aspet tavano, e che fra loro c 'erano an­che dei «possibilisti» che si most ravano propens i a p r e n d e r ­li in considerazione. Lo dice Turat i nelle sue lettere alla Ku­liscioff: «Troppi nostri sono stanchi di stare di cont inuo coi p u g n i tesi e non d o m a n d a n o di meglio che un po ' di deferi­te, come i soldati della nos t ra g u e r r a che s ' inviavano delle bottiglie di vino dalle nos t re t r incee alla t r incea opposta , e viceversa. Io vado facendo la p r o p a g a n d a del res ta re im­mobili nel nostro t r inceramento . Q u a n d o vedo Gonzales a braccetto con Terzaghi o sento Modigliani scherzare coi va­ri Ciano e Finzi e Corb ino nel banco dei ministri mi sento venir male».

Il bisogno di detente lo avvertivano infatti anche molti fa­scisti. E fu in questo clima che prese avvìo la seconda onda­ta revisionista. La sollevò il solito indomi to Rocca, spalleg­giato - ma p iù c a u t a m e n t e - da Bottai , e subito violente­mente bersagliato da Farinacci. Mussolini fu seccatissimo di questa polemica. O r d i n ò a Rocca di smetterla, ma Rocca ri­spose con u n a infuocata replica a Farinacci: «Ed ora chiedi la mia espulsione. Ed io raccat terò la bolla di espuls ione e me l ' appenderò al pe t to come la medaglia commemora t iva di u n a vittoria, come la consacrazione definitiva del mio co­raggio e della mia fede». Fu la fine di quel l 'eret ico un po ' esibizionista e chisciottesco, ma impavido e generoso. Scac­ciato dal part i to, d o p o il delitto Matteotti andò a fare il fuo­ruscito in Francia, dove visse u n a vita grama, inviso sia ai fa­scisti che agli antifascisti.

Può sembrare s t rano che Mussolini castigasse così seve­r a m e n t e l ' uomo che , p r o p u g n a n d o la d is tens ione con t ro l 'estremismo, favoriva in fondo il suo disegno di accordo coi socialisti. Ma questo accordo, pe r negoziarlo da u n a posizio-

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ne di forza, egli voleva farlo a n o m e di tut to il fascismo, e non con l'aria di esservi trascinato da u n a sola «frazione».

Ma anche fra i socialisti le resistenze alla distensione era­no forti, e a incarnarne lo spirito era Matteotti. «Rispetto al­la d i t t a tu ra fascista - aveva scritto a Tura t i - è necessar io p r e n d e r e un a t t egg iamen to diverso da quel lo t e n u t o sin qui; la nostra resistenza al r eg ime dell 'arbitr io deve essere più attiva; n o n cedere su nessun p u n t o ; n o n a b b a n d o n a r e nessuna posizione senza le più recise, le p iù alte pro tes te . Nessuno p u ò lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca la libertà al popolo italiano; tutto ciò che esso ot t iene lo sospinge a nuovi arbitrii, a nuovi soprusi . E la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza; ed è il tem­pe ramen to stesso che lo dirige. Perciò un part i to di classe e di ne t ta opposizione n o n p u ò raccogliere che quelli i quali siano decisi a u n a resistenza senza limiti, con disciplina fer­ma, tutta diret ta ad un fine.» Ed è chiara l'allusione ai «com­pagni» che vacillavano e si mostravano disposti alla resa.

Il 30 maggio Matteotti prese la parola dal suo banco di de­puta to . Il suo discorso, che avrebbe po tu to esaurirsi in me­no d i un 'ora , ne d u r ò qua t t ro pe rché cont inuamente inter­ro t to dai fischi e dagli ur l i dei fascisti. P res iden te dell 'As­semblea e ra Enr ico De Nicola, che invano scampanel lava pe r r ipor ta re la calma. I fascisti, quando non urlavano, pic­chiavano r i tmicamente i pugn i sul banco pe r coprire la voce del l 'oratore che, imper te r r i to , diceva dei r isultat i elettorali del 6 apr i le : «Cont ro la loro conval ida, noi p r e s e n t i a m o questa p u r a e semplice eccezione: che la lista di maggioran­za governativa, la quale nomina lmente ha o t tenuto u n a vo­tazione di quat t ro milioni e tanti voti, cotesta non li ha otte­nuti di fatto e liberamente».

Scoppiò il putiferio. Matteotti aspettò che si placasse, poi cominciò ad elencare le prove del clima di violenza che aveva falsato il verdetto popolare . Ad ogni tempesta di fischi e mi­nacce, Matteotti r i spondeva: «Io espongo fatti che n o n do-

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vrebbero provocare rumore . I fatti o sono veri, o li dimostra­te falsi». «Voi svalorizzate il Parlamento» urlò una voce. «E al­lora sciogliete il Parlamento.» Farinacci esplose: «Va' a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!» «Fareste il vostro mestiere» ribatté Matteotti, e ricominciò a motivare le sue denunce nel solito frastuono. «Onorevoli colleghi, io deploro quello che accade...» ripeteva De Nicola, e rivolgen­dosi a Matteotti, lo sollecitò: «Concluda, onorevole Matteotti. Non provochi incidenti». Matteotti s'infuriò: «Ma che manie­ra è questa! Lei deve tutelare il mio diri t to di parlare». «Sì, ma ho anche quello di raccomandar le la p rudenza» ribatté De Nicola, come presago di quan to sarebbe accaduto . «Io chiedo di parlare non p ruden temen te né imprudentemente , ma par lamentarmente» ribatté Matteotti, e riprese la sua re­quisitoria intesa a chiedere l'invalidazione delle elezioni del 6 aprile. Q u a n d o ebbe finito, nel solito u ragano di grida e mi­nacce, disse, rivolto ai suoi vicini di banco: «Ho detto quel che dovevo dire, ora sta a voi p repara re la mia orazione funebre».

Qui si pone la d o m a n d a perché mai Matteotti avesse p ro ­nuncia to un discorso così scoper tamente provocatorio. Co­me dice De Felice, n o n è pensabile ch'egli sperasse di otte­ne re da quella Camera il r iconoscimento della p ropr i a inva­lidità. Evidentemente , egli si p roponeva di spezzare sul na­scere, anche a rischio della p ropr ia vita, le tendenze affiora­te nel p ropr io part i to a qualche compromesso col fascismo, r i c reando un 'a tmosfera da scontro frontale. E così dovette in tender la anche Mussolini.

Muto e immobi le , egli aveva seguito il discorso di Mat­teotti senza mai in te r romper lo , e anzi d a n d o segno di fasti­dio pe r il chiasso che facevano i suoi. Ma il volto pallido e ti­ra to denunciava il suo furore. Q u a n d o l 'avversario ebbe fi­n i to , si alzò di scatto, a t t raversò l 'aula a passi concitat i , e r ientrò a palazzo Chigi. Nell 'anticamera del suo ufficio s'im­battè in Marinelli, e lo investì: «Che fa la Ceka? . . .Che fa Du-mini? ...Se n o n foste dei vigliacchi, ne s suno avrebbe mai osato p ronunc ia re un simile discorso!»

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Questi scoppi di collera e rano in lui frequentissimi, ma si esaurivano in se stessi, come riconobbe lo stesso Cesare Ros­si nella sua testimonianza di accusa contro di lui. E tut to la­scia c redere che anche quella volta fu così. Mussolini sapeva benissimo che quella famigerata Ceka era soltanto una squa­dracela di avanzi di galera, di cui ci si poteva servire pe r bas­si servizi di bas tonature , specialmente contro i dissidenti del fascismo come Cesare Forni , che da loro e ra stato r ido t to quasi in fin di vita, ma non pe r operazioni di alta crimina­lità come quel caso avrebbe richiesto.

Comunque , quando il 7 giugno si r ipresentò alla Camera per p ronuncia re il suo discorso, Mussolini diede l'impressio­ne di aver comple t amen te d iment ica to l 'episodio. Tut t i si aspettavano da lui, come replica a quello di Matteotti, un di­scorso aggressivo e minaccioso, e invece egli ne p ronunc iò u n o es t r emamente modera to e p ieno, come oggi si dice, di «aperture», che fra l'altro conteneva questo passaggio:

«Da venti mesi a questa par te n o n c'è nulla di nuovo nel­la politica italiana da pa r t e dell 'opposizione. Se r i to rno col mio pens ie ro a tu t to quello che è avvenuto, vedo che tut te le opposizioni si sono fissate nei soliti at teggiamenti . Non ho visto che un at teggiamento più riservato da pa r te della Con­federazione Generale del Lavoro, e mi è parso un certo mo­mento che fon . Modigliani, con l'acutezza che è un suo re­quisito direi quasi congenito, in una serie di polemiche che pot rebbero chiamarsi crepuscolari perché n o n sono venute a risultati concreti, ha cercato di disimbottigliare, di disinca­gliare quella pa r te ancora possibile di socialismo da posizio­ne aprioristiche, e quindi negative. Ne r iparleremo».

Forse n o n e ra un 'offerta , ma n o n era c e r t a m e n t e u n a rot tura . C o m u n q u e , non era l 'a t teggiamento di u n o che s i d isponesse a d a r e un segui to alle minacciose pa ro le p r o ­nunziate all'indirizzo di Matteotti. Pu r t roppo , queste parole e rano state p ronunc ia t e davant i a Marinelli , il p iù zelante, ottuso e cinico collaboratore di Mussolini.

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C A P I T O L O S E T T I M O

«IL CADAVERE TRA I PIEDI»

Il 10 giugno era un sabato, e faceva un gran caldo. Matteot­ti, che abitava nei pressi di quello che è oggi il Ministero del­la Marina, uscì di casa verso le quat tro, e prese il Lungoteve­re pe r avviarsi verso Montecitorio. Non si avvide, o forse si avvide t roppo tardi, di un 'automobile in sosta sotto i platani.

Quell 'automobile era lì ferma da tanto t empo che il por­tinaio di u n a casa lì nei pressi, insospettito, ne aveva notato il n u m e r o . A bo rdo c 'erano cinque uomini : Dumini , Volpi, Viola, Poveromo, Malacria. E rano essi la famosa Ceka a cui aveva alluso Mussolini.

Q u a n d o Matteotti giunse alla loro altezza, gli ba lzarono addosso. Matteotti si difese come potè, e seguitò a dibattersi anche q u a n d o lo ebbero ficcato a forza nella macchina, che part ì a tutta velocità verso Ponte Milvio. Riuscì anche a get­tare dal finestrino la sua tessera di depu ta to nella speranza di a t t i rare l 'at tenzione dei passanti. Sembra che a un certo m o m e n t o egli tirasse un calcio così violento nei testicoli di Viola che questi accecato dall ' i ra, gli vibrò u n a pugna l a t a recidendogli la carotide.

Col m o r t o in m a n o , i c inque p e r s e r o la testa. Dumin i , ch 'e ra al volante, si mise a girovagare senza bussola pe r le s tradet te di campagna. Solo sul far della sera si fermò in un boschet to - il boschet to della Qua r t a r e l l a -, e lì decise di seppellire il cadavere. Non avendone gli attrezzi, scavarono col crickett u n a fossa profonda m e n o di mezzo met ro , ci fic­carono a forza il mor to piegato in due , r i en t ra rono a Roma, e nella no t te D u m i n i si p r e s e n t ò a Marinel l i p e r riferirgli l 'accaduto.

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Qui , i l f i lo dei fatti si p e r d e in un groviglio di tes t imo­nianze con t radd i t to r i e . N o n sapp iamo come Marinel l i ac­colse la notizia, n o n sappiamo come la r ipor tò a Mussolini, non sappiamo come questi reagì. C'è chi dice che Marinelli uscì dal colloquio p iangendo come un bambino d u r a m e n t e castigato. Ma n o n sono che voci. I fiumi d'inchiostro che so­no corsi su questo episodio e le r isultanze dei d u e processi di cui fu oggetto - sia di quello, poco attendibile, che si svol­se subito dopo , in regime fascista; sia di quello che si svolse nel '47 - n o n sono bastati a ricostruire con esattezza la mec­canica degli avvenimenti .

Torniamo a quelli accertati. La notizia della scomparsa di Matteotti fu data na tu ra lmen te la not te stessa ai suoi amici dalla moglie sgomenta . Sulla s t ampa t rape lò solo il 12, q u a n d o già la C a m e r a t u m u l t u a n t e ch iamava Mussolini a fornire spiegazioni. L'uomo, che portava sul volto i segni di u n a notte insonne, dichiarò di essere all 'oscuro di tut to e di avere già impar t i to r igorosi o rd in i di r icerca alla polizia, compresa quella di frontiera. Sapeva invece tu t to , m e n o il bosco in cui era sepolto il cadavere pe rché questo non riu­scivano più a ubicarlo n e m m e n o gli autor i del delitto; e ac­cennava alla frontiera pe r da r credi to a u n a voce che dava Matteot t i p e r espa t r ia to c l andes t inamen te . L 'opposizione accolse le sue pa ro le con gr ida e tumul t i , e il d e p u t a t o re ­pubblicano Chiesa lo accusò di voler copr i re le responsabi­lità dei criminali, r iconoscendosene in tal m o d o complice.

Probabilmente, in quel momento , egli sperava di abbuia­re la vicenda. Ma il port inaio che aveva notato il n u m e r o di targa dell 'automobile lo segnalò alla polizia che fece pres to a identificare il propr ie tar io della macchina: era Filippelli, il diret tore del Corriere italiano, il quale l'aveva prestata a Du­mini. La notizia era già sui giornali . E a questo p u n t o n o n era più possibile fermare le indagini.

La not te si r iunì il Gran Consiglio, al t e rmine del quale fu emesso un laconico comunicato in cui si diceva ch 'era sta­ta presa in esame «la situazione politica generale». Natural-

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mente si e ra discusso invece del delitto, e qui e rano esplosi tutti i contrasti, ideologici e personali , che covavano in seno al «vertice» fascista. Il pretesto era t roppo b u o n o pe r far ca­de re alcune teste, e Mussolini si accorse che le più bersaglia­te e rano quelle di Marinelli, che godeva della generale anti­patia, di Finzi pe r le illecite speculazioni che gli venivano at­tr ibuite anche dal l 'opposiz ione, e sopra t tu t to di Rossi p e r l 'ascendente che tutti gli accreditavano su di lui. Forse non fu det to esplicitamente. Ma i capri espiatori e r ano già desi­gnati.

Quasi nelle stesse ore si r iunivano i capi della opposizio­ne che, su sollecitazione di Amendola e di Turat i , decisero di d i se r ta re le sedu te della C a m e r a fin q u a n d o il gove rno non avesse chiarito le p ropr i e responsabilità. Non era anco­ra quello che poi si chiamò «l'Aventino», cioè il definitivo ri­tiro degli oppositori come gesto di condanna morale del re­gime. Ma vi preludeva.

Fu d u n q u e a un 'aula popola ta soltanto di deputa t i della sua maggioranza, anche se questa era p ro fondamente scos­sa e divisa, che Mussolini si r ip resen tò l ' indomani , 13, p iù r infrancato , e con un p iano di difesa o rma i stabilito. N o n c'era più dubbio, disse, che si trattasse di delitto. Ma i colpe­voli e rano già stati identificati, e due di essi (Dumini e Puta-to) arrestati: il che dimostrava che la Giustizia seguiva il suo corso e lo avrebbe segui to fino al comple to acce r t amen to delle responsabil i tà , quali che fossero. «Se c'è qua lcuno in quest 'aula - aggiunse - che abbia diritto più di tutti di esse­re addo lo ra to e, agg iungere i , esaspera to , sono io. Solo un mio nemico, che da l unghe notti avesse pensa to a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto, che oggi ci percuote di o r ro re e ci s t rappa grida d'indignazione.» Do­podiché, con un colpo a sorpresa cer tamente concertato con lui, il Pres idente Rocco aggiornò i lavori della Camera sine die, togliendo così ai nemici del regime il più autorevole po­dio da cui par lare .

Fu al lora che Tura t i si accorse de l l ' e r ro r e commesso .

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«Non ti dico - scrisse alla Kuliscioff - come sono pent i to del nos t ro gesto. A noi pa rve necessario. Ma il Minis tero, p iù furbo di noi , ne profit tò subito p e r l iberarsi della C a m e r a per sette mesi. E la Camera voleva dire la sola t r ibuna possi­bile, la sola trincea, il solo controllo.» E solo curioso che, p u r e ssendosene reso così bene conto , Tura t i fu poi t ra quelli che p iù insistet tero pe r d a r e a l r i t i ro un cara t te re p e r m a ­nen te e definitivo.

Liberato dalla Camera , Mussolini n o n lo era p e r ò dalla s t ampa che, t u t to ra libera, n o n gli dava t regua . I giornal i avevano r addopp ia to le loro t i ra ture , e si facevano concor­renza in sensazionalismo con titoli a tut ta pagina. L'impres­sione generale era che il regime fosse agli sgoccioli, molti fa­scisti get tavano via os tenta tamente il distintivo, e i capi del­l 'opposizione videro rifiorire in to rno a loro molte amicizie che c redevano ormai appassi te . D 'Annunzio e ra uscito dal suo silenzio p e r da re un ' intervis ta in cui parlava di «fetida ruina». Circolava la voce di imminent i dimissioni di Musso­lini, e Sforza a d d i r i t t u r a p r o p o n e v a ai suoi amici di n o n aspettare i carabinieri e di a n d a r loro a palazzo Chigi ad ar­restare l ' inquilino.

Questi sembrava distrut to. La sua ant icamera era vuota. E l 'usciere Quin to Navar ra ha raccontato nelle sue m e m o ­rie che un g iorno , n o n sen tendo più venire a lcun r u m o r e dalla stanza del Duce, ne aveva socchiuso la por ta e lo aveva visto, in ginocchio su una pol t rona, che batteva la testa con­tro il m u r o .

La polemica sui giornal i s i faceva s e m p r e p iù roven te . Quelli fascisti sostenevano la tesi del «cadavere gettato t ra i piedi di Mussolini» dai suoi nemici fuorusciti e massoni con la connivenza di alcuni traditori fascisti, e l 'allusione era di­ret ta sopra t tu t to a Cesare Rossi. La s tampa antifascista so­steneva invece che Matteott i era stato soppresso pe r impe­dirgli di fare le «rivelazioni» che aveva in serbo sugli affari che fiorivano all 'ombra del regime, e di cui aveva già conse­gnato la documentazione a Turati .

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La pr ima ipotesi cadde subito per mancanza di elementi su cui fondarla. Nella seconda forse qualcosa di vero c'era. Matteotti , che di finanze s ' intendeva, sapeva molte cose su cer te concessioni di r icerche pet rol i fere alla Sinclair Com­pany e altri casi di speculazione: vi aveva accennato anche in un articolo su un periodico inglese. Ma n o n si trattava di co­se da me t t e r e in crisi il governo , e lo d imos t ra il fatto che Turat i non produsse mai i document i di cui avrebbe avuto la copia.

U n a terza ipotesi, che d o p o la Liberazione fu r ipresa da Carlo Silvestri, e che fornisce argoment i a quella del «cada­vere gettato fra i piedi di Mussolini», è che Matteotti venne soppresso dai «falchi» del fascismo per creare un «caso» che impedisse l 'accordo con la Confederazione Generale del La­voro, a cui Mussolini non aveva smesso di pensare .

Di tutte queste conget ture , poco o nulla r imane . Oramai quasi tut t i gli storici consen tono su u n a genesi del del i t to molto più semplice, a lmeno come meccanica di svolgimen­to: quella fornita da Cesare Rossi nel suo «Memoriale». In Mussolini, disse Rossi, un fondo di criminalità c'era: lo rico­nosceva anche suo fratello Arnaldo. Ed era stato questo fon­do a ispirargli, d o p o la requisitoria di Matteotti alla Came­ra, la famosa e fatale invocazione alla Ceka. Quella frase ba­sta ad attr ibuire a Mussolini la responsabilità morale del de­litto. Ma n o n si era t radot ta in un esplicito manda to . Musso­lini e ra un politico t r o p p o accorto pe r n o n capire le conse­guenze di un simile assassinio, e che ne venisse colto di con­t ropiede lo dimostra lo stesso smarr imento con cui vi reagì.

A t r adu r r e il suo scoppio di furore in un ord ine di casti­go fu Marinelli , e il gesto somiglia d ' a l t ronde al pe rsonag­gio: un Himmle r in sedicesimo, ottuso burocra te della vio­lenza e carrierista ambizioso, assolutamente privo di qualità sia politiche che u m a n e . La Ceka era sua, la considerava una specie di milizia personale , e solo da lui d ipendeva. La sera del Gran Consiglio egli aveva det to a Rossi e a Finzi che l'or­d ine di me t te r l a in m o t o gli e ra venu to da Mussolini . Ma

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Rossi n o n ci aveva creduto , e i fatti gli h a n n o dato ragione. Vent 'anni dopo , condanna to a mor t e dal Tribunale di Vero­na insieme agli altri «traditori» del 25 luglio, Marinelli con­fidò a Pareschi e a Cianetti, suoi compagni di pr igione, che l 'ordine l'aveva dato lui, convinto di esaudire i desideri del Duce. Resta solo da sapere se l 'o rd ine fu di ucc idere Mat­teotti, o di «dargli una lezione» com'era nello stile squadri­sta. Na tura lmente gli esecutori sostennero sempre che ucci­d e r e n o n volevano, e che la vittima gli mor ì in m a n o . Alla loro parola na tura lmente non si p u ò credere . Ma il m o d o in cui si svolsero le cose dimostra ch'essi avevano agito da per­sone a t terr i te dal loro p r o p r i o misfatto e che n o n avevano nulla predisposto n e m m e n o per occultare i l cadavere.

Ma il cadavere c'era, e con esso o rmai Mussolini doveva fare i conti. Il 14 g iugno i Ministri «moderati» del suo go­verno - Gentile, Federzoni, Oviglio e De Stefani - gli mette­vano a disposizione i loro portafogli pe r dargli m o d o - scris­sero nella loro let tera di dimissioni - di formare un nuovo Ministero che favorisse la «conciliazione nazionale». Musso­lini ignorò la lettera, ma comprese che qualche soddisfazio­ne doveva dar la , e si decise al sacrificio di d u e de i capr i espiatori già designati: Rossi e Finzi. Ch iedendo le loro di­missioni, ad ent rambi disse che si trattava di «una necessità tattica del momento» . Essi accet tarono di dar le , ma subito dopo si accorsero di essere sotto sorveglianza della polizia. Nascosto in casa di un amico, Rossi m a n d ò a Mussolini u n a lettera ricattatoria in cui lo minacciava di rivelare i retrosce­na di tutte le violenze, nelle quali lo stesso Mussolini e ra im­plicato come m a n d a n t e . Anche Finzi si mise a s t endere un memoria le , d i cui d iede le t tura anche ad alcuni esponent i de l l 'oppos iz ione . Ma Mussolini riuscì a p lacar lo in un se­condo colloquio. La terza vittima fu De Bono, l iquidato co­me capo della polizia pe r scarsa efficienza e sostituito con un funzionario di carr iera che desse il senso della «norma­lizzazione». Infine venne arrestato Marinelli pe r i suoi rico­nosciuti r appor t i con la Ceka.

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La posizione di Mussolini r imaneva precaria. Ma egli ca­piva che i pericoli non gli venivano dall 'opposizione, specie ora che si e ra ritirata definitivamente sull 'Aventino, e nem­m e n o dalla piazza che, tu t to sommato , era r imasta quieta: gli stessi comunist i r iconoscevano che a un moto rivoluzio­nar io n o n c'era n e m m e n o da pensare . I qua t t ro quint i de­gl ' i taliani e r a n o in quel m o m e n t o schierati con t ro i l fasci­smo. Ma aspe t t avano che qua l cuno venisse a l iberarl i . E questo qualcuno non poteva essere che il Re.

Nel m o m e n t o in cui era scoppiato l'affare Matteotti, il Re era in viaggio in Spagna e in Inghi l terra . Rientrò il 16, e fu c e r t a m e n t e con t r ep idaz ione che l ' i ndoman i Mussolini s i recò al Quirinale. Sapeva benissimo che, se il Re si fosse dis­sociato da lui, era finita. E lo sapevano anche i suoi avversa­ri, che infatti incontro al Re avevano manda to il Conte Cam-pello. Questi salì sul t r eno reale a Livorno, e pe r il resto del viaggio fino alla Capitale fece al Re il quad ro più ne ro della s i tuazione. Il Re, come al solito, ascoltò. E, come al solito, tacque . Forse p e r c h é n o n aveva ancora deciso l 'at teggia­men to da p r e n d e r e . O forse perché lo aveva già deciso.

N o n d iversamente dovet te compor ta r s i l ' i ndomani con Mussolini, q u a n d o questi a n d ò a riferirgli. Si va pe r indu­zioni p e r c h é del colloquio manca un resoconto . Mussolini non c'era andato a mani vuote. Nella cartella portava il de­creto di nomina di Federzoni a Ministro del l ' In terno, scelta cer tamente gradita al Re e che rappresentava u n a garanzia di d is tens ione. I l Re firmò i l dec re to , n o n p rese impegn i , ma n o n diede n e m m e n o segno di voler p r e n d e r e iniziative. Come poi ha det to suo figlio, si e ra già formato la convin­zione che Mussolini fosse del tut to estraneo al delitto.

Abbastanza rassicurato sulle intenzioni del Re, Mussolini si p resen tò in Senato il 24 pe r quella che, come scrisse nei suoi a p p u n t i , egli cons iderava «una bat tagl ia pericolosa». Qui gli oppositori n o n e rano andat i sull 'Aventino. Erano in aula, e p a r l a r o n o p e r bocca di Albertini , Sforza e Abbiate. Mussolini fu pacato e rassicurante. Disse che le indagini sul

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delitto sarebbero cont inuate fino all 'accertamento di tutte le responsabilità «alte o basse» che fossero, che la Giustizia sa­rebbe stata inflessibile nel castigo e che l 'obbiettivo del go­ve rno restava quel lo di s empre : «la normal i t à politica e la pacificazione nazionale».

Ment re il dibattito era tut tora in corso l'Osservatore Roma­no fece udi re la parola della Chiesa: era assurdo p re t ende re che il fascismo si suicidasse e sparisse. E n o n m e n o assurdo e ra p e n s a r e che ques to potesse avvenire senza p rovoca re nel Paese spaccature e dilacerazioni. «Non si apr i rebbe for­se il solito salto nel buio? - concludeva il giornale -. Queste inquietanti d o m a n d e sono nella men te e sul labbro dei più.»

Fu questa p a u r a del «salto nel buio» che alla fine preval­se nell 'aula e ne de t e rminò il voto: 225 favorevoli, 21 con­trari e 6 astenuti . «Voto important iss imo - scrisse Mussolini nei suoi a p p u n t i - , oserei dire decisivo. I l Senato in un 'o ra difficile, nel p ieno della tempesta politica e morale , si schie­rava quasi u n a n i m e col Governo . Ciò serviva da indicazio­ne alla Corona.» Era vero. Ma quel voto n o n era affatto fa­scista, come poi fu cons ide ra to . Le rag ion i di esso e r a n o spiegate in un ' in tervis ta di Benede t to Croce che e ra stato tra i favorevoli: ed e r ano le ragioni di un modera t i smo che tu t to ra vedeva in Mussolini un r e s t a u r a t o r e de l l ' o rd ine e pensava, sostenendolo, di sottrarlo alle spinte eversive del­l 'estremismo fascista - al quale faceva risalire il delitto -, fa­cendo di lui lo s t rumen to di u n a res taurazione liberal-con-servatrice.

Non si t rat tava di farneticazioni pe rché , come i fatti di­mos t r a rono , lo stesso Mussolini voleva marc ia re su questa s t rada . For te del successo r ipo r t a to in Senato , il 1° luglio procedet te a un r impasto del governo, da cui uscirono Gen­tile, Carnazza e Corbino pe r fare posto a Casati, Sarrocchi, Nava e Lanza di Scalea. E rano qua t t ro nomi rassicuranti: i p r imi d u e liberali sa landr ini , Nava un ex -popo la re legato da stretta amicizia al Papa, Lanza un nazionalista graditissi­mo al Re. E fra i nuovi sottosegretari figurava, agl ' In terni ,

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Dino Grandi , fascista con tutti i crismi, ma anche garanzia di moderazione.

Forse su questa strada normalizzatrice Mussolini avrebbe marc ia to a un passo ancora più r a p i d o e r isoluto , se n o n avesse dovuto fare i conti coi suoi. Provocato dal l 'ondata di sdegno che il delitto seguitava a suscitare e dalle diserzioni che ne e rano seguite, il vecchio squadrismo aveva rialzato la testa. Nostalgici di una «rivoluzione» di cui si sentivano de­fraudat i , sop ra t tu t to gli emil iani e i toscani r ec l amavano u n a «seconda ondata» che rompesse gli ormeggi con la vec­chia Italia liberale e democratica, ne spazzasse i resti e, libe­ra da compromess i , a t tuasse le istanze del fascismo più es t remo, compresa quella repubbl icana . A Firenze, il 9 lu­glio, migliaia di ve te ran i del mangane l l o sfilarono p e r le s t rade lanciando abbasso a Mussolini ed evviva a Farinacci, considerato l ' interprete più qualificato di questo stato d'ani­mo.

Fu b u o n pe r Mussolini che Farinacci non ne approfittas­se. Farinacci n o n aveva mancato di far rilevare sul suo gior­nale quan ta ragione egli avesse avuto di oppors i alla «solu­zione costituzionale» scelta da Mussolini al t empo della Mar­cia su Roma accettando l 'investitura dalle mani del Re e dal voto del Par lamento invece che dalle «baionette delle cami­cie nere». Ma p u r pungolandolo a r i p r ende re l'iniziativa ri­voluzionaria e ad agire in conseguenza, n o n prese posizione cont ro Mussolini e gli r imase sostanzialmente fedele. Altri p e r ò assunsero a t t egg iament i di ape r t a diss idenza, e fra questi ci fu Malapar te che sul suo per iodico Conquista dello Stato si fece il portavoce dello squadrismo più intransigente. Forse sperava, cavalcandone la tigre, di capeggiare un mo­vimento politico, ma poi si conten tò di t r amuta r lo in lette­rario. Il suo appello alle «sane forze» della provincia, le uni­che in g rado di r igenerare con la loro violenza la vita italia­na, purificandola da calcoli e compromessi , diventò il mani­festo di Strapaese che , grazie a d u e u o m i n i migliori di lui, Longanesi e Maccari, difese la cul tura e il gusto di u n a certa

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Italia t radizionale cont ro le pacchianer ie del t r ionfante fa­scismo «littorio».

Stretto e incalzato fra le d u e opposte esigenze di rassicu­r a r e da u n a p a r t e l 'Italia m o d e r a t a del Re, del l 'Eserci to e del Senato, e dall 'altra di tenere in briglia il par t i to che, re­c lamando la «seconda ondata», rischiava di sfuggirgli di ma­no , Mussolini t enne il solito a t teggiamento oscillante. Il 22 luglio, in Gran Consiglio, egli si dichiarò p r o n t o anche alla violenza, se fosse stata necessaria . Disse che n o n avrebbe consentito a nessuno di fare «il processo al regime» che ap­par teneva solo alla Storia. Garantì che «la Milizia n o n si toc­ca», e d iede soddisfazione a Farinacci consentendogl i di as­sumere la difesa di Dumini . Aggiunse pe rò che anche la ri­voluzione r ichiede i suoi s t ra tagemmi e furberie: chiedeva perciò comprens ione e aiuto.

Ma il 16 agosto venne il colpo di scena che mise a r epen­taglio la sua dopp ia manovra . Il caso volle che un guardia-caccia passasse col suo cane nel bosco della Quar ta re l la . Il cane p u n t ò il naso p e r t e r r a e cominciò a scavare furiosa­m e n t e . Aff iorarono de i rest i u m a n i : e r a n o quell i d i Mat­teotti.

Nessuno aveva mai dubitato che il depu ta to socialista fos­se stato ucciso, e la macab ra scoper ta n o n rivelava qu ind i n ien te di n u o v o , ma ri lanciò l 'onda ta de l l ' ind ignaz ione e del l 'orrore . Ancora abbastanza liberi, i giornali dell 'opposi­zione d iedero fondo al reper tor io sensazionalistico, aggiun­g e n d o anche particolari di fantasia sulle sevizie cui la vitti­ma sarebbe stata sottoposta. Quelli fascisti rep l icarono con veemenza appe l l andos i alle s q u a d r e , ci fu rono tafferugli con mort i e feriti, e il difficile equilibrio che Mussolini aveva trovato fra gli oppost i estremismi si r u p p e . Per r i p r e n d e r e in m a n o la si tuazione, egli scese n u o v a m e n t e in piazza te­n e n d o comizi in var ie città e a l t e r n a n d o come al solito le p romesse alle minacce . Pa r l ando a i m ina to r i del Mon te Amiata disse: «Il giorno in cui i nostri nemici uscissero dalla vociferazione molesta p e r a n d a r e alle cose concre te , quel

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giorno noi di costoro f a remmo le s t rame pe r gli accampa­ment i delle camicie nere».

Rimbalzata a Roma, la frase p rovocò fra i l iberali fian­cheggiatori un serio al larme che indusse Sarrocchi e gasati a p resen ta re le dimissioni. Mussolini riuscì a fargliele ritira­re , ma un altro colpo al l 'opera di distensione lo inferse un esaltato dell'antifascismo uccidendo a revolverate il deputa­to fascista A r m a n d o Casalini che fra l 'altro era dei più mo­dera t i . La reaz ione fascista fu violenta, r i cominc ia rono le bas tonature e gli assalti specialmente alle logge massoniche. E sempre più difficile si fece pe r Mussolini il compito di te­ne re uni ta u n a maggioranza, la cui componen te liberal-con-servatrice si scollava sempre di più da quella fascista.

Ques to processo sembrava o rmai irreversibile. Gl ' indu­striali, che p r e n d e v a n o il la da Albert ini e dal suo Corriere della Sera, p resen ta rono al governo un documen to in cui lo s'invitava a r iprist inare tutte le libertà statutarie e in pratica a sciogliere la Milizia. Nel loro congresso di Livorno i libe­rali affermarono la loro «piena ind ipendenza nell'esercizio del m a n d a t o par lamentare» , cioè i l dirit to dei loro r a p p r e ­sentant i eletti nel «listone» a ritirarsi dalla maggioranza . E le potent i associazioni dei combattenti e dei mutilati, che già nei loro congressi dell 'estate avevano preso le distanze dal governo, annunz ia rono che n o n avrebbero partecipato alle manifestazioni del 28 o t tobre , secondo anniversa r io della Marcia su Roma . Ques t a scadenza, come quella del 4 no ­vembre, diventò pe r Mussolini un incubo. Tutte le forze fa­sciste vennero mobilitate pe r r iempire le piazze. Ma le piaz­ze fu rono r i empi t e solo da esse, d a n d o così alla pubbl ica opinione il senso e la misura del loro isolamento.

N e m m e n o questo tut tavia riuscì a schiodare l 'Aventino dalla sua inconcludenza . Salvo la «questione morale» sulla quale si e rano trovati tutti d 'accordo, ma che impediva loro di t o rna re alla Camera , unico t e r r eno sul quale avrebbero po tu to svolgere una proficua azione di lotta, i suoi esponen­ti n o n riuscivano a trovare pun t i d'intesa tra loro. Un accor-

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do tattico fra socialisti e popolar i e ra violentemente conte­stato sia dai massimalisti che dalla Chiesa. Turati ne era sco­rato («Non si conclude nulla» aveva scritto alla Kuliscioff), e lo stesso Amendola, ispiratore e anima della secessione, fer­missimo sul p iano morale , su quello politico si mostrava ten­t ennan te e irresoluto. Alla fine di luglio egli aveva ricevuto da Filippelli un m e m o r i a l e di difesa che e ra di accusa a Mussolini, e un d o c u m e n t o , ancora p iù impor t an te pe r le sue rivelazioni, gli e ra pe rvenu to ai pr imi di agosto: il me­moriale di Cesare Rossi, che aveva dato seguito alla sua mi­naccia. Se fosse rimasto alla Camera , Amendola avrebbe po­tuto por tar lo in discussione. Fuori, non gli restava che farne ma te r i a di u n a c a m p a g n a di s tampa , ma tu t to ra esitava a servirsene.

Constatata la p ropr ia impotenza, alcuni aventiniani pen­sarono di r ivolgersi al solito D 'Annunz io . Ma il Poeta n o n ne volle sapere a d d u c e n d o i suoi anni , le condizioni di salu­te, e i doveri che - disse - gli restavano da assolvere verso la Poesia. Forse pe rò la chiave del suo rifiuto sta in una ricevu­ta di 5 mil ioni e 200 mila lire (una cifra colossale, a quei tempi) fatte pagare da Mussolini al Poeta p e r l'acquisto dei suoi manoscritt i .

Così si giunse alla r iaper tura della Camera , il 12 novem­bre . Stavolta l 'opposizione c'era: la pattuglia dei comunisti che, stanchi delle chiacchiere dell 'Aventino, avevano deciso di r i p r e n d e r e il loro posto in aula. Il discorso di Mussolini fu l u n g o e, come s e m p r e avveniva q u a n d o lo allungava, scialbo. La par t i ta del resto n o n si giuocava lì. Si giuocava nei corridoi , e tutti gli occhi in quel m o m e n t o erano rivolti - come s e m p r e nelle emergenze pa r l amen ta r i - a Giolitti, che n o n era in tervenuto alla p r ima seduta pe r non deroga­re alla p ropr ia tattica attendista. Giolitti n o n aveva fin allora scoperto le sue carte , ma aveva vivamente deplora to la se­cessione dell 'Aventino, c o m m e n t a n d o ironicamente: «Que­sto Mussolini ha tutte le fortune. A me l'opposizione non ha mai da to t r egua . A lui lascia l ibero il campo». Da allora si

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era tenuto sulle sue. Ma un suo incontro con Or lando bastò ad accendere le fantasie. La Kuliscioff scrisse a Turat i che bisognava favorire l'alleanza fra i d u e che avrebbe dato co­raggio al Re pe r intervenire. Poi si cominciò a dire che ai tre si sarebbe uni to anche Salandra: il che avrebbe definitiva­mente tolto a Mussolini la maggioranza.

Ma di tu t to ques to al p r i m o voto - quel lo sulla politica estera - non si vide nulla. Il bilancio passò con 315 voti fa­vorevoli, 6 contrar i e 26 astenuti. Fra i contrar i ci fu Giolitti, fra gli as tenut i O r l a n d o . Seguì la discussione sul bi lancio de l l ' In terno , molto più spinosa pe rché r iguardava l 'ordine pubblico. Mussolini stavolta fu più incisivo, ma il voto andò peggio: i cont rar i salirono a 17 e - cosa più grave - Salan­dra, p u r dichiarandosi favorevole, fece un intervento molto critico, che indicava la volontà di p r e n d e r e le distanze.

A questo p u n t o Amendola si scosse e consegnò i d u e me­moriali a Bonomi pe r ché li por tasse in visione al Re. Il Re r ingraz iò p e r la fiducia, consul tò i documen t i , e li resti tuì dicendo che i mittenti avevano sbagliato indirizzo. Non do­vevano mandar l i a lui, ma portar l i alla Camera e sollecitare su di essi un dibattito che solo in quella sede poteva condur­re a qualche risultato. C'è chi dice ch'egli aveva ormai deci­so di sostenere fino in fondo Mussolini legando così, irrevo­cabi lmente , le sorti della Monarch ia a quel le del r eg ime . Questo somiglia poco al personaggio, pe r sua na tu ra cauto e possibilista. Ma è probabile che un fondo di vero ci sia nel senso ch'egli non si fidava comple tamente di Mussolini, ma si fidava ancora meno dei suoi avversari ed era convinto che costoro, se avessero r ipreso il mestolo in m a n o , avrebbero r icreato il caos del dopogue r r a . C o m u n q u e , a una cosa era assolutamente deciso: a non farsi coinvolgere nella lotta po­litica, come del resto gli dettava la Costituzione di cui, quan­do gli faceva comodo , sapeva r icordars i . «Io sono so rdo e cieco - r ipeteva a ch iunque gli sollecitava un intervento: - i miei occhi e i miei orecchi sono la Camera e il Senato.»

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C A P I T O L O O T T A V O

IL 3 G E N N A I O

Il Senato si r iunì il 3 dicembre, in un'atmosfera che n o n la­sciava presagire nulla di buono . I suoi umor i li aveva lascia­ti t rapelare pochi giorni pr ima negando la convalida di otto nuovi m e m b r i p ropos t i dal gove rno . Per di p iù i mili tari , che in Senato avevano u n a notevole e au torevo le r a p p r e ­sentanza, e rano in subbuglio contro un proget to di riforma, e laborato dal Ministro della G u e r r a , Genera le Di Giorgio, che prevedeva una r iduzione di effettivi. Il fatto che Musso­lini lo avesse avallato dimostra che di cose militari non capi­va nulla: al tr imenti si sarebbe accorto che quel proget to , in sé saggio, era destinato a provocare il malcontento degli alti gradi dei quali invece in quel m o m e n t o egli aveva particola­re bisogno.

Il p r imo a par lare fu Albertini, che p ronunc iò un discor­so di net ta e drastica opposizione: ma il suo a t teggiamento e r a scontato. A da re il segno delle incertezze che regnavano in Sena to fu l ' in tervento di Et tore Cont i , u n a delle figure più prestigiose del m o n d o imprendi tor ia le . Egli r iconobbe le benemerenze del governo, ma contestò al fascismo la pre­tesa d ' i n q u a d r a r e tut te le masse fasciste nei suoi sindacati ad esclusione degli altri, cioè di quelli socialisti e cattolici, e concluse ch iedendos i se il fascismo n o n avesse esaur i to la sua funzione r ipr is t inando le condizioni necessarie all'eser­cizio della libertà.

A questo discorso, che fece molta impressione perché di­mostrava la volontà della g r a n d e indus t r ia di p r e n d e r e le distanze dal reg ime, segui rono quelli dei Genera l i Giardi­no, Zuppelli e Tassoni che n o n si l imitarono alla critica del

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proge t to Di Giorgio, e a t taccarono a p e r t a m e n t e la Milizia. Le loro parole furono prese pe r una campana a mor to , per­ché nessuno dubi tò che fossero state concorda te col Re: e tut t i ne v idero la confe rma nel fatto che i l Ministro della Real Casa, Mattioli Pasqualini, abbandonò l'aula p r ima del voto, e il Generale Brusati, ex-aiutante di campo di Vittorio Emanuele , votò contro.

Mussolini ebbe il senso del per icolo e lo d imos t rò nella sua replica cercando a sua volta di spaventare i Senatori . Al fascismo, disse, non c 'erano che d u e alternative: o il comu­nismo, a cui ormai l 'opposizione aveva spianato la strada fa­cendo di esso la sua forza-guida, o un governo militare, che è s e m p r e un r imed io t e m p o r a n e o «Potrà d u r a r e - disse -pe r sei, pe r dodici mesi. Ma d o p o le passioni r iesplodereb­bero, e sa remmo daccapo.»

Queste parole o t tennero il loro effetto. Alla votazione, ci furono 206 sì, 54 N O , e 35 astenuti . Ma, pe r quan to ancora abbastanza larga, questa vittoria lo era m e n o di quella otte­nu ta in g iugno, q u a n d o i cont rar i e r ano stati 21 e gli aste­nuti 6. Lo sfaldamento della maggioranza r idiede animo al­l 'opposizione nella stessa misura in cui lo toglieva all'ala mo­de ra t a del fascismo. Raffaele Paolucci, che al prest igio del g r a n d e chirurgo univa quello della medaglia d 'oro conqui­stata in guerra , r iunì il 20 dicembre a casa sua u n a quaran­tina di deputa t i fascisti pe r impegnar l i ad esercitare su Mus­solini u n a press ione che lo inducesse a farla finita con l'e­stremismo squadrista, ad anda re in fondo all'affare Matteot­ti co lpendo senza r iguardi chi era da colpire, a r iprist inare la legalità in tutto il suo r igore, e a varare u n a riforma elet­torale che sancisse il r i torno al collegio uninominale .

Non fu una congiura. L'indomani Paolucci andò da Mus­solini pe r informarlo delle decisioni prese in quel lungo con­ciliabolo, ma qui - egli ha racconta to nelle sue m e m o r i e -«mi trovai di fronte ad un magistrale colpo di scena: Musso­lini depositava al banco della Presidenza il proget to di legge che ripristinava il collegio uninominale».

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Qui De Felice ha rilevato, nei r icordi di Paolucci, un er­ro re di da te in q u a n t o il colpo a sorpresa di Mussolini av­venne il 20, n o n il 2 1 . Ma il part icolare ci sembra di scarsa importanza. Ciò che interessa sapere è come e perché Mus­solini si fosse infilata, t ra le car te del giuoco, quel la della r iforma elettorale, e a cosa mirasse get tandola sul tavolo in quel momen to .

La morsa in cui egli si trovava si faceva sempre più stret­ta. L'indomani stesso del voto in Senato, il 6 dicembre, il di­re t tore del giornale del part i to popolare - Il popolo -, Dona­ti, aveva presen ta to denunc ia cont ro De Bono pe r compli­cità, quale capo della polizia, nel delitto Matteotti. Secondo Salvemini, era stato lo stesso Mussolini a costringervelo, fa­cendo t rafugare e pubbl icare alcuni scampoli del l ' incarta­m e n t o , pe r d u e motivi: p r ima d i tu t to pe r ché la denunc ia bloccava il p roced imento giudiziario già in corso pe r l'assas­sinio, eppoi pe rché rinfocolava i contrasti t ra gli aventinia­ni, molti dei quali disapprovavano l'iniziativa di Donati, che in realtà n o n portava all'accusa elementi nuovi, anzi la infi­ciava con dati piuttosto discutibili. Quella di Salvemini è sol­tanto un'ipotesi. Ma non è un'ipotesi che i fascisti si sentisse­ro s e m p r e p iù minacciati e s e m p r e m e n o pro te t t i dal loro t en tennan te capo. Dieci giorni dopo , un g r u p p o di opposi­tori chiese alla Camera l 'autorizzazione a procedere , cioè la consegna alla Giustizia ord inar ia dell 'on. Giunta, che della Camera era vicepresidente, pe r aggressioni e violenze. Fari­nacci e Bianchi insorsero, ma Mussolini li r ichiamò secca­mente al l 'ordine ing iungendo a Giunta, che aveva già dato le dimissioni, di mantener le e di mettersi a disposizione del Magistrato.

Ma ad e sa spe ra re anco ra di p iù i l vecchio squadr i smo erano le voci, che si facevano sempre più insistenti, di un se­gre to accordo fra Mussolini e i liberali p e r la cessione dei suoi poter i a Salandra in cambio di un'amnistia, che avreb-be costituito u n a sanatoria pe r tutti i fascisti che si sentivano in qualche m o d o compromessi , r imandandol i a casa. Non si

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è mai saputo con esattezza cosa ci fosse di vero in questa sto­ria, di cui si parlava anche nei giornali. Ma a render la veri­simile e r a n o gli a t t egg iament i di Mussolini che a n c h e in Gran Consiglio, pa r e , u n a volta aveva accennato alla possi­bilità di cedere il passo a un governo non Salandra, ma Or­lando.

Ri teniamo di po te r escludere che Mussolini avesse real­men te intenzione di abbandona re la parti ta. Ma n o n esclu­d iamo affatto che, p e r seguitare a giuocarla, egli abbia an­che negozia to o finto di negoz ia re coi capi l iberali della maggioranza, in modo da tenerli ancora legati a sé per gua­d a g n a r e t empo . Scr ivendone alla Kuliscioff, Turat i le dava pe r sicura u n a trat tat iva pe r la formazione d i un gove rno Salandra con l 'appoggio di Giolitti e di Or l ando , e aggiun­geva che il Re sotto sotto la favoriva. Quest 'u l t imo particola­re era cer tamente di fantasia, ma n o n c'è dubbio che la mag­gioranza su cui il governo si reggeva mostrava chiari segni di frana.

Tut to ciò Mussolini doveva averlo previsto da t e m p o , o a lmeno messo nel novero delle possibilità: solo così si spiega il fatto che già d u e mesi p r ima egli avesse pensato alla rifor­ma elettorale, e ne avesse affidato il p roget to a Federzoni e a G r a n d i , cioè a d u e m o d e r a t i in g r a d o d ' i n t e r p r e t a r e al meglio gli scopi a cui doveva servire. Probabi lmente voleva sol tanto p r e m u n i r s i . Ma q u a n d o seppe della iniziativa d i Paolucci - e lo seppe cer tamente p r ima che questi venisse a par la rg l iene - , capì che n o n c 'era p iù t e m p o da p e r d e r e . Dietro Paolucci c'era Campello. E se anche dietro Campello n o n c'era il Re, i fascisti modera t i po tevano pensa re che ci fosse e che quindi convenisse abbandonare ormai al suo de­stino un governo ormai t roppo compromesso con l 'estremi­smo e coi suoi delitti.

Fu allora che Mussolini tirò fuori il suo colpo a sorpresa. E che tutti ne fossero presi di contropiede, lo testimonia Sa­landra: «Cessata la p r ima impressione di sbalordimento, fu chiaro lo scopo della mossa di Mussolini: a t terr i re le opposi-

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zioni, ma soprat tut to sgominare i nuclei della maggioranza che d imos t ravano velleità d ' ind ipendenza . Si deve r icono­scere che Mussolini vi riuscì mirabilmente». Il r ipristino del collegio uninominale colpiva infatti al cuore i partiti di mas­sa socialisti e popolari che dal sistema proporzionale traeva­no i magg io r i vantaggi , r ivalutava i «notabili» liberali che potevano contare sul maggior seguito personale , e metteva i fascisti alla mercé di Mussolini che poteva includerli o scar­tarli dalla lista dei candidati .

Lo sconcerto fu enorme . Il Corriere della Sera, che fin allo­ra aveva t e n u t o l ' a t t egg iamento p iù r i so lu t amen te ostile, scrisse: «Corre l'obbligo di dire che, dopo aver escogitato le r iforme più strampalate e reazionarie, consapevole o incon­sapevole, il Ministero viene alla fine avanti con u n a p r o p o ­sta che si p u ò ones tamente ch iamare ricostruttrice». Era la voce di tut ta la pubblica opin ione modera ta , da Salandra a Giolitti, che vedeva nella iniziativa la p r o p r i a rivincita. La s tampa fascista si divise. Gli estremisti r imasero estremisti , ma si accorsero di essere sempre più soli, pe rché quella che si chiamava «la palude», cioè il fascismo legalitario, il fasci­smo dei «padri di famiglia», ch 'era sempre numer i camen te il più forte, si allineò subito, un po ' per le sue convinzioni li­beraleggianti , un po ' pe r garantirsi un «posto».

L'opposizione violenta venne , com'era logico, dall 'Aven­tino. Esso ora poteva valutare l ' e r rore commesso abbando­n a n d o la sede pa r l amenta re . E pe r r o m p e r e il p r o p r i o iso­lamento , decise la «sortita», r i cor rendo finalmente ai docu­ment i che aveva in mano p e r incr iminare Mussolini. Dopo l'inutile presentazione al Re, Salandra dice che il memoria le Rossi venne offerto al Card ina le Gaspar r i pe rché se ne fa­cesse il bandi tore avallandolo con la sua autorità; se questo fosse vero, b i sognerebbe d e d u r n e che i capi dell 'antifasci­smo avevano poco cervello o lo avevano perso. Nessuno co­m u n q u e volle p r e n d e r e in m a n o la patata bollente. Non re­stava che la pubblicazione.

Il 27 d icembre Mondo di Amendo la pubblicava la pr i -

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ma pun ta ta del memoria le Rossi. Le rivelazioni e rano gravi soprat tut to in quanto por tavano la firma della persona me­glio qualificata a farle, ma l ' impressione che suscitarono era attutita dalla mancanza della sorpresa: il con tenuto di quel memoria le era già in gran par te noto, l 'Aventino l'aveva la­sciato pe r t roppo t empo nei suoi cassetti. Tuttavia delle rea­zioni ci furono in seno allo stesso governo. Al Consiglio dei Ministri del 30 d icembre Casati e Sarrocchi sostennero che il governo doveva dare le dimissioni e mettersi a disposizio­ne della Giustizia. Erano convinti di avere l 'appoggio di Fe­derzoni , che si era impegnato a darglielo. Ma q u a n d o Casa­ti disse che p ropr io a Federzoni toccava p r e n d e r e la succes­sione di Mussolini, Federzoni si dissociò. Stando al diario di Salandra, che cer tamente aveva suggerito la mossa di Casati e Sarrocchi, o a lmeno l'aveva approvata , Mussolini rispose minacciando di scatenare le squadre . Sebbene ne manchi il verbale, la seduta fu tempestosa e rischiò di concludersi con u n a crisi di governo che avrebbe aper to la strada a qualsiasi avven tu ra . Ma p r o b a b i l m e n t e fu p r o p r i o pe r evi tare l'av­ven tu ra che i d u e militari, Di Giorgio e T h a o n di Revel, si schierarono a favore di Mussolini.

Evitate per un pelo le dimissioni, la sorte del governo re­stava tuttavia appesa a un fi lo. Avver tendo che la maggio­ranza si sfaldava, le squadre si ricostituivano pe r conto pro­p r io d a n d o n u o v a m e n t e m a n o a l mangane l lo , s f idando i Prefett i e i Ques to r i di Federzoni e r i sch iando di me t t e r e Mussolini nelle condizioni di Facta. I loro giornali lo diceva­no espl ic i tamente facendo bersagl io dei loro at tacchi n o n l 'opposizione, ma il fascismo modera to e i suoi Ministri, spe­cialmente Federzoni, De Stefani e Oviglio. I più violenti era­no LImpero di Carli e Settimelli , la Conquista dello Stato di Curz io Sucker t (più ta rd i Malapar te ) , che add i r i t t u r a mi­nacciava un «fascismo con t ro Mussolini». Ques to int ransi-gent ismo non aveva un capo pe rché né Farinacci né Balbo vollero esserlo, ma ciò lo rendeva anche più pericoloso per­ché lo lasciava alla mercé di iniziative irresponsabili . Dieci-

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mila squadristi armat i di tutto p u n t o convergevano da tutte le città toscane su Firenze, decisi a farne la loro Vandea. Era ch iaro che, a n c h e se Mussolini avesse cedu to , i l fascismo non avrebbe disarmato.

Di cedere , Mussolini n o n aveva nessuna intenzione. Ma non aveva n e m m e n o quella di a t tuare un colpo di forza, co­me d imos t r ano gli sforzi che faceva, o che lasciava fare da Federzoni pe r riaffermare l 'ordine pubblico cont ro i disor­dini delle squadre . Non c'è un solo documento né u n a sola test imonianza da cui si possa d e d u r r e ch'egli pensava a un colpo di Stato. L'uomo non amava i rischi, li aveva affronta­ti di r ado e solo q u a n d o aveva poco da pe rde re . Ora ch 'era in giuoco la cosa a cui p iù teneva, il po t e r e , e ra d iventa to ancora più cauto. Sapeva benissimo che un colpo di forza, se n o n fosse r iuscito, lo avrebbe messo alle p re se col Re e l'Esercito, le sole forze che gli facevano veramente paura ; e, se fosse r iuscito, lo avrebbe lasciato alla mercé dello squa­drismo, che non era mai riuscito a domare . Aveva ancora la speranza di cavarsela con u n a di quelle «combinazioni» par­lamentari , delle quali e ra maestro.

A met te r lo con le spalle al m u r o furono i Consoli della Milizia. Guidat i da Galbiati e Tarabella, u n a qua ran t ina di loro si recarono il 31 dicembre a palazzo Chigi con la scusa di fare a Mussolini gli augur i pe r il nuovo anno . Su questo incontro forse si è un po ' romanzato . Qualcuno ha det to che i Consoli pene t r a rono quasi di forza nell'ufficio di Mussolini e si disposero in torno a lui, la mano sul pugna le come p ron­ti a sgua inar lo . Ques to a p p a r t i e n e forse al m e l o d r a m m a . Ma lo scontro fu du ro . Con la consueta risolutezza, Tarabel­la pose Yaut aut: o Mussolini affrontava di petto la situazione a s s u m e n d o n e la responsabi l i tà , o questa responsabi l i tà se l 'assumevano i Consoli consegnandosi spon taneamente alla Giustizia e l iberando da ogni vincolo di disciplina le squa­dre .

Spaurito e disfatto, Mussolini tentò di tergiversare, ma Ta­rabella fu perentor io . I fascisti avevano capito, disse, ch'egli

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stava pe r sacrificare par t i to e Milizia, ma pe r impedirglielo e rano pron t i anche a disfarsi di lui, e Mussolini dovette ce­d e r e , i m p e g n a n d o s i a m e t t e r e a tacere l 'opposiz ione. Ma n o n ne era molto convinto, e i suoi interlocutori se n'accor­sero. Poche ore d o p o essi si r i un i rono con altri «camerati» in casa di un certo Vizzoni. Era presente anche Raoul Paler­mi, capo della massoneria. Da un r a p p o r t o della polizia ri­sulta che fu avanzata anche l'ipotesi di «far fuori» Mussolini «con due colpi di rivoltella».

Del gesto di forza dei Consoli non fu data na tu ra lmente notizia, ma tut t i sent ivano che si e ra o rma i arr ivat i al l 'ora della verità. I diecimila squadristi toscani stavano met t endo a soqquadro Firenze, dove avevano incendiato il Nuovo gior­nale, anche molte altre città e rano in subbuglio, e si profila­va il pericolo di u n o scontro in g r a n d e con la forza pubbli­ca. «Viviamo giorni di passione» scriveva Tura t i alla Kuli­scioff, dandole notizia di tutte le manovre che s'intrecciava­no p e r la successione al p o t e r e . E r a n o le solite m a n o v r e : Giolitti con Or lando , ma Salandra non voleva. Or l ando con Salandra , ma non voleva Giolitti. In questo groviglio di ri­valità persona l i , i l capo socialista r iconosceva che l 'unica spe ranza e ra i l Re. Da q u a n t o gli aveva de t to g iub i l ando Sforza, al ricevimento di C a p o d a n n o in Quirinale, il Re ave­va piantato in asso Mussolini ch 'era rimasto comple tamente isolato in un angolo della sala: né Giolitti, né Salandra , né Or lando , e n e m m e n o Diaz e T h a o n di Revel gli si e r ano av­vicinati: u n a scena che ci sembra poco credibile. Ormai , di­ceva Turati , l 'unico problema era quello di «trovare il m o d o pe r la ritirata del duce, che al consiglio di andarsene rispon­derebbe soltanto con questo eloquente bisillabo: dove?».

La verità è che Turati e tutti gli altri oppositori scambia­vano pe r realtà i loro desideri . Mussolini n o n era affatto de­ciso a m a n t e n e r e la p romessa s t rappatagl i dai Consoli, ma lo e ra r i so lu tamente a conservare il po t e r e . Per me t t e r e a tacere le opposizioni senza r icor rere al colpo di Stato, n o n c'era che un modo : sciogliere la Camera: con la nuova legge

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elettorale avrebbe potu to p rocura r sene un 'al t ra in cui l 'op­posizione sarebbe stata del tut to impotente . Ma per scioglie­re la Camera , ci voleva il consenso del Re, e chiedergl ielo era una mossa azzardata. Se il Re lo avesse accordato, sareb­be stata la p rova che la Corona , e qu ind i l 'Esercito, aveva fatto la sua scelta in favore del fascismo. Ma se lo avesse ne ­gato?

Mussolini decise di g iuocare la car ta . La mat t ina del 2 gennaio andò al Quirinale, ma non par lò al Re del suo p ro ­getto. Poi redasse il decreto di scioglimento e incaricò il Sot­tosegretar io alla Presidenza, Sua rdo , di por ta r lo al Re p e r la f i rma. Sappiamo da un a p p u n t o dello stesso Suardo che il Re si mos t rò «turbato» della propos ta , e sopra t tu t to sor­p re so che Mussolini , nella sua visita d i poche o r e p r ima , non gliene avesse par la to . Sua rdo fece del suo meglio p e r convincere il Re che n o n c'era altro da fare pe r r i d u r r e alla rag ione gli oppos i tor i che, disse, i nqu inavano anche l 'am­biente del Quir inale (e l'allusione era soprat tut to a Campel­lo). Il Re era perplesso. Disse - e ra il suo solito r i tornello -che avrebbe preferi to abdicare piuttosto che venir meno al­la Cost i tuzione, com 'e r a nelle t radizioni della sua Casa. E alla fine concluse: «Dica al Presidente che io firmo il decre­to, ma che voglio consegnar lo a lui p e r s o n a l m e n t e e che perciò lo a t tendo qui subito».

Ma q u a n d o Mussolini arr ivò in Quir inale - ed era già la t a rda serata -, il Re aveva modificato la sua decisione. Del colloquio manca , come al solito, un testo. Ma lo si p u ò in­d u r r e dai fatti che seguirono. Il Re non firmò il decreto, ma disse a Mussolini, o gli lasciò in tendere , che lo avrebbe fatto se la C a m e r a gli avesse r innovato la fiducia e app rova to la legge elet torale, e c o m u n q u e solo d o p o la conclusione del processo p e r i l deli t to Matteot t i , che n o n po teva esauri rs i p r ima del l ' au tunno.

Era un sì che equivaleva a un no perché , d o p o il p r o n u n ­ciamento dei Consoli, Mussolini capiva che fino a l l ' au tunno le squadre non poteva tener le in p u g n o . N o n sappiamo se

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lo disse al Re. Non sappiamo se lo informò di quan to si p ro­poneva di dire l ' indomani alla Camera . In anni recenti, l'ex-Re Umber to ha dichiarato che suo pad re era completamen­te a l l 'oscuro delle in tenz ioni di Mussolini . E ci c r ed i amo senz'altro anche perché è molto probabile che quelle inten­zioni Mussolini n o n le avesse ancora m a t u r a t e . Impuls ivo ma irresoluto, ancora esitava davanti al colpo di forza, e fi­no a quel m o m e n t o aveva cercato di evitarlo. Ma du ran t e la not te dovette convincersi che altro n o n gli restava: anche se n o n avevano accarezzato il p u g n a l e , quei Consoli strett i a tenaglia in torno a lui lo avevano traumatizzato.

La Camera si r iunì nel pomeriggio del 3. Q u a n d o si alzò a p r e n d e r e la paro la , Mussolini a p p a r v e «pallido e teso». Come sempre faceva nei moment i di emergenza, giuoco sul­la sorpresa, cogliendo tutti di contropiede con u n a doman­da che pa reva audace e provoca tor ia : «L'articolo 47 dello Statuto dice: La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re e di tradurli dinanzi all'Alta Corte di Giustizia». Pausa. «Chiedo fo rmalmente se in questa Camera , o fuori di questa Camera , c'è qua lcuno che voglia valersi dell 'arti­colo 47.»

La pat tugl ia dei depu ta t i fascisti, forse colti di sorpresa anche loro, balzò in piedi acc lamando m e n t r e tutti gli altri t acevano sbalordi t i . Mussol ini c o n t i n u ò : «Il mio discorso sarà d u n q u e chiarissimo e tale da de t e rmina re u n a chiarifi­cazione assoluta. Voi in tende te che d o p o aver l u n g a m e n t e c a m m i n a t o ins ieme con dei c o m p a g n i di viaggio, a i quali del resto and rebbe sempre la nostra gra t i tudine pe r quello che h a n n o fatto, è necessar ia u n a sosta p e r v e d e r e se la stessa s t rada con gli stessi compagni p u ò essere ancora per ­corsa nell 'avvenire». Era la denunc ia delle alleanze su cui il fascismo si e ra re t to fin allora e Yaut aut a coloro che le ave­vano accettate: o col fascismo fino in fondo, o fuori del fa­scismo. E il fascismo era lui, Mussolini. «Dichiaro qui, al co­spet to di questa Assemblea e al cospet to di tu t to il popolo i ta l iano, che io assumo, io solo, la responsabi l i tà politica,

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morale , storica, di tut to quan to è avvenuto.» E come trasci­na to dalle p r o p r i e pa ro le (il discorso n o n e ra scrit to, e in molti p u n t i a p p a r e improvvisato) agg iunse t ea t r a lmen te : «Se le frasi più o m e n o storpiate bastano pe r impiccare un uomo , fuori il palo e fuori la corda. Se il fascismo non è sta­to che olio di ricino e manganel lo , e non invece u n a passio­ne superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa. Se il fascismo è stato un'associazione a de l inquere , io sono il capo di questa associazione a delinquere!» E giù con que­ste frasi p iù da comizio di piazza che da aula pa r l amen ta re , ma che e r ano dest inate a un g r a n d e effetto sulle pagine dei giornali , fino alla logica conclusione che del semplice «ef­fetto» andava al di là:

«Voi avete c redu to che il fascismo fosse finito perché io lo compr imevo , che fosse mor to pe r ché io lo castigavo, e poi avevo anche la crudel tà di dirlo. Ma se io mettessi la centesi­ma par te dell 'energia che ho messo a compr imer lo , a scate­narlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo per­ché il governo è abbastanza forte pe r s troncare in p ieno de­finitivamente la sedizione dell 'Aventino. L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi questa tranquilli tà, questa calma laboriosa, gliela da re ­mo con l 'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà neces­sario. State certi che nelle quaranto t t 'o re successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l'area».

Nelle qua ran to t t ' o re successive, Casati e Sarrocchi si di­misero, sostituiti da Fedele e Giuriati, e anche Oviglio, invi­so al vecchio fascismo, dovet te lasciare il posto a Rocco; le sedute della Camera vennero sospese; e u n a pioggia di «ri­servate» si abbat té sui Prefetti . Essi dovevano p r o v v e d e r e «allo scioglimento di tu t te le organizzazioni che sotto qual­siasi pre tes to possano raccogliere elementi turbolent i o che c o m u n q u e t e n d a n o a sovvert ire i po te r i dello Stato»: u n a direttiva che si prestava a qualsiasi applicazione, ma che era controbilanciata da un te legramma ancora più riservato che autorizzava a misure non meno rigorose contro i fascisti che

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avessero cercato di approfi t tare della favorevole situazione pe r commet tere violenze e soprusi. Infine vennero chiama­te in vigore le n o r m e repressive della libertà di stampa, che fin allora e rano rimaste sulla carta.

E p p u r e , molti n o n cap i rono che col discorso del 3 gen­naio il fascismo cambiava volto, e diventava di t ta tura . Non lo capì il Re, che si dolse, ma a mezza voce soltanto, di n o n esserne stato in formato . N o n lo capì l 'Aventino che in ter­pre tò l 'accaduto n o n come un epilogo, ma come l'inizio del­la «fase es t rema del conflitto fra la dominazione fascista e il Paese». Non lo capì Turati che lo scambiò per u n o «dei soli­ti bluff pe r disorientare e spaventare le passere». Lo capiro­no bene soltanto d u e giovani giornalisti, Adolfo T ino e Ar­m a n d o Zanetti, che sulla loro rivista, Rinascita liberale, scris­sero: «L'on. Mussolini ha ri trovato il suo ruolo. S'era p e r d u ­to in questi ultimi tempi - non si p u ò dire se pe r p u r a inge­nui tà o pe r studiato calcolo - dietro a contraddi t tor i e caoti­ci segni di pacificazione. Aveva bat tuto tutte le s trade e get­tati tutti i pont i verso tutte le rive. Ma alla fine non gli è ri­masto che tornare al suo istinto, o meglio - e la parola forse gli sarà gradi ta - al suo profondo genio. La normalizzazio­ne pe r lui e pe r la sua forma mentis n o n ha avuto e n o n p u ò avere senso alcuno».

Resterebbe solo da sapere con che animo Mussolini s'in­vestì, il 3 genna io , nella pa r t e di d i t ta tore . Se, come molti sos tengono, gli sforzi che fino a quel m o m e n t o aveva fatto p e r evitarla e r a n o stati solo un giuoco p e r d imos t ra re che non era lui a volerla, ma gli eventi a imporgliela, bisogna ri­conoscere che come giuocatore sapeva il fatto suo.

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Indro Montanelli - Mario Cervi

L'ITALIA LITTORIA

(1925-1936)

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AVVERTENZA

Completamente assorbito dal giornale che ho fondato e dirigo, teme­vo di non poter più riprendere questa Storia, rimasta a/f Italia in camicia n e r a di due anni e mezzo fa. Se sono riuscito a farlo, è perché ho trovato in Mario Cervi un collaboratore ideale e partico­larmente congeniale. Ecco il caso di un libro a quattro mani, di cui sfidiamo qualunque lettore a riconoscere cosa è d'un autore e cosa dell'altro: tanto esso è nato da un continuo colloquio e compenetra­zione fra i due.

Il volume comprende il decennio che va dal '25, inizio della dit­tatura, al '36, conquista dell'Abissìnia, quando parve che Regime e Paese si fossero per sempre identificati. Il titolo quindi non poteva essere che L'Italia littoria: essa lo fu, piaccia o non piaccia. Noi abbiamo cercato di spiegare perché lo fu, e come, proprio nel mo­mento del suo maggior trionfo, il fascismo e il suo Duce entrarono in crisi. Per uno dei due autori si tratta di esperienza vissuta. Il vo­lume successivo, che arriverà all'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, sarà invece esperienza di en­trambi.

Questi libri dispiaceranno sia ai fascisti che agli antifascisti. Ma noi non li abbiamo scritti per piacere né agli uni né agli altri.

I.M.

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PARTE P R I M A

IL REGIME

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C A P I T O L O P R I M O

LA FINE DELL'AVENTINO

Il discorso del 3 genna io 1925 prese tutt i con t rop iede . La sfida di Mussolini alla Camera , la denunc i a delle al leanze con i fiancheggiatori esitanti, l 'avvertimento che «nelle qua­r a n t o t t o r e successive a ques to mio discorso la s i tuazione sarà chiarita su tut ta l'area», avevano mu ta to radica lmente il quad ro politico. Non si era trattato solo di parole. Fedele alla minaccia p ronunc ia ta davanti ai deputat i , Mussolini ri­maneggiò , a p p u n t o nelle quaran to t t 'o re successive, il mini­stero, e con u n a serie di disposizioni ai Prefetti o r d i n ò «lo sciogl imento di tu t te le organizzazioni che sotto qualsiasi pre tes to possano raccogliere e lement i turbolent i o che co­m u n q u e t endano a sovvertire i poter i dello Stato». Era l'ini­zio della dit tatura.

Era stato preso in contropiede anche il Re. Questi, secon­do u n a tes t imonianza d i Cino Macrelli , n o n solo n o n e ra stato informato del discorso da Mussolini, ma dopo che era stato p r o n u n c i a t o avrebbe avuto in tenz ione d ' i n t e rven i re sollecitando le dimissioni dei d u e ministri militari, il gene­rale Di Giorgio e l 'ammiraglio T h a o n di Revel. Sempre se­condo questa test imonianza il conte Campello e il generale Cittadini - vicini al Re e ostili al fascismo - avrebbero det to ad Amendola di non p r e n d e r e iniziative pe rché ormai il So­vrano era deciso a met te re alla por ta Mussolini e il suo go­verno.

Mussolini aveva avuto un 'ot t ima ragione pe r precipi tare le cose, con il colpo di scena del 3 gennaio: l 'ultimo dell 'an­no una quaran t ina di Consoli della Milizia gli aveva fatto vi­sita a Palazzo Chigi, con il pretes to di augurargl i b u o n Ca-

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p o d a n n o ; ma i l loro vero proposi to era di indur lo ad agire r isolutamente, e se occorreva violentemente, contro l 'oppo­sizione. Se n o n l 'avesse fatto - minacc ia rono - la Milizia avrebbe preso l'iniziativa «l iberando da ogni vincolo di di­sciplina le squadre». A questa ragione se ne aggiungerebbe, se fosse vero quan to riferito da Macrelli, un 'a l t ra forse più forte. Mussolini avrebbe precipitato le cose n o n solo e non tanto pe r l 'imposizione dei Consoli, quanto pe r prevenire i l passo del Re, m e t t e n d o l o di f ronte al fatto c o m p i u t o . Ma noi c rediamo che le cose si siano svolte al tr imenti . È molto probabi le che Campel lo e Cit tadini , s impatizzanti del l 'op­posizione, avessero cercato di spingere il Re a quel passo, e che il Re avesse dato u n a delle sue sibilline risposte, ch'essi avevano in terpre ta to secondo i loro desideri.

Giovanni Amendola , il più tenace ispiratore dell'Aventi­no , credet te alla loro versione, tant 'è vero che il 4 gennaio inviò a Cittadini un messaggio che aveva pe r destinatario il Re: «Sorga fieramente il Re» eccetera. Cer tamente informa­to da lui, anche Turat i pensava al Re: «Il duel lo n o n è sol­tanto con noi - scriveva alla Kuliscioff- ma è anche, e forse più, collo stesso Quir inale». E il fatto che anche i socialisti contassero sull'iniziativa del Re, ch'essi avevano clamorosa­men te insultato abbandonando al suo ingresso l'aula parla­men ta re , la dice abbastanza lunga sulla risolutezza dell 'op­posizione.

Il g iorno stesso del discorso, Salandra e Giolitti s'incon­t r a r o n o . Era la p r i m a volta che questo avveniva dal 1915, q u a n d o Giolitti aveva b ruscamen te rot to con Salandra , ac­cusandolo di «tradimento» pe r aver po r t a to , cont ro gl 'im­pegni assunti con lui, l'Italia in guer ra . Poiché del colloquio abbiamo solo la versione di Salandra, non sappiamo se Gio­litti gli chiese se era soddisfatto di ciò che la g u e r r a aveva provocato. Comunque , il colloquio fu infruttuoso. Salandra propose di anda re con lui e Or l ando dal Re pe r saggiare le sue intenzioni, ma Giolitti lo escluse. «Si r isaprebbe - disse -e p a r r e b b e un p ronunc iamen to .» E se Giolitti si rifiutò di

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compiere il passo, vuol dire che lo ri teneva inutile, cioè che il Re non aveva nessuna intenzione di muoversi .

Q u a n t o al l 'Aventino, invece di s t r ingers i i n t o r n o alla propr ia bandiera , si disunì vieppiù e si perse in un mare di chiacchiere. Alcuni, fra cui lo stesso Turati , volevano torna­re in aula e r iprendervi la loro battaglia di opposizione. Ma Amendo la , fedele alla sua idea della «condanna morale», riuscì ancora a imporla. Solo l'8 gennaio l'Aventino formulò la sua r isposta a Mussolini in un d o c u m e n t o che lo stesso Salvemini definì «un capolavoro di pedan te r i a pretenziosa e inutile», e che r app re sen tò in sostanza il suo tes tamento . In realtà, come forza di opposiz ione, n o n e ra mai esistito. L'uomo che lo aveva ideato, Amendola, era sul p iano mora­le degno del più alto rispetto. Ma, malinconico e introverso, chiuso nel suo pu r i t an i smo , e senza ne s suna p resa sulla pubblica opinione, non era affatto un politico. Alcuni lo ave­vano seguito cond iv idendone l ' intenzione: ch 'era quella di costi tuire il p u n t o di r i fer imento pe r la coscienza civile di un paese che ne era cospicuamente sprovvisto. Ma i p iù lo avevano fatto pe r sottrarsi agli scomodi e ai pericoli di u n a opposiz ione in aula, faccia a faccia coi fascisti. Nessuno di loro aveva r inunzia to alle p rop r i e piccole beghe di part i to , di g r u p p o e di corrente . Ma propr io questo spettacolo d'im­potenza e di faziosità aveva scoraggiato la pubblica opinione antifascista.

L'affare Matteotti gli aveva offerto una g rande occasione. Il paese aveva avuto un sincero soprassalto di sdegno che se avesse trovato in Parlamento un risoluto in terpre te avrebbe messo Mussolini alle corde. Ma bisognava capire che gli sde­gni sono t e m p o r a n e i , specia lmente in Italia. La g u e r r a di logoramento fatta dall 'Aventino con le denunce , moke delle quali infondate , e coi memorial i , alcuni dei quali falsi, n o n poteva che s tancare , alla lunga , la pubblica opin ione . Non osiamo d i re che Mussolini aveva tergiversato pe r sei mesi appun to pe r dare t empo a questo processo di matura re . Ma sia stato l 'istinto a suggerirglielo, o le circostanze a impor-

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glielo, è certo che prese le decisioni del 3 genna io q u a n d o ormai il paese era disposto ad accettarle, e forse in cuor suo le sollecitava non pe rché avesse acquistato maggior fiducia in Mussolini ma pe rché aveva comple tamente perso quella nei suoi oppositori . E questo vale pe r il Re come per l 'uomo della strada.

Nei mesi successivi Mussolini si mosse tra apparen t i oscil­lazioni ma r i spe t t ando u n a ferrea logica del po te re , come s e m p r e gli accadeva q u a n d o e ra megl io assistito dal suo g r a n d e fiuto politico. Il fascismo «rivoluzionario», che mal soppor tava la normalizzazione ed era insofferente dei vin­coli costituzionali impost i dalla monarch ia , doveva avere , dopo il 3 gennaio, u n a soddisfazione. Mussolini, che p u r vo­leva s o v r a p p o r r e lo Stato al Part i to , p iù che il Part i to allo Stato, gli diede questa soddisfazione affidando la Segreteria del P N F a Farinacci. Tra i d u e uomini n o n correva b u o n san­gue. Il ras di Cremona era sempre stato il capo dell'ala fasci­sta più intransigente e riottosa. Non approvava, a volte pro­babilmente non capiva, le mosse tattiche di Mussolini, le sue concessioni ai moderat i legalitari, ancora incerti di fronte al f enomeno fascista, le sue res idue esitazioni nel p r o c e d e r e sulla strada della dit tatura. Farinacci era inoltre più sensibi­le alle esigenze degli agrar i - ossia degli spalleggiatori del fascismo più violento e rozzo - che non a quelle degli indu­striali: e tra le d u e categorie esisteva un obbiettivo conflitto di interessi, in tema di protezionismo e di tariffe doganal i . Ma Farinacci era anche l 'unico esponen te del fascismo che potesse t ene re a bada l ' i r requie ta perifer ia dello squadr i ­smo, e darle la sensazione di avere avuto, nella svolta del 3 gennaio, una totale vittoria.

La nomina di Farinacci fu decisa all 'unanimità, dal Gran Consiglio, il 12 febbraio. Tre giorni dopo , il 15 febbraio, il Capo del governo cadeva mala to p e r un attacco d i ulcera che gli organi di informazione del Regime ten ta rono di ga­bel lare come u n a n o r m a l e inf luenza, ma che fu serio e p reoccupante tanto che si temette per la sua vita. Solo a fi-

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ne febbraio Mussolini potè r i p r ende re l'attività, sia p u r e ri­m a n e n d o in casa, e solo un mese d o p o , i l 23 marzo , r iap­pa rve in pubbl ico con un discorso dal ba lcone di Palazzo Chigi nel quale , con voce di nuovo vigorosa, esordì : «Non so resis tere al des ider io di farvi sent i re la mia voce anche pe r d imost rare che l 'infermità n o n mi ha tolto la parola». E aggiunse: «Siamo a pr imavera e adesso viene il bello... la ri­p re sa in tegra le del l ' az ione fascista, s e m p r e e d o v u n q u e , con t ro ch iunque» . La debolezza della oppos iz ione , la p rofonda apatia del paese, lo spregiudicato uso degli stru­ment i legali e la int imidazione delle «squadre» consent i ro­no al fascismo di r i t rovare, d o p o la tempestosa fine del '24, u n a b u o n a stagione.

Gli avversari del Regime avevano quasi del tutto p e r d u t o l 'unico s t r u m e n t o del qua le potessero servirsi - d o p o che l'Aventino li aveva privati della t r ibuna pa r l amen ta re - pe r r iba t te re le tesi del governo : la s tampa . C o n le a rmi della diffida, o del seques t ro , o della soppress ione definitiva, il gove rno control lava s e m p r e p iù s t r e t t amen te i giornal i . Qualche volta i fulmini del minis tero de l l ' In te rno si abbat­tevano anche su pubblicazioni fasciste, colpevoli di eccessivo zelo o di deviazionismo. Mentre Farinacci era segretario del part i to il suo quotidiano, Cremona Nuova (che pres to adottò un'al t ra testata, Il Regime fascista), fu sequestrato anch'esso. A p rovoca re i fulmini di Mussolini e ra stato il passo di un discorso dello stesso Farinacci, r ipor ta to dal giornale, in cui si affermava che il delitto Matteotti aveva rafforzato il fasci­smo. Farinacci, u o m o di poche ma tenaci convinzioni, tentò di difendere la sua tesi. Mussolini obbiettò che «malgrado il delitto Matteotti il fascismo ha tenu to duro»: il che era ben diverso. Ma le vittime abituali e r ano i giornali ostili o sem­plicemente indipendent i .

All'inizio d e l l ' a u t u n n o 1925 finiva in Italia il sindacali­smo libero. Il 2 ot tobre, a Palazzo Vidoni (sede della Segre­teria del P N F ) , veniva firmato un «patto» in base al quale «la Confederaz ione gene ra l e de l l ' indus t r ia r iconosce nella

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Confederazione delle Corporazioni fasciste e nelle organiz­zazioni sue d i p e n d e n t i la r a p p r e s e n t a n z a esclusiva delle maes t ranze lavoratrici» e d 'a l t ro canto «la Confederazione delle Corporaz ioni fasciste riconosce nella Confederazione del l ' industr ia e nelle organizzazioni sue d ipenden t i la rap­p r e s e n t a n z a esclusiva del l ' indust r ia» . La Confederaz ione generale del Lavoro n o n riuscì a p romuove re alcuna mani­festazione di protes ta . Dalle C a m e r e del Lavoro locali, in­terpellate, era arrivata u n a serie scoraggiante di risposte ne­gative. «La pressione avversaria è e n o r m e , n o n è possibile qualsiasi azione» scriveva Bologna, «oggi come oggi c'è poco da fare» scriveva Savona, solo a Milano e a Roma pa re si po­tesse t en ta re qualcosa: ma n o n lo si ten tò . Qualche g iorno d o p o la C G L pubbl icò un manifesto nel quale espr imeva la convinzione che «il pa t to accettato dai sudde t t i s ignori ri­m a r r à un pezzo di car ta p e r c h é i lavora tor i t r o v e r a n n o egualmente il modo di difendere i loro interessi». Erano so­lo parole.

Con il pa t to di Palazzo Vidoni Mussolini e ra t o rna to in buon i rappor t i con gli industriali contro i quali aveva giuo-cato nei mesi precedent i - o aveva lasciato giuocare da Ros-soni, il che fa lo stesso - la carta di un sindacalismo fascista aggressivo, che pe r qua lche t e m p o aveva gareggia to in ri­vendicazionismo con le organizzazioni «rosse», e che aveva promosso un d u r o sciopero dei metalmeccanici. Altre nubi nei r a p p o r t i con i l «padrona to» e r a n o der iva te da ta luni p rovved imen t i finanziari e valutar i con cui il minis t ro De Stefani aveva depresso le borse , da t e m p o in p r e d a a un euforico rialzo. La sostituzione di De Stefani con Volpi ave­va rass icurato l'alta f inanza e la g r a n d e indus t r ia , che nel designato riconoscevano u n o dei loro esponenti . Da allora -anche nei momen t i di attri to della «quota novanta» - Mus­solini fu pe r i l p a d r o n a t o , se n o n s empre un in ter locutore ideale, il male minore .

Alla Camera , assenti gli aventiniani, Mussolini n o n aveva problemi. Un proget to di legge elettorale che ripristinava il

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collegio uninominale fu approvato con 307 voti favorevoli e 33 con t ra r i (tra gli ul t imi O r l a n d o e Giolitti). Più ta rd i la Camera varava addir i t tura un pacchetto gigantesco di 2.376 decreti legge. Qualche maggiore difficoltà il fascismo aveva in Senato, per il carat tere vitalizio e l 'origine reale della ca­rica, e pe r il prestigio personale di alcuni tra i componen t i l'Assemblea. Della scarsa docilità del Senato, dove forte era l'influenza monarchica e quella dei militari, si e ra avuta u n a prova allorché vi era anda to in discussione un proget to del ministro della Gue r ra generale Di Giorgio sul r io rd inamen­to dell 'Esercito, p roge t to osteggiato da pa t r ie glorie come Giardino, Cadorna , Diaz, Caviglia, Pecori Giraldi. Mussoli­ni, che del proget to si era dichiarato fautore, lo abbandonò , con u n a delle sue mosse da prest igiatore, ma avendo l'aria di n o n r innegar lo: e profittò della occasione pe r desti tuire il povero Di Giorgio, e pe r assumere l'interim dei dicasteri mi­litari, il che gli assicurava un più saldo controllo sulle Forze Armate . Nel con tempo nominava sottosegretario alla Guer­ra il generale Ugo Cavallero, che si e ra man tenu to neutra le nella d isputa , e che piaceva perf ino a Farinacci, e Capo di stato maggiore dell 'Esercito Pietro Badoglio. Per completa­re l 'azione di accapar ramento delle organizzazioni militari, Mussolini insediò inoltre dei commissari al vertice della As­sociazione nazionale combattent i il cui pres idente , on. Vio­la, era antifascista.

Più del Par lamento, più degli intellettuali antifascisti che avevano diffuso un loro nobile e poli t icamente sterile mani­festo, r e d a t t o da B e n e d e t t o Croce , p iù della oppos iz ione avent iniana, Mussolini ebbe a t emere , nella seconda metà del '25, il rinfocolarsi della violenza delle squadre d'azione, che a l la rmava i f iancheggiator i , r iaccendeva le diffidenze del Re, irritava la Chiesa. Tre forze che Mussolini non vole­va provocare gra tui tamente . E curioso notare che in un pri­mo m o m e n t o Farinacci, volendo r iord inare e disciplinare il parti to, aveva agito contro elementi «ultra», che p u r e pote­vano sembrare vicini alle sue posizioni: così furono punit i e

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poi radiati dal P N F quei Consoli Tarabella e Galbiati che ave­vano capeggiato la «rivolta» di fine d 'anno , e che solo alcuni ann i d o p o furono r iammessi nelle f i le fasciste (Galbiati ri­p re se la ca r r ie ra , t an to che il 25 luglio 1943 lo t roverà al Gran Consiglio di Palazzo Venezia come comandan te gene­rale della Milizia). Con i suoi metodi caporaleschi, Farinacci o t tenne che il congresso del part i to - quar to e ult imo nella storia del fascismo - si tenesse, in giugno, in u n a atmosfera di ordinar ia amministrazione.

Ma se da u n a p a r t e egli e ra stato i l r io rganizza tore del part i to, e ne aveva stroncato eresie e scissioni, dall 'altra, pe r la sua personal i tà e p e r le sue idee, e ra un ispi ra tore e un pro te t tore della violenza. Cont ro il ministro del l ' In terno Fe­derzoni , che intendeva riprist inare la legalità autori taria - e affermare l 'autori tà dei Prefetti - , Farinacci tollerava, p ro ­teggeva, incoraggiava le incursioni delle squadre . Nei con­flitti cadevano sia antifascisti sia fascisti: ma per il segretario del part i to ogni scontro era causato da «provocazioni» degli oppositori , che n o n si e rano adeguat i alle condizioni di resa imposte dal fascismo. Nel Veneto, in Romagna , soprat tut to in Toscana dove imperversavano squadracce t ra le più t ru­ci, si moltiplicarono aggressioni, invasioni di studi di oppo­sitori, saccheggi e distruzioni di tipografie, uccisioni.

In una delle azioni punit ive di questo per iodo fu percos­so e ser iamente ferito Amendola , che non si sarebbe più ria­vuto del tutto dalle botte dei manganel latori e sarebbe mor­to l 'anno successivo, esule, in Francia. In altre vennero col­piti uomini del movimento cattolico, talché ^Osservatore Ro­mano protestò con durezza. Il ministro del l ' In terno, scrisse, parlava un linguaggio di pacificazione, ma Farinacci e le sue squadre lo contraddicevano nelle parole e nei fatti. Cremona Nuova r ibatté, a n o m e di Farinacci, asserendo che «in certe circostanze la violenza è virtù cristiana in quanto serve quel­la cosa che al cristianesimo non è davvero indifferente, la ci­viltà che da esso r ipete la sua origine».

Si arrivò così, in un crescente rigurgito di manganel la te e

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di olio di r ic ino, ai p r i m i di o t tobre , q u a n d o a F i renze si con ta rono vari mort i , a lmeno otto. Una squadracela aveva voluto da re u n a lezione a un massone devastando la sua abi­tazione (le società segrete , ossia la massoneria , e r ano state vietate pe r legge, e venivano perseguitate) . Nella sparatoria der ivatane un estremista nero , certo Lupor in i , e ra r imasto ucciso. La rappresaglia fascista era stata indiscriminatamen­te sanguinosa, ed era dilagata pe r tut ta la Toscana. Tra gli altri e rano stati assassinati l'avv. Consolo e l 'ex-deputato so­cialista Pilati, cui e ra stata mossa l 'accusa di compi la re un giornalet to antifascista. Squallidi movent i privati si intrec­ciarono, come avviene di f requente, alla molla politica. Un a p p a r t e n e n t e alla squadracela che aveva massacrato Pilati era legato alla tenutar ia di un bordello, sfrattata pochi gior­ni p r ima dall 'avvocato, divenuto amminis t ra tore dello stabi­le. Farinacci si era precipitato sul posto più pe r giustificare la «reazione» fascista che pe r individuare e pun i r e i respon­sabili. I talo Balbo, spedi to d 'urgenza a Firenze quale com­missario s t raordinar io della Federazione fascista, non aiutò la normal izzaz ione , t an to che Federzon i o r d i n ò al nuovo prefetto, Regard, di non tener conto di ciò che il Q u a d r u m ­viro disponesse.

I l c inque o t tobre i l G r a n Consiglio t enne una r iun ione , dedicata ufficialmente ad argoment i già fissati in preceden­za, ma in realtà incentra ta sugli incidenti toscani. Farinacci non poteva ancora essere sostituito. Anzi il Gran Consiglio del iberò un o rd ine del g iorno che elogiava la sua azione, e lo esortava a perseguir la e perfezionarla. In realtà la discus­sione era stata accesa, e Mussolini aveva deplora to con vee­menza la sortita degli estremisti fiorentini, che disturbava i suoi piani, e lo metteva in difficoltà con il Re e con le forze politiche disposte a collaborare con il fascismo, pu rché non esagerasse . Un o r d i n e del g io rno che , d ive r samen te da quello di plauso a Farinacci, doveva r imanere riservato, ma che i Prefetti e r ano incaricati di t rasmet tere ai dirigenti fa­scisti, dispose «lo scioglimento immedia to di qualsiasi for-

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mazione squadristica, la iscrizione degli ex-squadrist i nelle legioni regolari della Milizia, la espulsione dal part i to di chi n o n o t temperasse al l 'ordine». L'alto là del G r a n Consiglio alla r ipresa dello squadr ismo dissolse le r inate inquietudini del Re, ormai sempre più largo di elogi pe r Mussolini.

In effetti Mussolini voleva veder t r ionfare n o n la illega­lità, ma la legalità della Rivoluzione. Lo spartiacque tra i d u e concetti è spesso, negli Stati autori tari , incerto. Ma la diffe­renza sostanziale è questa: la puniz ione e repress ione degli opposi tori doveva venire, secondo Mussolini, dall 'autori tà, non da iniziative di g rupp i o di individui. Con ciò egli pote­va dosare i provvedimenti secondo circostanze e valutazioni politiche, che non intendeva affidare al caso o peggio ancora ai cri teri di estremisti e di ras locali. La più perfet ta d imo­strazione di questo criterio Mussolini la diede tra la fine del 1925 e la fine del 1926, q u a n d o spazzò via gli ultimi residui di libertà di stampa, di opposizione politica, di garanzie lega­li fissate dallo Statuto albertino, ma scegliendo l'ora e il mo­do con tale tempismo da at tuare la g rande «purga» senza in­con t r a r e ostacoli né da pa r t e della Corona , né da pa r t e d i s impatizzanti che tut tavia conservavano qualche scrupolo giuridico. I pretest i p e r realizzare tutt i gli obbiettivi di cui aveva posto le p remesse con il discorso del t re genna io gli furono offerti da u n a serie di at tentat i alla sua persona , ri­masti allo stato di proget to o portat i ad esecuzione.

Il p r imo, e polit icamente il più impor tan te , d ivenne noto con l 'arresto, o rd ina to il 4 novembre 1925, dell 'on. Tito Za­mboni (a Roma) e del generale Luigi Capello (a Torino). Lo Zamboni - che la polizia teneva d'occhio da lunga data - e ra stato sorpreso nella camera 90, al quinto p iano dell 'albergo Dragon i , da dove avrebbe voluto spa ra r e , con un fucile Mannlicher a cannocchiale, contro Mussolini, di cui era p re ­visto un discorso da Palazzo Chigi pe r celebrare l 'anniversa­rio della Vittoria. L'arma sarebbe stata punta ta , da una cin­quant ina di metr i di distanza, sul balcone del Palazzo. Zani-boni, socialista turat iano, si era compor ta to bene in guer ra ,

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con gli a lpini , r a g g i u n g e n d o i l g r a d o di magg io re : ed era p lu r ideco ra to . Aveva condo t to con t ro i l fascismo, d o p o la Marcia su Roma, una lotta affannosa e donchisciottesca, ten­tando le più diverse s t rade, da una contrapposiz ione Mus­solini-D'Annunzio al colpo di Stato a t tuato da poche centi­naia di uomini decisi a tut to . Infine si e ra deciso alla elimi­nazione fisica dell '«oppressore». «Alla violenza - questo era diventato il suo credo - bisogna o p p o r r e la violenza.»

N o n sperava p iù nel Re, da l qua le s i e ra fatto r icevere d u e volte senza o t t e n e r n e nulla, aveva guasta to i r a p p o r t i con l'Aventino, aveva intessuto embrioni di utopistici accor­di insurrez ional i con i fratelli Gar ibaldi , Sante e Ricciotti. Dall 'estero gli era arrivato qualche incoraggiamento, in par­ticolare del radicale francese H e r r i o t e del vecchio d e m o ­cratico cecoslovacco Masaryk. La massoner ia di Palazzo Giustiniani gli aveva elargito a un certo p u n t o u n a somma modesta anche pe r quei tempi , cinquemila lire, ma poi non aveva più voluto saperne dei suoi progett i . In questa ricerca di sostegni Zaniboni si era imbat tuto in Carlo Quaglia e Lui­gi Capello. Il Quaglia, s tudente , vicino alle idee del part i to popo la re , ebbe nella vicenda un ruo lo spregevole , pe r ché fingeva di col laborare con Zaniboni e nel c o n t e m p o infor­mava la polizia. Capello, massone, si e ra lasciato d a p p r i m a al le t tare dai p ropos i t i dello Zaniboni , d imos t r andos i u n a volta di più stratega avventato, ma pa re che q u a n d o fu cat­tura to - si p reparava a espatr iare - avesse già lasciato cade­re tu t to . L'i t inerario u m a n o e politico di Capel lo e ra stato imprevedibi le e tor tuoso, motivato da interessi personal i e da suggestioni contingenti p iù che da veri ideali. Luigi Ca­pello aveva comanda to in g u e r r a la II a rmata , la maggiore dell 'Eserci to i tal iano, con i suoi qua t t rocen tomi la uomin i . P rop r io l ' a rmata nella quale e r a n o en t ra t i come i l coltello nel b u r r o , la tragica notte di Caporet to , i cunei delle divisio­ni tedesche inviate sul fronte italiano pe r u n a offensiva de­molitrice. La responsabili tà del disastro era stata fatta rica­de re , dalla commiss ione d ' inchiesta, p r inc ipa lmen te su di

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lui, pe r la ostinazione con cui, obbedendo a un p rop r io di­segno strategico, aveva trasgredito, o applicato con reticen­za, gli ordini imparti t i da Cadorna affinché la II a rmata as­sumesse u n o schieramento più difensivo. N o n era t ipo che si rassegnasse alla oscurità. Aveva scritto libri pe r discolpar­si, ed era diventato fascista. Dopo la Marcia su Roma lo si vi­de sfilare con le colonne di camicie nere in u n a strana tenu­ta fuori ord inanza , che a un osservatore sarcastico r icordò l ' immagine d i un gene ra l e s u d a m e r i c a n o . Ma l 'at teggia­m e n t o del fascismo verso la massoner ia (e forse anche gli onori e le riabilitazioni di cui avevano goduto i Cadorna e i Badoglio, ma non lui) risospinsero Capello, che nella loggia di Palazzo Giustiniani occupava u n a posizione eminente , tra le file dell'antifascismo.

Come sintomo della esistenza di u n a opposizione a rmata la congiura Zaniboni aveva assai scarso rilievo. Dietro Zani-boni e Capello non c'era nulla. Entrambi furono condanna­ti a t r en t ' ann i di carcere , ma d o p o un pe r iodo di d u r a se­gregazione o t t ennero u n a mitigazione del t ra t tamento: Za­niboni fu trasferi to al confino di Ponza, Capel lo passò in ospedale e nel 1936 venne scarcerato.

Se il complot to era stato velleitario e quasi risibile, il suo s f ru t t amento polit ico ebbe invece u n a i m p o r t a n z a d i p r im 'o rd ine . Mussolini si era visto offrire su un piatto d'ar­gento il pre tes to di cui aveva bisogno pe r i ndur i r e il Regi­me. A loro volta i fiancheggiatori desiderosi di salvare la co­scienza avevano un pretesto pe r ammet te re che, di fronte al compor tamento criminale della opposizione, un giro di vite d iventava inevitabile. Crisi di coscienza subi tanee colsero così le propr ie tà di quei giornali che e rano rimasti indipen­denti , e che, p u r avendo a t tenuato gli at teggiamenti antifa­scisti man tenu t i d u r a n t e la crisi Matteotti , si pe rmet t evano ancora delle critiche. Cambiò diret tore, tra gli altri, il Corrie­re della Sera. Luigi Alberimi dovette lasciare, insieme al fra­tello Alberto, la guida del maggior quot id iano italiano. Gli Albertini e rano qualcosa di più che «la direzione» nel Corrie-

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re della Sera: non solo perché possedevano u n a quota di p ro ­prietà, ma soprat tut to perché avevano legato il loro nome , e il loro prestigio, a u n a politica coerente e intransigente, da g rand i borghesi i l luminati . Alla di rezione fu insediato Pie­t ro Croci , un r e d a t t o r e d i n o n spiccato rilievo che compì q u i e t a m e n t e l ' opera di «conformizzazione» del g iorna le . Ques to n o n fu che u n o dei segni d i un «adeguamento» a l Reg ime che p r e n d e v a p r o p o r z i o n i s e m p r e più massicce, tanto che Balbo osservava, in u n a lettera, che «non si trova più un antifascista a pagar lo a peso d'oro».

L'Aventino avvertì , con i r r imediab i le r i t a rdo , l ' u m o r e di b u o n a pa r t e del paese: e capì che Mussolini n o n si e ra ab­b a n d o n a t o i m m e d i a t a m e n t e , d o p o l 'arresto di Zaniboni e Capello, a spettacolari misure repressive - rifiutò pe r il mo­mento il r ipristino della pena di mor te che gli veniva richie­sto a gran voce da molti - p ropr io pe r consentire che il p ro­cesso di fascistizzazione morb ida si svolgesse senza sussulti. Evirati i g rand i giornali di opposizione, vessati i quot idiani di pa r t i to (alcuni, come La Rivoluzione liberale e II Popolo, e rano stati costretti a chiudere) , l 'Aventino poteva riacqui­stare u n a voce solo t o rnando in aula. I comunisti l 'avevano capito quasi immedia tamente , ed infatti si e rano r ipresenta­ti alle sedute. In altri g rupp i la t endenza al r i torno acquista­va forza crescente. Ma a questo pun to , reso forte, nella sua intransigenza, dal complot to Zaniboni, poli t icamente prov­videnziale, Mussolini e ra r isoluto a sba r r a r e loro il passo. Gli aventiniani n o n avrebbero po tu to rovesciare i r appo r t i di forza in un Par lamento dove la maggioranza governativa era solida. Ma le loro critiche e le loro polemiche sarebbero state fastidiose.

In u n a Camera s t r ao rd ina r i amente docile, e sf rut tando il m o m e n t o favorevole, Mussolini e ra riuscito a far passare quasi si trattasse di ordinar ia amministrazione, tra il novem­bre e il gennaio, u n a serie di misure che davano sempre più all'Italia il colore del Regime. Regolamentazioni sulla stam-

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pa e le società segrete, esonero dei funzionari pubblici «infi­di», revoca della cit tadinanza ai fuorusciti, accresciute com­petenze dei Prefetti, disciplina dei contratt i di lavoro, nuove prerogat ive del Capo del governo (che acquistava una posi­zione fortissima e au tonoma e r ispondeva delle sue decisio­ni solo alla Corona, non più al Parlamento), facoltà dell'ese­cutivo d i e m a n a r e n o r m e g iur id iche . Ques to g r a n lavoro p a r l a m e n t a r e , che met teva lo spolver ino a tu t to ciò che il g o v e r n o p r e p a r a v a , la C a m e r a lo aveva c o m p i u t o anche grazie alla sua r i a p e r t u r a ant ic ipata , il 18 n o v e m b r e (del '25): r i a p e r t u r a che Mussolini aveva decisa, f idando sulla sorpresa, p ropr io pe r n o n lasciare t empo all 'Aventino, «re­sponsabile morale della congiura Zaniboni», di organizzare il r i en t ro . Qua lche d e p u t a t o avent in iano si p rovò , isolata­mente , a r ient rare a Montecitorio: ne fu cacciato a viva for­za. Era i l p r eannunc io di quel che sarebbe avvenuto quan­do fosse stato tentato l ' ingresso in massa.

Ai p r imi di genna io del '26, c o m u n q u e , i «popolari» di De Gasper i decisero di s cendere dal l 'Avent ino. P r ima di passare alla esecuzione di questa del ibera del loro g r u p p o avviarono tuttavia, con cautela democr is t iana ante luterani, contatti con i fascisti. Volevano sapere cosa li at tendesse. Ne o t tennero , in risposta, un ultimatum. I fascisti e rano disposti a r iammetter l i , apprese ro , se avessero prevent ivamente di­chiarato di r iconoscere «il fatto compiu to della rivoluzione fascista», e il fallimento dell 'Aventino «perché n o n esisteva u n a quest ione morale che investisse il Governo fascista»: e se avessero inoltre promesso di esercitare alla Camera non u n a «opposizione p reconce t t a e pregiudiziale» ma u n a «eventuale critica ai disegni di legge». Ci mancava poco, in­somma, che i fascisti pre tendessero dagli oppositori , p e r tol­lerare che r iprendessero il loro posto, una dichiarazione di fascismo.

I «popolari» n o n potevano subire l 'ukase, ma n o n volle­ro n e p p u r e r inunciare ai loro proposit i di r ientro . Scelsero, p e r l 'azione, un m o m e n t o che - i l ludendosi d i g ran lunga

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sugli scrupoli e sulla sensibilità dei fascisti - r i tenevano favo­revole: la c o m m e m o r a z i o n e a Monteci tor io , il 16 genna io 1926, della regina Margher i ta , m o r t a ai p r imi de l l ' anno a Bordighera . Un g r u p p o di popolar i e di demosociali riuscì effettivamente a pene t ra re nell 'aula, e potè ascoltare le ora­zioni celebrative del Pres idente dell 'Assemblea, Caser tano, e del ministro del l ' In terno Federzoni. Ma subito d o p o i p iù brutali t ra i deputa t i fascisti aggredi rono gli «intrusi», li p re ­sero a ceffoni, pugn i , calci, bu t t ando l i l e t t e ra lmente fuori da Montecitorio, dove e rano stati manda t i dagli elettori. I l P res iden te n o n in t e rvenne . Mussolini spinse la sua t raco­tanza fino al pun to di p r e n d e r e la parola, il 17 gennaio, nel­la stessa aula, e di definire «inaudito» n o n già ciò che i fasci­sti avevano fatto, ma i l c o m p o r t a m e n t o degl i u o m i n i che «furtivamente si e rano insinuati» nell 'aula «al r iparo di una g r a n d e morta»: cosicché la «indignazione» dei depu ta t i fa­scisti e ra p i e n a m e n t e giustificata. Da quel m o m e n t o ogni velleità d i r i t o rno degli avent in iani cessò. Un a n n o d o p o , come vedremo, essi furono dichiarati decadut i dal manda to par lamentare .

A fine marzo del 1926 Farinacci fu destituito - con il r i tuale plauso del Gran Consiglio pe r l 'opera svolta - dalla carica di segre tar io del P N F . A sosti tuirlo v e n n e ch iamato Augus to Turat i . Il ras di C r e m o n a e ra stato molto utile a Mussolini pe r offrire, in un pe r iodo delicato, garanzie agli estremisti, e pe r riassestare con m a n o d u r a e metodi spicciativi la mac­china del par t i to . Ma era un personaggio ingombran te , ir-r u e n t o , chiassoso, che aveva del fascismo u n a concezione pe r sona le , e n o n r inunc iava a sostener la . Le u l t ime noie p r ima del s i luramento le aveva date a Mussolini accettando la difesa di Dumin i , u n o degli imputa t i p e r i l deli t to Mat­teott i , d u r a n t e i l processo ce lebra to , a p p u n t o in marzo , a Chieti. Erano stati rinviati a giudizio Dumini , Malacria, Po-ve romo, Volpi, Viola, impu ta t i di omicidio volontar io ma non premedi ta to , commesso pe r «odio di partito». Mussoli-

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ni aveva la pretesa che il dibat t imento n o n assumesse accen­tuazioni politiche, e si svolgesse «tra l'indifferenza della na­zione» o n d e evitare - scrisse - che «l'Italia torni a matteot-tizzarsi dopo d u e anni dalla guarigione».

L'intervento, come avvocato difensore, del segretario del part i to, di sicuro non r ispondeva a questi concetti. Ma Mus­solini ci si rassegnò, r accomandando tuttavia a Farinacci di mode ra re la sua ansia di trasformare il processo agli ucciso­ri di Matteotti in un processo agli oppositori del fascismo. Il processo finì alla svelta, con la condanna di Dumini , Pove-romo e Volpi a cinque anni undici mesi e venti giorni (con­d a n n a che, grazie a quat t ro anni di amnistia, si r idusse a po­ca cosa) e con la assoluzione di Malacria e Viola. Ma alcune i m p e n n a t e farinacciane i r r i t a rono e g u a l m e n t e Mussolini , che inviò al segretario-avvocato u n a lettera p u n g e n t e , per­ché «nessuna promessa era stata mantenuta». Anche in que­sta occasione Farinacci n o n incassò t acendo . Replicò scri­v e n d o di essersi a t t enu to ai pat t i . «Il processo è d iventa to politico? Ma ques to lo si sapeva da t e m p o , a l t r iment i n o n sarei a Chieti» osservava piuttosto per t inen temente . E, con­cludeva con un tocco degno del suo fair play, «Matteotti fu da vivo un g ran porco». Farinacci fu d u n q u e , alla fin fine, l 'ultima vittima dell'affare Matteotti, e si r in tanò, dopo d'al­lora, nel suo inattaccabile feudo cremonese , deciso a inter­pre ta re con una coerenza di cui gli va dato atto l 'anima del­l ' es t remismo fascista. Il che lo p o r t ò più volte a un passo dalla espulsione. Ma quel passo non fu mai compiuto.

Turati , affiancato da quat tro vice-segretari, Arpinati, Mel-chiori, Ricci e Starace, era un giornalista bresciano. Era arri­vato al fascismo piuttosto in r i tardo, nel 1920, sull 'onda del­le sue convinzioni nazionaliste e intervent is te . Era senza dubbio un in t rans igente , con qualche vena tu r a popul is ta (aveva infatti incoraggiato lo sciopero dei metallurgici). Ma nei quat t ro anni e mezzo du ran t e i quali resse la Segreteria - la gestione più lunga, fatta eccezione per quella staraciana -d imos t rò di saper i n t e r p r e t a r e la politica di Mussolini.

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Espulse a decine di migliaia gli elementi più violenti, estre­misti, rissosi, l imitò l'afflusso delle d o m a n d e di iscrizione - che aveva assunto proporzioni di valanga - ma, meno dra­stico di Farinacci, acconsentì a immet tere nel corpo del par­tito molti che, come lui, venivano da corrent i «affini», e che servirono ad annacquarne l ' impronta squadristica. Un nuo­vo statuto del par t i to abolì ogni «elezionismo», secondo un termine fascista dalla inequivocabile sottolineatura spregiati­va. Le nomine e rano decretate dall 'alto, la periferia doveva ricevere ordini dal centro , e il cent ro dai vertici. In questa costruzione p i ramida le Mussolini assumeva u n a dimensio­ne , anche statutaria , del tu t to par t icolare . Come Capo del Gran Consiglio - al quale il part i to doveva obbedienza - co­me Capo del part i to, come Capo del governo, veniva posto al di sopra e al di là di ogni possibile condizionamento. Era la t raduzione, in termini di statuto, di concetti che Mussolini non si stancava di r ipetere nei suoi discorsi: «Le mie parole vengono dopo i fatti i quali n o n t raggono origine da assem­blee, né da preventivi consigli od ispirazioni di individui, di g r u p p i o di circoli: sono decisioni che io m a t u r o da solo e delle quali, come è giusto, nessuno p u ò essere a preventiva conoscenza; n e m m e n o gli interessat i , che possono essere gradevolmente sorpresi anche quando lasciano il posto».

Augusto Turati intendeva probabi lmente cambiare il par­tito, «normalizzarlo» imborghesendolo , r ipul i r lo es t romet­t endo gli «ultra», ma in tendeva anche conservargli u n a in­fluenza decisiva nella vita politica italiana. Se questo, come sembra, era il suo disegno, si sbagliò, per la semplice ragione che Mussolini ne aveva un altro. I l par t i to , pe r lui, doveva essere soltanto u n o s t rumento da usare in caso di necessità, ma solo in caso di necessità, a sua richiesta. Eccellente orga­nizzatore, u o m o intell igente, Turat i finì p e r consegnare al successore il part i to che Mussolini desiderava. Non più una cassa di r isonanza di fermenti politici, anche se n o n ancora la m u m m i a imbellettata del per iodo staraciano.

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C A P I T O L O S E C O N D O

NASCE IL T R I B U N A L E SPECIALE

La congiura Zaniboni fece da prologo al l 'anno degli at ten­tati, a p p u n t o il 1926. Mussolini in realtà l'aveva battezzato «anno napoleonico», in previs ione dei successi che il fasci­smo avrebbe consegui to . A sua volta Farinacci par lava di «anno francescano» n o n tanto riferendosi - è ovvio - alle ce­lebrazioni del Santo di Assisi che in tutta Italia si tenevano, quan to a u n a sorta di quares ima politica. Ma la definizione del De Felice «anno degli attentati» resta senza dubbio, a po­steriori, la p iù esatta. Del p r i m o in o r d i n e di t e m p o fu re­sponsabile Violet Gibson, ir landese di nascita, appa r t enen te a u n a famiglia aristocratica, sessantaduenne. Questa d o n n a affetta da mania religiosa, che aveva in p roge t to un 'az ione analoga contro il Papa, e che n o n risulta fosse stata istigata o a iu ta ta da a lcuno , aspet tava Mussolini confusa t ra la folla assiepata, la matt ina del 7 aprile 1926, lungo la scalinata del Campidog l io . I l Capo del g o v e r n o si stava a l l o n t a n a n d o , d o p o aver i n a u g u r a t o un congresso in ternaz ionale d i chi­ru rg ia . Por tava in testa la bombe t t a , un capo di abbiglia­men to al quale era molto affezionato, p r ima di passare alle uniformi.

D' improvviso la squil ibrata si fece avanti , e con u n a pi­stola gli sparò quasi a bruciapelo . La for tuna che assistette Mussolini in queste circostanze volle che egli alzasse di scat­to la testa, p r o p r i o in quel l ' a t t imo; secondo u n a vers ione pe r gua rda re u n a ragazza che da un balcone gli aveva but­tato dei fiori, secondo un 'a l t ra p e r sa lutare r o m a n a m e n t e un g r u p p o di s tuden t i che in tonavano Giovinezza. Ques to movimento lo salvò. Il proiettile, anziché conficcarglisi nella

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tempia, sbucciò la cartilagine del naso. Sanguinante , Musso­lini fu r i condo t to nella sala g remi ta di ch i ru rgh i , ed ebbe per loro anche u n a battuta. «Signori, vengo a met termi sot­to le vostre cure professionali.» Riapparve con il naso ince-rot ta to , e così posò an imosamente pe r i fotografi. Quel ce­rotto non gli dispiaceva. (Assai diversamente, cancellò tutte le udienze e si nascose al pubblico u n a volta che, sbalzato di sella da un cavallo, e ra stato costret to a medicarsi la faccia contusa.) Annunciò subito che Miss Gibson sarebbe stata sol­tanto espulsa, senza altre sanzioni. Il p r o g r a m m a della gior­nata n o n subì variazioni. Nel pomeriggio Mussolini insediò il nuovo Direttorio del part i to fascista, e dell 'at tentato si oc­cupò solo pe r coniare una delle sue più celebri massime: «Se avanzo, segui temi; se ind ie t regg io , ucc ide temi ; se muo io , vendicatemi». Il giorno successivo consegnò il dirigibile Nor-ge ad A m u n d s e n e quindi par t ì pe r una prevista visita uffi­ciale in Libia.

Mussolini aveva corso un per icolo serio: ma l ' a t tenta to era polit icamente insignificante, perché insignificante era la personali tà della colpevole. Vi furono attacchi a chi, dall 'e­stero, fomentava le campagne antifasciste, e vi furono criti­che d u r e , negli ambien t i fascisti in t rans igent i , al min is t ro de l l ' In te rno Federzoni , accusato di scarsa vigilanza ed effi­cienza. Federzoni stesso, in u n a lettera a Mussolini di nove giorni dopo , lo scongiurava di evitare, «per quan to è possi­bile, le occasioni inut i lmente rischiose». Ma in sostanza le ri­percussioni furono soltanto emotive.

Un march io ideologico preciso ebbe invece l ' a t tenta to dell '«anarchico individualista» Gino Lucetti: un lavoratore del m a r m o di ventisei ann i che e r a emig ra to dalla Garfa-gnana in Francia. L'anarchico pensava di po te r get tare d u e b o m b e a m a n o ne l l ' i n t e rno della Lancia di Mussolini quand'essa dal piazzale di Porta Pia avesse imboccato la via Nomentana , sul percorso verso Palazzo Chigi. Lau to veniva da Villa Torlonia, dove Mussolini n o n si era ancora trasferi­to con la famiglia - lo fece solo nel 1929 - ma dove risiedeva

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sal tuariamente d'estate. I l Lucetti, sbucato da dietro un 'edi­cola alle 10,20 dell ' I 1 set tembre, a p p e n a avvistata la Lancia del C a p o del gove rno , lanciò le b o m b e ma sbagliò mira . Q u i n t o Navar ra , l 'usciere pe r sona le d i Mussolini , che e ra nella vet tura , ha racconta to di avere ud i to «qualcosa» col­pirla violentemente . Voltatosi, vide un u o m o con il braccio alzato, tanto che pensò a u n o spettatore che avesse salutato romanamen te .

Mussolini pe rò aveva intuito il pericolo. «Andate, anda te , h a n n o tirato un ciottolo nella vettura» disse all 'autista Bo-ra t to . Era calmo. Assicurò più tardi Navar ra che «se anche l 'ordigno fosse en t ra to nella ve t tura avrei fatto in t e m p o a r i lanciar lo fuori, da vecchio bersagl iere». A Palazzo Chigi e ra in attesa De Bono, che n o n sapeva nulla del l 'accaduto. «A Porta Pia mi h a n n o tirato u n a bomba» gli annunc iò Mus­solini, con de l ibera ta solenni tà . I l Q u a d r u m v i r o corse via g r idando che avrebbe «impiccato personalmente» l 'attenta­tore. Il Lucetti, la cui bomba aveva provocato qualche feri­to, n o n grave, t ra i passanti , fu c o n d a n n a t o a t r en t ' ann i di carcere, come Zaniboni e Capello. E il suo gesto servì, come l 'episodio dell 'albergo Dragoni , a innescare richieste di più severi p rovved imen t i con t ro gli antifascisti, e di r ipr is t ino della pena di mor te .

Lucetti sostenne di n o n avere complici. Ma la sua estra­zione, le sue convinzioni , la res idenza in Francia dove p iù forte era stato l'afflusso di antifascisti, e più numeros i e rano i g rupp i operant i pe r la caduta del Regime, avallavano il so­spetto, o a l imentavano la tesi, che l 'anarchico toscano fosse stato l'emissario di p iù potent i congiurati . Ancora u n a volta l 'antifascismo, come enti tà politica, subiva u n a chiamata di cor reo , benché tutti i par t i t i e le organizzazioni di opposi­zione, pe r quel tanto che restava loro di possibilità di espres­sione, si fossero affrettati a dep lorare il tentativo del Lucetti, e a dissociarsi da esso.

La po l t rona di Federzoni era s empre più t rabal lante, lo stesso fratello del Duce, Arna ldo , ne consigliava la sostitu-

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zione. I l Direttorio del P N F aveva approva to un documen to che chiedeva la convocazione i m m e d i a t a del P a r l a m e n t o «per sancire provvediment i legislativi atti a preveni re con la sanzione capitale i delitti contro il Capo dello Stato e il Capo del Governo». Alla in t roduz ione della p e n a di mor t e si e ra del resto esplicitamente det to favorevole lo stesso Mussolini, in un discorso p ronunc ia to «a caldo» il g iorno della b o m b a di Lucetti.

Ma poi soprassede t te . Ai p r i m i di o t tob re Rocco aveva a p p r o n t a t o u n a legge che pun iva con la p e n a capitale chi avesse at tentato alle persone del Re, del Reggente , della Re­gina, del pr incipe ereditario, del Capo del governo. Musso­lini n o n volle che la C a m e r a la discutesse subito, forse pe r rafforzare nella op in ione pubbl ica la sensazione che egli non desse impor tanza alla sua incolumità, e poco si p reoc­cupasse di farla più efficacemente p ro tegge re ; o forse per­ché sapeva che la p e n a di m o r t e t rovava oppos i to r i anche nei settori più moderat i nel P N F .

A togliere di mezzo ogni sua esitazione, n o n solo pe r que­sto p r o v v e d i m e n t o ma p e r u n a ist i tuzionalizzazione p iù completa - anche dal p u n t o di vista legislativo - della ditta­tura, sopravvenne il 31 ot tobre a Bologna il terzo at tentato del l ' anno. Mussolini e ra in visita in Emilia p e r celebrarvi il q u a r t o ann iversa r io della Marcia su Roma , e l 'u l t imo del mese pa r t ec ipò , nel capo luogo , a u n a serie di ce r imon ie , nelle quali lo accompagnava il po ten te e intelligente ras lo­cale, Arpinati , un fascista sospetto di eresia, come Farinacci. Q u a n d o ormai Mussolini, inaugura to i l nuovo stadio, ispe­zionata la Casa del fascio e aper to all 'Archiginnasio il quin­dicesimo Congresso della società i tal iana p e r i l p rog res so delle scienze, stava r a g g i u n g e n d o la stazione pe r r ipar t i re , qualcuno gli sparò. La pallottola non lo ferì, p e r p u r o mira­colo, ma trapassò la fascia del l 'ordine Mauriziano che aveva a tracolla. La scena che seguì fu tumultuosa. Un ragazzo se­dicenne, Anteo Zamboni , venne linciato da fascisti present i che l ' avrebbero identificato come a u t o r e de l l ' a t t en ta to .

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Mussolini n o n denunc iò emozione, e sul piazzale della sta­zione volle passare r ego la rmen te in rivista il picchetto d 'o­nore . Poi proseguì il suo viaggio - come previsto - recando­si in Romagna , dove si t r a t t enne anche nella sua t enu ta di Carpena e - fu riferito - suonò il violino, essendosi comple­tamente dimenticato del rischio corso.

Ma ci aveva pensato, e come. La decisione di n o n m u t a r e i t inerar i , la p a u s a r o m a g n o l a , r i s p o n d e v a n o a un calcolo preciso: volevano rafforzare i l mito del Duce che, p reso di mira da avversari spietati, ma in qualche modo invulnerabi­le pe r un super iore disegno della Provvidenza, non si lascia­va spaventare. Nulla poteva farlo deviare dai suoi p rogram­mi. Però, d u r a n t e questo t e m p o d'attesa, s i andava p repa ­r a n d o un a l t ro 3 genna io , o un 18 b r u m a i o del Regime. L'attentato aveva scatenato le consuete rappresaglie fasciste: contro la sede del Lavoro, il quot idiano socialista di Genova, che fu incendiata, cont ro circoli e sedi del part i to popola re e della Azione cattolica, contro case di oppositori (una delle vittime fu Benedet to Croce). Addir i t tura, pe r ispirazione di Italo Balbo, si par lò di formare una «polizia segreta ferrare­se» e di s t endere liste di proscrizione. Farinacci p ropose di depor t a re gli antifascisti in Somalia. Mussolini impose rapi­d a m e n t e l'alt a questi sfoghi violenti. Aveva in men te qual­cosa di assai più sistematico, concreto, e risolutivo.

In u n a r iun ione del Consiglio dei ministri, il 5 novembre (sempre del '26), Federzoni e Rocco proposero u n a serie di misure repressive. Il ministro del l ' In terno si congedava con questo «canto del cigno» dalla carica, pe r passare alle Colo­nie . Già d o p o l 'a t tentato Lucett i , i l Capo della polizia Cri-spo Moncada era stato rimpiazzato da Ar turo Bocchini, p re ­fetto di Genova: un napole tano di 47 anni che m a n t e n n e i l posto fino alla mor te , nel 1940. Federzoni suggerì, e il Con­siglio dei ministri subito decise, che si procedesse a una re­visione di tutti i passaporti pe r l 'estero; che fossero condan­nati a p e n e severe coloro che tentassero di espatr iare clan­des t inamente e i loro complici, essendo la polizia di frontie-

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ra autorizzata a far uso delle armi contro i trasgressori: che fossero vietate tu t te le pubbl icazioni e tut t i i par t i t i «che esplicano azione cont rar ia al Regime», che fosse istituito il confino di polizia pe r chi commettesse atti contrar i allo Sta­to e al Regime; che ciascun comando di legione della Milizia disponesse di un servizio di investigazione politica.

Era la fine, questa volta senza infingimenti, di tutti i par­titi t ranne ' il fascista; ed era la cancellazione di quan to resta­va di u n a s tampa ind ipenden te . Era infine la instaurazione di u n o Stato nel quale il passaporto pe r l 'estero, e l 'espatrio, non e rano un diritto dei cittadini, ma u n a benevola conces­sione della autorità.

Q u a n d o Federzoni ebbe f in i to , Rocco p resen tò un dise­gno di legge che r ip rendeva quello app ron t a to d o p o l 'epi­sodio Lucetti e sanciva la p e n a di mor t e pe r gli a t tenta tor i alle persone dei Reali e del Capo del governo, e inoltre pe r chi at tentasse alla pace pubblica o si r endesse colpevole di spionaggio. Inol t re i l p roge t to puniva con la reclusione da t re a dieci anni i tentativi di ricostituzione dei parti t i , delle associazioni, delle organizzazioni disciolte, e affidava la com­pe tenza p e r g iudicare questi crimini ad un Tr ibunale spe­ciale p e r la difesa del lo Stato, p r e s i e d u t o da un gene ra l e delle t re armi o della Milizia, formato da cinque giudici scel­ti t ra i Consoli della Milizia e da un re la tore a p p a r t e n e n t e alla magis t ra tura militare. Le sentenze di questo Tribunale n o n av rebbe ro p o t u t o essere appe l la te . Anche d u r a n t e l a seduta del Consiglio dei ministri, Mussolini - che assumeva p e r s o n a l m e n t e , p e r l 'occasione, il dicastero de l l ' I n t e rno -affettò fastidio pe r i provvediment i , a lmeno nella pa r te che si riferiva alla sua tutela, ma li r iconobbe necessari «ai fini dello Stato e della tranquillità nazionale». La p e n a di mor te sarebbe stata utile pe r «virilizzare» il popolo italiano, disse.

Rocco (un giurista!) volle che le n u o v e n o r m e , t r a n n e quella che istituiva la pena di mor te , fossero retroatt ive (in­fatti comparvero davanti al Tr ibunale speciale i familiari di Anteo Zamboni, accusati di complicità nell 'attentato). Tutta-

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via l 'eccezionalità e anticosti tuzionali tà del giro di vite era così evidente che Rocco stesso sentì il bisogno di l imitarne la du ra t a a cinque anni .

L 'at tentato Zamboni sfociò, come si è accenna to , in un processo nel quale figurarono in qualità di imputa t i - tolto di mezzo c ruen temente il vero o p resun to protagonista, l'a­dolescente Anteo - il p a d r e di lui Mammolo, la zia Virginia Tabarroni , il fratello Ludovico. La famiglia Zamboni era di convinzioni vagamente anarchiche, i l che n o n aveva impe­dito a Mammolo , p e r u n a di quelle confusioni ideologiche che sono f requent i t r a gli anarchic i , di essere in dimest i ­chezza con Arpinati e di simpatizzare, in un p r imo momen­to, pe r il fascismo. Anteo era balilla: ma odiava i t iranni, e di questa sua esaltazione pe r la libertà aveva lasciato traccia in un q u a d e r n o di cui la polizia venne in possesso. Gli indizi che potevano coinvolgere nell 'at tentato i parent i del ragaz­zo e rano c o m u n q u e inconsistenti , tanto che il sostituto av­vocato militare cui fu d a p p r i m a affidata la istruttoria, Vin­cenzo Balzano, p r o p o s e i l p rosc iogl imento degli impu ta t i «per insussistenza di reato».

Ques ta conclusione n o n p iacque in alto loco, e un al t ro , più docile magistrato militare, Emanuele Landolfi, rinviò a giudizio padre , zia e fratello. Il fratello fu assolto in dibatti­m e n t o p e r insufficienza di p rove , c o n d a n n a t i invece a t r en t ' ann i di reclusione Mammolo Zamboni e Virginia Ta­barroni , so rp renden temen te graziati nel 1932. La clemenza del fascismo verso i presunt i congiurat i - in cui favore Arpi­nati si p rod igò sempre - e le sovvenzioni che Mussolini or­d inò di largire a Ludovico Zamboni , così che egli po t rà se­gu i re gli s tudi universi tari , laurears i in medic ina e chi rur­gia, e diventare ufficiale medico dell 'aviazione, avvaloraro­no la tesi che Anteo Zamboni fosse innocente, e che vero re­sponsabile dell 'at tentato fosse un g r u p p o di fascisti intransi­genti vicini ad Arpinati e a Farinacci.

La tesi è suggestiva ma n o n fondata su elementi concreti e seri. La sment ì , d o p o la cadu ta del fascismo, M a m m o l o

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Zamboni, affermando che Anteo «andò incontro al mart i r io e alla mor te con la ferma volontà di l iberare l'Italia dall 'uo­mo nefasto». Ma la smentì , con il suo compor tamen to , Mus­solini stesso che in un r impas to ministeriale del se t tembre 1929 n o m i n ò Arpinat i sot tosegretar io a l l ' In te rno . I l Capo del governo n o n poteva ignorare che la polizia aveva inda­gato a n c h e in d i rez ione del fascismo diss idente , e , avido com'era di informazioni di questo tipo, sarebbe cer tamente stato posto al co r ren te di ogni e lemento che avvalorasse so­spetti su Arpina t i . A un possibile m a n d a n t e de l l ' a t ten ta to n o n sarebbe stato affidato un incar ico di tale delicatezza. Più verosimile è che Mussolini sapesse che la condanna dei familiari di An teo era stata voluta dalla r ag ione politica, senza alcun fondamento giudiziario, e abbia posto r imedio, bene o male, a quella iniquità. Tra i fascisti più turbolent i e più insofferenti verso il pe rben i smo che Mussolini e Turat i avevano impos to al pa r t i t o affioravano senza dubb io vel­leità di «golpe». L'obbiettivo di esso avrebbe dovuto essere, più che Mussolini, la monarchia . Era stata ventilata l 'idea di un attacco a Villa Ada, la res idenza privata del Re, p e r to­gliere di mezzo i Savoia e resti tuire il Regime alla sua origi­naria purezza . Ma si t ra t tò di proposi t i nebulosi e inconsi­stenti, che n o n dovet tero p reoccupare più che tanto i l Capo del governo.

Per coronare l ' insieme di provvediment i che aveva da to al Regime anche di diri t to - d o p o che se li e ra già presi di fatto - tut t i i po te r i e tut t i gli s t r u m e n t i di u n a d i t t a tu ra , muni ta di u n a sua giustizia speciale, di una sua polizia spe­ciale, di un suo esercito speciale, fondata su un part i to uni­co, mancava un u l t imo tocco: la decadenza dei d e p u t a t i avent in iani , che n o n e r a n o ammess i a Montec i tor io , che e r a n o po l i t i camente paralizzati , ma che r a p p r e s e n t a v a n o p u r sempre un simbolo di opposizione. La loro esistenza, e la sopravvivenza di quel manda to che era stato conferito lo­ro dagli elettori, denunciavano la sostanziale illegalità istitu­zionale della situazione. Questa escrescenza fastidiosa nella

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s t ru t tura ormai omogenea del nuovo Stato dava uggia n o n soltanto agli intransigenti come Farinacci - che e rano sem­p r e in attesa di u n a «seconda ondata» r ivoluzionaria - ma anche a Mussolini stesso, s e p p u r e p e r rag ioni p ro fonda ­m e n t e diverse . La cancel lazione degli avent in ian i doveva essere p e r Farinacci u n a u l te r io re p remessa a quella solu­zione finale r ivoluzionar ia che avrebbe p o r t a t o i l Reg ime verso i t raguard i fissati al suo nascere e t ra i quali e ra la eli­minaz ione della Monarch ia ; p e r Mussolini e ra la afferma­zione definitiva del suo potere personale, e un colpo di spu­gna su un lascito sgradevole dell'affare Matteotti.

Sul l 'onda sempre del l 'a t tentato Zamboni la p ropos ta di d ich iarare la decadenza dei depu ta t i secessionisti par t ì da Farinacci, che voleva esc ludere dalla sanzione - coeren te ­mente , del resto - i par lamentar i comunisti . Sul p iano della logica l 'ex-segretario del part i to aveva ragione. I comunisti , d o p o u n a breve adesione all 'Aventino, e rano tornat i in au­la, pa r tec ipando alle sedute . N o n potevano essere associati al g r u p p o degli aventiniani che e rano rimasti fermi nella di­serzione dal Par lamento. Ma la mozione che la Camera ap­p rovò nella sua r i u n i o n e del 9 n o v e m b r e 1926 - la stessa nella quale tutte le misure eccezionali passarono con dodici voti contrar i m e n t r e se ne con ta rono 49 al Senato - recava in testa alle firme dei p r o p o n e n t i quella del segretar io del pa r t i to Augus to Tura t i , e includeva i comunis t i t ra coloro che dovevano essere epurat i .

L'anno degli attentati si risolveva pe r Mussolini in un an­no di successo politico. Anche senza le bombe di Lucetti e il colpo di pistola di Bologna, egli avrebbe cer tamente proce­du to alla stretta autoritaria. Ma avrebbe dovuto cogliere al­tre occasioni, o fabbricarle: soprat tut to non avrebbe po tu to così facilmente, senza l ' impeto di emozione e di al larme che gli at tentati avevano suscitato in u n a opinione pubblica de­siderosa ormai soltanto di quiete, impor r e le nuove leggi al Re. Quest i non protes tò e n o n si oppose alla instaurazione di u n a giustizia speciale di pa r t i to e a l l ' evidente sopruso

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con t ro ciò che restava del Pa r l amento l ibero anche se - lo ha scritto Mussolini in Storia di un anno - «da quel m o m e n t o si cominciò a par lare di una monarchia pr igioniera del par­tito e si compassionò il Re, ormai relegato in secondo piano, di fronte al Duce». Vittorio Emanuele I I I avvertiva la debo­lezza sua e delle forze su cui avrebbe po tu to contare pe r re­sistere allo spregiudicato dinamismo di Mussolini.

In quei pr imi anni di potere Mussolini ebbe sovente la ma­no felice nella scelta dei suoi col laborator i . Poi, con il t ra­scorrere del t empo perse la facoltà di d is t inguere tra capa­cità e servilismo. Q u a n d o diventò definitivamente il «Duce» gli adulatori del sissignore furono sovente preferiti a uomi­ni di valore. Capita a tutti i dittatori. Una volta l 'ambasciato­re Giuseppe Salvago Raggi riferiva a Mussolini sui risultati di una conferenza in cui a Ginevra si era discusso di gas ve­nefici: e avendogli il Capo del governo chiesto quale fosse il peggiore , Salvago Raggi r ispose deciso: «L'incenso, eccel­lenza». Fu collocato a r iposo. Ma nella n o m i n a di A r t u r o Bocchini a Capo della polizia, Mussolini ebbe una eccellente intuizione. Questo burocra te capace e scettico, che non era mai stato e non fu mai un fascista convinto, che dei fascisti non aveva né Yhabitus psicologico né gli a t teggiamenti este­riori, e pe r questo si e ra trovato in attrito con gli estremisti del part i to, seppe dare a Mussolini la polizia di cui aveva bi­sogno. Grassoccio, buongusta io , sensibile al fascino femmi­nile, Bocchini n o n aveva nul la del fanatico alla Himmler . Evitò sempre le durezze inutili e, come ha scritto un avver­sario, usò me tod i «nel loro g e n e r e cor re t t i , f r e d d a m e n t e meditati» così da c rea re «il sistema oppress ivo magis t ra le , capace di d u r a r e , capace di s t r i tolare l 'oppos iz ione senza accrescerla at traverso il prestigio del martirio». Un Fouché non intr igante e fedele - ma n o n si po tè vederlo alla prova del 25 luglio 1943 - che o t tenne il massimo di efficienza con il minimo di violenza.

L'organizzazione di cui Bocchini a n d ò via via d i sponen-

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do , e le a l t re organizzazioni accessorie collegate ad essa, e r a n o i m p o n e n t i . Alla Pubbl ica s icurezza e ai ca rab in ie r i dovevano essere aggiunt i i servizi d ipenden t i dai ministeri militari, dal minis tero degli Esteri, dalla Milizia con le sue b r a n c h e speciali . Circa cen tomi la u o m i n i cui a n d a v a n o sommati dodicimila confidenti e spie. Negli ultimi mesi del 1927 fu istituito un corpo di polizia segreta che Mussolini volle, con giornalistico intuito, fosse etichettato con la sigla O V R A , mister iosa e temibile anche p e r la assonanza con la piovra, most ro mar ino dai tentacoli enormi . Solo a posterio­ri la sigla fu messa in chiaro con u n a denominaz ione com­pleta: O p e r a di vigilanza e di repress ione dell 'antifascismo. Circa settecento agenti speciali addet t i all'ovRA si servivano del le segnalazioni di migliaia di in fo rmator i , rec lu ta t i in prevalenza t ra por t inai , camerier i , autisti di piazza, ma an­che pescati qua e là nei più vari ambienti , da quello univer­sitario a quel lo le t te ra r io . Perfino lo scr i t tore Pitigrilli, in quegli ann i famosissimo, fu, è no to , nei ruol in i delI'ovRA. La polizia segreta intercettava le conversazioni telefoniche, spulciava la cor r i spondenza , teneva d'occhio n o n solo tutti coloro che fossero sospetti di ostilità al Regime, ma anche tut t i coloro che avessero f requent i conta t t i , p e r qualsiasi motivo, con l 'estero. Venivano formulat i r a p p o r t i perf ino sul con tenu to delle scritte nei vespasiani. L'Italia fu avvolta da u n a f i t ta re te a l cent ro della quale, come un r agno sor­n ione e astuto, stava a p p u n t o Bocchini, che sapeva sempre tut to , e sovente non agiva p u r sapendo . Aveva dato dispo­sizioni alle au tor i t à per i fer iche affinché n o n p r e n d e s s e r o l 'iniziativa di a r res t i senza il suo consenso . Preferiva, con antica e raffinata tecnica poliziesca, lasciar muove re le pe­d i n e m i n o r i d i eventua l i nucle i d i oppos iz ione p e r po te r a r r ivare ai capi. Circa diecimila antifascisti t rovarono rifu­gio all 'estero a volte e spa t r i ando in circostanze d rammat i ­che , come Fil ippo Tura t i (Sandro Pertini , Carlo Rosselli e Ferruccio Parri furono condanna t i a dieci mesi di reclusio­ne pe r averne favorito la fuga).

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Le p reoccupaz ion i d i Bocchini conce rnevano l 'o rd ine pubblico italiano in generale - l 'ordine fascista - ma concer­nevano anche un singolo e p p u r e assorbente p rob lema : la incolumità di Mussolini. Dopo l 'anno degli attentati Musso­lini si mosse sempre in una cornice di poliziotti, su percorsi a t t en t amen te vigilati. F inché r imase ne l l ' appa r t amen to di via Rasella, p r ima del trasferimento a Villa Torlonia, le stra­de circostanti furono chiuse al pubblico due volte al giorno pe r i suoi passaggi in ent ra ta e in uscita. Q u a n d o poi passò a Villa Torlonia e a Palazzo Venezia un cordone ininterrot to di agenti in borghese vegliava lungo il tragitto. Se viaggiava in t r e n o , la l inea e ra ispezionata a ccu ra t amen te in p rece­denza, se visitava un edificio la polizia perlustrava ogni loca­le inclusi scantinati e abbaini, se mieteva il g rano i prestant i contadini che lo at torniavano e rano quasi tutti poliziotti, se nuo tava a Riccione i bagnan t i accanto a lui e r a n o uomin i della «presidenziale», e altri uomini della presidenziale era­no i valletti in polpe diet ro la sua pol t rona , d u r a n t e i ban­chetti a Palazzo Venezia. Dopo l ' insediamento di Mussolini a Palazzo Venezia un caffè concer to che si affacciava alla piazza dove t te c h i u d e r e i ba t ten t i p e r c h é i control l i della polizia avevano scoraggiato anche i clienti p iù affezionati. Tut to ques to i l Duce lo sapeva, t an to che u n a volta, in un p o d e r e , d o p o la mie t i tu ra p ropagand i s t i ca , disse: «I veri contadini vengano avanti».

L ' O V R A cominciò subito a da r lavoro al Tr ibunale specia­le. Nel c rea re ques to o rgan i smo Mussolini e Rocco e r a n o stati ispirati da due motivi: quello, anzitutto, di po te r colpi­re gli esponent i dell'antifascismo con una rapidità, una du­rezza, u n a disinvoltura e docilità all 'esecutivo, che i giudici o rd ina r i n o n av rebbe ro po tu to ga ran t i r e . P u r essendo in massima par te di tendenza politica modera ta , e magar i sim­patizzante pe r il fascismo, la magis t ra tura avvertiva t roppo fortemente il condizionamento della legalità pe r potersi pie­gare alle es igenze di processi nei quali la r ag ion di Stato prevaleva su ogni al tro e lemento. Non e rano mancate sen-

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tenze coraggiose e, p e r il fascismo, mol to fastidiose. Ma a Mussolini - che voleva, in circostanze normali , far trionfare 10 Stato sul part i to - interessava anche di n o n inquinare ir­r imediabi lmente , politicizzandola, u n a magis t ra tura che si e ra s e m p r e sapu ta d i s t inguere , p e r i n d i p e n d e n z a e inte­grità, tra gli altri poter i dello Stato. Il Tr ibunale speciale si pres tò d u n q u e ai bassi servizi del Regime, e giudicò, tra la fine del '26 e l'inizio del '29, 5.046 pe r sone . I c o n d a n n a t i furono meno di mille, ma degli altri n o n si sa quant i venne­ro inviati al confino. In quel p e r i o d o vi fu, secondo i dat i raccolti da De Felice, u n a sola sentenza capitale, sei condan­ne varianti t ra i 25 e i 30 anni di reclusione, 42 tra i 15 e i 25 anni , t recentoset tanta t ra i 5 e i 15, le al tre minor i . Quest i giudizi settari scompaginarono ancora più le file già assotti­gliate dei partiti. Quello che seppe meglio organizzarsi clan­dest inamente , e che subì anche la repressione più aspra, fu 11 part i to comunista. Nel «processone» del 1928 contro i di­rigenti del P C I Terracini fu condanna to a 22 anni , Gramsci, Roveda e Scoccimarro a 20. Cosicché anch'esso fu pres to ri­dot to a gruppuscol i cont inuamente insidiati dalla caccia de­gli uomini di Bocchini. In realtà la attività propagandist ica, così come la s tampa del materiale giornalistico, si trasferì al­l 'estero, e soprat tut to a Parigi dove agiva la «Concentrazio­ne antifascista». In un paio d 'anni Bocchini riuscì a sgomi­na re ogni attiva resistenza antifascista, cui la opinione pub­blica del Paese non dava d'altro canto largo appoggio.

Il fascismo era così definitivamente passato dalla violenza disordinata, indiscriminata e barbarica delle squadre d'azio­ne a un sistema di sorveglianza e di repressione sistematico, razionale. Mussolini non era crudele. Seppe p r e n d e r e deci­sioni spietate (ma più che altro le promet teva) : in generale rifuggì tuttavia dal sangue. Amava vanterie da t i ranno fero­ce («i miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche vol­ta sotto i ferri chirurgici» disse u n a volta a Galeazzo Ciano), si gloriava di incutere t imore («farò cor re re un brivido pe r la schiena di certi del inquent i di mia conoscenza i quali han-

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no usufrui to f inora della s t raordinar ia c lemenza del Regi­me»), n o n e ra generoso verso gli avversari sconfitti che si compiaceva d i umi l ia re ve rba lmen te : ma anche in ques to avvio della sua azione il Tribunale speciale, che era un Tri­bunale iniquo, illegale e servile come tutti quelli nati da ana­loghe esigenze in ana loghe circostanze, infierì assai m e n o delle Corti speciali che gli altri Stati dittatoriali andavano e vanno tut tora ist i tuendo.

Il Tribunale speciale d u r ò 16 anni e cinque mesi. La sua ultima sentenza fu pronuncia ta il 22 luglio del 1943. In quel per iodo esso i r rogò 27.735 anni di carcere a 4.596 imputat i , e p r o n u n c i ò 42 c o n d a n n e a m o r t e , 31 delle quali fu rono eseguite.

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C A P I T O L O T E R Z O

«QUOTA NOVANTA»

A questo pun to , eliminata ogni resistenza interna, «norma­lizzato» il part i to, assestati i rappor t i con la Monarchia, Mus­solini ebbe le maggiori preoccupazioni dalla situazione eco­nomica, e si dedicò assiduamente a problemi che con la eco­nomia e r a n o in in t ima conness ione : la difesa della lira, la battaglia del grano, i g randi lavori pubblici. Tutto questo in­serito nella nuova s t rut tura corporativa della società e della p roduz ione . Animale politico pe r eccellenza, Mussolini non era un esper to d i economia, ma n e m m e n o un ideologo in­transigente che al dogma politico subordinasse ogni decisio­ne economica. Procedette, anche in questi settori, pragmati -camente , sempre obbedendo a d u e imperativi categorici: il prestigio nazionale doveva sempre e a ogni costo prevalere su esigenze tecniche; ogni r iforma tendeva ad affermare la supremazia dello Stato, e dei suoi interessi, sulle richieste e pretese settoriali.

Nei pr imi anni del Regime l 'economia era stata quasi in­te ramente abbandonata al libero giuoco delle forze del mer­cato. Se ne era avvantaggiata la p roduz ione industriale: ma ne era derivato, con un imponente aumen to della circolazio­ne monetaria, anche un notevole incremento dei prezzi (l'in­dice del costo della vita era pari a 657 alla fine del 1926, con­tro 480-500 del 1923, sempre in r appor to a 1913 = 100). Le quotazioni internazionali della lira si deter ioravano rapida­m e n t e . Nel luglio del 1925 di lire ce ne volevano 145 p e r acquistare u n a sterlina, e nel luglio del 1926 ce ne volevano 154. Dopo un p receden te pe r iodo di eccessiva euforia, an­che la Borsa crollava e il G u a r n e r i po teva scrivere che «si

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potè temere che u n a immane tragedia, simile a quella vissu­ta da altri Paesi, stesse pe r essere inflitta al popolo italiano». Giuseppe Volpi, che p ropr io pe r la burrasca economica ave­va r impiazzato De Stefani nella carica di minis t ro delle Fi­nanze, era s t ret tamente legato al m o n d o e alla mentali tà in­dustriale.

Capiva pe r fe t t amente che la lira doveva essere fermata sulla china inflazionistica: ma temeva anche le conseguenze che una deflazione t roppo brusca - con il consueto corolla­r io di u n a stasi delle espor taz ioni e della p r o d u z i o n e -avrebbe arrecato alla industria, e anche alla agricoltura ita­liane. Questo spiega le esitazioni del ministro delle Finanze, e la sua propens ione pe r un assestamento della lira su un li­vello - 125 lire pe r u n a sterlina - che troncasse la spirale in­flazionistica senza p rovocare gli inconvenient i della defla­zione.

Il Duce la pensava diversamente. Sentiva il bisogno di un r i sanamento economico, ma anche d i u n a band ie ra p ropa­gandistica da agitare davant i agli italiani cui si ch iedevano pesanti sacrifici. Il fascismo aveva ricevuto la lira a quota no­vanta, nel 1922. Era logico che, superat i gli anni difficili del­l 'assestamento, la riportasse a quota novanta. Da questo ra­g ionamen to esulavano ev iden temen te considerazioni eco­nomiche anche e lementar i , come quella del circolante che nel f r a t t empo e ra stato emesso dai torchi della zecca. Ma non erano, queste, obbiezioni sufficienti a t ra t tenere Musso­lini che il 18 agosto 1926 preannunciava la svolta monetar ia con il discorso di Pesaro: «Voglio dirvi che noi c o n d u r r e m o con la più s t renua decisione la battaglia economica in difesa della lira... f ino al l 'u l t imo resp i ro , f ino al l 'u l t imo sangue . Non infl iggerò mai a ques to p o p o l o meravigl ioso d ' I ta l ia che da qua t t ro ann i lavora come un e roe e soffre come un santo, l 'onta morale e la catastrofe del fallimento della lira. Il Regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai tentativi di jugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a stron­carle q u a n d o siano individuate all ' interno».

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Erano , ha nota to i l De Felice, affermazioni p ropagand i ­stiche, legate tuttavia alla profonda convinzione di Mussoli­ni che la sorte del Regime dipendesse dalla sorte della lira. S icuramente esagerava. E difficile che u n a crisi economica abbatta un Regime polit icamente forte. Ma ad al imentare il suo t imore contr ibuivano con tutta probabilità i vaticini fu­nesti della emigrazione, e in part icolare di Nitti, che n o n si stancò mai di annunc ia re l ' imminente crollo del fascismo a causa dei suoi er ror i economici, e che ancora nel 1928, do­po la ins tauraz ione della quo ta novanta , affermava (e sul p iano tecnico aveva verosimilmente ragione) che «la sua (di Mussolini) incompe tenza ha po r t a to all 'Italia un g ran nu ­mero di assurdità, quali la stabilizzazione della lira a un tas­so paradossa le , la d i s t ruz ione del r i spa rmio , il difetto dei pagament i dei buon i del tesoro, la caduta del credi to pub ­blico». Mussolini, con il suo «buon senso contadinesco» vole­va p e r ò la rivalutazione della lira, e a D 'Annunzio scriveva press ' a poco negli stessi g iorn i del discorso di Pesaro che «non vivo che in u n a idea fissa, n o n penso che a un proble­ma, non soffro che un dolore: la lira». L'esempio tedesco lo suggestionava: «La German ia ha r imesso in circolazione il centesimo, che avevamo ignorato da quando gli uomini ave­vano preso a misura di grandezza pe r lomeno il miliardo: è quindi un 'ope ra di r i sanamento morale che va di conserva con il r i sanamento economico».

Di fronte alla volontà rozza di questo profano, poco pote­rono le obbiezioni degli esperti , Volpi compreso, le riluttan­ze e i mugugn i degli industriali, le resistenze degli agrari , le prospet t ive di disagio pe r le classi lavoratrici, che in realtà avrebbero pagato il peso maggiore della operazione. Il sem­plice annuncio della decisione italiana di r isanare la lira eb­be sui mercati valutari un effetto drastico. Nel dicembre del 1926 una sterlina valeva 107 lire, e nell 'aprile successivo ne valeva appena 86. Questo processo di rivalutazione era stato onerosamente aiutato, nei moment i difficili, dall 'Istituto dei cambi, che aveva contra t to con la Banca d'Italia, pe r i suoi

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intervent i sui mercati , un debito di tre miliardi e mezzo di lire. Finalmente, nel d icembre del 1927, fu fissata una quo­tazione stabile di 92 lire e 46 centesimi pe r u n a sterlina, 19 lire pe r un dollaro.

Il Duce era soddisfatto. Poteva scrivere orgogliosamente a Volpi, nella pr imavera del '27 (quando sembrava addiri t­t u r a che fosse difficile fe rmare il ga loppo deflazionistico), che «in Italia e nel m o n d o la r ipresa della lira è presenta ta come u n a vittoria del Regime: ciò significa che il viceversa sarebbe considera to u n a disfatta del Regime». Tr ionfatore sul p iano propagandist ico e politico, il fascismo doveva tut­tavia affrontare le conseguenze economiche della rivaluta­zione, ossia r ipar t i re i sacrifici che essa comportava . L'inci­denza sulla p r o d u z i o n e indus t r ia le e ra stata immed ia t a e sensibile. Molti stabilimenti chiusero i battenti , altri funzio­na rono ad orario ridotto. I l n u m e r o dei disoccupati crebbe, tra il 1926 e la fine del 1927, da 181 mila a 414 mila. Anche l 'agricoltura soffriva, e Farinacci lo denunc iava sp iegando che gli allevatori uccidevano vitelli e pu l ed r i neonat i , n o n essendo conveniente crescerli, e che la concimazione era ri­dotta alla metà. Gli industriali chiesero di poter r i du r r e i sa­lari pe r tonificare la produzione: ma la r iduzione dei salari, se n o n compensa ta da u n a d iminuz ione dei prezzi in te rn i che li adeguasse a lmeno in par te alla deflazione, doveva fa­talmente t radursi in una perdi ta del potere d'acquisto delle masse a reddi to fisso. Si noti, a questo r iguardo , che già pri­ma l ' incremento dei salari n o n aveva seguito di par i passo quello della svalutazione, tanto che se il costo della vita nel 1925 era, fatto uguale a 100 il 1913, a quota 623, i salari era­no a quota 533.

Le misure prese furono essenzialmente queste: l'allegge­r imento del carico fiscale; la r iduzione dei canoni d'affitto a n o n più di quat t ro volte i l loro ammon ta r e nel l 'anteguerra; la r iduz ione in un p r i m o t e m p o degli s t ipendi e della in­denni tà caro-viveri agli statali, qu indi l 'autorizzazione agli industriali e agli agrari perché procedessero ad analoga mi-

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sura verso i loro d ipendent i . La percentuale di decurtazio­ne dei salari poteva oscillare tra il dieci e il venti pe r cento. Nello stesso t e m p o i comun i v e n n e r o incaricati di fissare i prezzi dei pr incipal i gener i d i c o n s u m o , con u n a sorta d i calmiere che, come al solito, n o n funzionò o funzionò sol­tanto in misura insufficiente. Si spiega così che il ministero del l ' In terno segnalasse in u n o dei suoi periodici rappor t i lo stato di «orgasmo e di sfiducia» della massa operaia.

Ins ieme a questi p rovved iment i più s t re t t amente legati alla rivalutazione, ossia ai nodi monetar i , altri ne e rano stati presi in precedenza , e con t inuarono ad essere presi, pe r la difesa della p roduz ione nazionale: difesa che, nella visione nazionalistica ma anche provinciale del Duce, andava attua­ta n o n tanto r e n d e n d o più efficiente, tecnicamente progre­dita, m o d e r n a la macch ina p rodu t t iva , q u a n t o facendole scudo cont ro la concor renza esterna. U n a legge del 15 lu­glio 1926 aveva fatto obbligo a tutte le amministrazioni mili­tari e civili dello Stato di preferire i prodot t i delle industr ie nazionali. Furono soppressi gli esoneri doganal i pe r i mac­chinar i e i materiali impor ta t i , fu maggiora to il dazio sullo zucchero, sulla carta pe r i giornali, sulla seta artificiale, sui pesci conservati, sui semi oleosi, sui manufatt i di cotone, di lino, di canapa, di lana, sui prodot t i della metallurgia, delle materie plastiche, della gomma. Fu infine progressivamente accresciuto il dazio sul f rumento che, r ipr is t inato nel 1925 (27 lire e 50 pe r quintale), venne por ta to a oltre quaran ta li­re nel 1928, e nel 1931 sarà addir i t tura di 75 lire.

Questa impostazione protezionistica, che ci a p p a r e oggi supe ra t a e dannosa , anche p e r c h é si risolveva in un mag­gior costo dei manufatt i pe r l 'acquirente, o t tenne pera l t ro il suo scopo, che era quello di stimolare la produzione . La ri­presa economica si delineò alla fine del 1927 e proseguì nel 1928, tan to che il gove rna to re della Banca d 'I tal ia, Strin-gher, citato da Franco Catalano, poteva par lare di «più cele­re ritmo», di «attività più gagliarda» e vantare «l ' incremento delle importazioni delle materie p r ime necessarie alle indu-

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strie, l ' aumento d ' insieme della occupazione operaia nono­s tante le inevitabili r iduzioni di pe r sona le cagionate dalla r iorganizzazione tecnica e amminis t ra t iva delle az iende e dalla cresciuta capaci tà p rodu t t i va della m a n o d ' o p e r a , i l r a g g u a r d e v o l e a u m e n t o (13 p e r cento) nel c o n s u m o d i energia idroelettrica, i maggiori investimenti, la minore in­stabilità nei prezzi delle materie prime». Ma il taglio ai sala­ri era stato es t remamente du ro : nelle industr ie estrattive da u n a med ia mensile di 469 lire a 405 , nelle indus t r ie tessili da 321 a 294, nelle varie da 487 a 371 .

L ' in tervento chi rurg ico della quo ta novan t a costò un prezzo molto alto agli italiani, e fu r i t enu to d issennato da molti economisti . Esso fu consentito dalla mancanza di una dialettica politica autentica e dallo stato di int imidazione in cui era t enu to il proletar iato u r b a n o che era, ammet teva lo stesso Mussolini, «in gran par te ancora lontano e se non più con t ra r io come u n a volta, assente». Tuttavia alcuni effetti positivi fu rono o t tenu t i , e av rebbe ro p o t u t o rivelarsi p iù fruttuosi se la crisi economica mondiale del 1929 non si fos­se innestata su quella italiana, t a rpando le ali alla ripresa.

Abbiamo visto che nel complesso delle misure protezionisti­che vara te p e r d i f endere la p r o d u z i o n e i tal iana con t ro la concorrenza estera spiccava l ' aumento del dazio sul g rano . Come tut te le d i t ta ture , che sono nazionaliste anche quan­do si p ro tes tano internazionaliste, quella fascista predicava la autosufficienza economica: un obbiettivo che consente al potere di dominare meglio i fenomeni economici, sottraen­doli in pa r t e a lmeno alle cont ingenze internazional i e che p r epa ra alle emergenze di pace e soprat tut to alle emergen­ze di guer ra . Non è che il Duce pensasse, in quel momen to , a un qualsiasi conflitto a rmato : ma l'ipotesi del ricorso alle armi è sempre presente in un Regime che vanta le quadra te legioni, che pone il moschetto accanto al libro, che ammoni ­sce il popolo a do rmi r e con la testa sullo zaino. L'Italia era tr ibutaria all 'estero di una quota notevole del suo consumo

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di grano . Per diminuirla, era indispensabile incrementare il raccolto nazionale. La battaglia del g rano aveva questo fine: e il dazio sul g rano consentì ai p rodut to r i di essere al r iparo dalle offerte più convenienti e da ribassi che si verificavano sui mercat i esteri, e che avrebbero consenti to di acquistare il g rano stesso a metà del prezzo ch'esso spuntava sul mer­cato interno.

La c a m p a g n a che avrebbe dovuto po r t a r e a l t r a g u a r d o dei settanta milioni di tonnellate di raccolto fu appoggiata , l 'abbiamo det to , con misure protezionist iche, e fu sorre t ta da un immenso battage propagandist ico. Gli esperti più luci­di sapevano beniss imo che questa azione, pe r essere vera­mente profìcua, esigeva u n o sforzo qualitativo, p r ima anco­ra che quant i ta t ivo: era necessario p u n t a r e su un p iù alto r end imen to per et taro, più che su u n a estensione delle cul­ture . Il dazio, in una visione veramente illuminata, avrebbe dovuto sollecitare questo miglioramento qualitativo, n o n in­d u r r e gli agricoltori alla pigrizia di chi si sa inattaccabile dalla concorrenza. «L'aumento del dazio - scriveva u n o di loro -r i sponde piuttosto ad una t emporanea oppor tun i tà di dife­sa che a un p e r m a n e n t e bisogno di protez ione. L 'aumento della p roduz ione nazionale e il ribasso del costo di p r o d u ­zione nelle regioni p iù raz iona lmente coltivate p o t r à at te­n u a r e le dannose conseguenze del dazio sulla economia na­zionale.»

Qualcosa fu tentato, e realizzato, sul p iano della maggio­re efficienza. Ma la battaglia del grano si basò sulla quanti tà più che sulla qualità. La col tura del f rumento fu estesa ad a ree in cui e ra an t ieconomica , a scapito di altri p r o d o t t i agricoli - vino, olio - che in condizioni normal i sa rebbero stati più remunerat iv i , e che appa r t enevano alla tradizione locale. In definitiva i consuma to r i p a g a r o n o il p rezzo di questo sforzo: il che p u ò e deve scandalizzarci, ma non oltre una certa misura, se pensiamo che i g randi p rogrammator i agricoli del Mercato C o m u n e n o n sono riusciti a sfuggire, pe r p rob lemi analoghi , in un clima di cooperaz ione inter-

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nazionale e di totale libertà, e senza le lusinghe e le imposi­zioni di u n a p r o p a g a n d a di Regime, ad u n a logica altrettan­to distorta.

In rea l tà la bat tagl ia del g r a n o , con la sugges t ione di quella sua et ichet ta gue r r i e r a , obbediva ad u n a p r o f o n d a istanza del Regime, e di Mussolini: l 'ancoraggio dell'Italia ai valori di quella che fu chiamata la rurali tà. Le minacce e le opposizioni n o n solo al fascismo, ma alla sua più generica e p e r e n n e ideologia, venivano, e Mussolini l 'aveva perfet ta­mente capito, dalla industrializzazione rapida, dalla nascita di un pro le ta r ia to u r b a n o insensibile agli antichi r ichiami della religione, della Patria, della famiglia. Per questo Mus­solini amò assai più stare in mezzo ai veliti del grano, trebbia­re pe r ore , ballare sulle aie con le massaie fasciste, presenta­re il suo torace forte e tozzo in p iena luce, piuttosto che in­trat tenersi con gli operai delle fabbriche (che pe rò subivano anch'essi , s e p p u r e in minor misura , il suo fascino). Quest i propositi n o n e rano nascosti. Il Duce non voleva la emigra­zione dalle c a m p a g n e verso le città. «I mat ton i sono forse commestibili?» aveva chiesto u n a volta i ron icamente . E in un 'al t ra occasione aveva sottolineato che «il fascismo riven­dica in p ieno il suo p r e m i n e n t e cara t tere contadino» e che «la dot t r ina di questo fascismo è tutta e solo e veramente nel canto sano del contadino che to rna a casa verso un nido in cui p u ò trovare la serenità calma e calda di u n a famiglia e di una figliolanza sorr identi al benessere nuovo».

La figliolanza numerosa diventava, in questo quad ro idil­liaco, un e lemento indispensabi le . «Il n u m e r o è potenza.» La campagna demografica lanciata nel 1927 impose questa equazione che r ispondeva al fondamento moralistico e pu­r i tano di tu t te le d i t t a tu re , coincident i in ques to , s e p p u r e pe r altre s t rade, con l ' insegnamento della Chiesa cattolica. Mussolini dava l 'esempio. Nel se t tembre de l l ' anno che se­gnò l'inizio della campagna demografica gli e ra nato a Mila­no il quar to figlio, Romano , che seguiva a distanza di quasi dieci anni il terzogenito Bruno . Anna Maria venne alla luce

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nel set tembre del 1929. La spinta alla natalità fu sorret ta da misu re legislative: la p iù nota - u n a vera m a n n a p e r gli umorist i - fu la tassa sugli scapoli, che assoggettò ad un par­ticolare t r ibuto t re milioni di uomini n o n sposati (le nubili ne r imase ro i n d e n n i , r i t enendos i che fossero r imas te tali n o n p e r loro volontà) . I l r e d d i t o della tassa e ra modes to , m e n o di cento milioni annui . Ma nel con tempo furono de­cisi privilegi di carr iera pe r i d ipendent i dello Stato che fos­sero sposati con prole , rispetto agli altri. La «Giornata della m a d r e e del fanciullo» celebrò i fasti delle famiglie n u m e r o ­se, le coppie che si sposavano in infornate massicce promet­tevano di da re al Regime, trascorsi nove mesi, un congruo n u m e r o di futuri balilla, si prescrisse perfino che gli ufficiali della Milizia salutassero r o m a n a m e n t e ogni d o n n a incinta in cui si imbattessero pe r la strada.

L 'Opera nazionale p e r la p ro tez ione della ma te rn i t à e dell'infanzia, subito istituita, fu Io s t rumento burocratico-as-sistenziale della campagna , cui il Duce prestava, con il suo l inguaggio pe ren to r io , motivazioni politiche e storiche. «Il coefficiente di natalità n o n è soltanto l 'indice della p rogre ­diente potenza della Patria, è anche quello che dis t inguerà dagli altri popoli europe i il popolo fascista, in quan to indi­cherà la sua vitalità e la sua volontà di t r a m a n d a r e questa vitalità nei secoli.» La demograficità incontrollata, sicuro in­dice del sottosviluppo, diventava così un vanto. Le nazioni p r o s p e r e , e demogra f i camen te anemiche , e r a n o addi ta te come esempi da rifiutare e da disprezzare.

Queste tre direttrici di base - la difesa della lira, la batta­glia del g rano , la c a m p a g n a demograf ica - furono accom­pagna te e integrate da un vasto p r o g r a m m a di lavori pub­blici. Nessuno p u ò nega re che l 'Italia ne avesse bisogno, e che le contingenze del m o m e n t o - con la lievitazione del nu­mero dei disoccupati - lo rendessero urgente . La tendenza - p ropr ia dei regimi autori tari - di ascrivere le opere realiz­zate con il dena ro di tutti a gloria di un uomo o di un parti­to, la propens ione a scegliere lavori pubblici di vetrina, che

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ne consentissero u n a utilizzazione a fini di p ropaganda , de­finisce meglio le caratteristiche di quel complesso di iniziati­ve, ma non ne sminuisce la importanza. Fu avviata la elettri­f icazione della re te ferroviaria, che includeva 2.100 chilo­met r i a fine 1929 e ne avrebbe aggiunt i 1.600 nei qua t t ro anni successivi, fu istituita l'Anas con il compito di costruire migliaia di chi lometr i di nuove s t rade e di ap r i re le p r ime au tos t rade , furono gettati qua t t rocen to nuovi pon t i , com­preso quello che doveva congiungere Venezia alla terrafer­ma, fu for temente migliorata la re te telefonica, furono rea­lizzati acquedot t i pe r le regioni più ar ide . I t reni , secondo u n o slogan r isaputo , e rano in orar io , e il t empo di percor­renza di un t reno da Roma a Siracusa fu dimezzato.

Nel 1928 era pubblicata la legge sulla bonifica integrale, p r e p a r a t a da Attilio Serpieri , che prevedeva un complesso di nuovi lavori pe r sette miliardi, quat t ro e mezzo dei quali destinati alla bonifica idraulica, alla irrigazione, alla raccolta di acqua potabi le , i l resto p e r alloggi ru ra l i e pe r borga te nell'Italia meridionale e insulare. Fu deciso di «redimere» le paludi pont ine , desolata landa malarica a sud di Roma che invano impera tor i e papi avevano tentato di t rasformare in te r ra coltivabile, e che era preclusa anche al pascolo pe r la malaria. Un esperto di agricoltura, il conte Valentino Orso-lini Cencelli, fu incaricato di bonificare l 'agro r o m a n o , stu­diò a fondo il p rob lema , trasferì nella zona cont ingent i di capaci contadini toscani, veneti, friulani, emiliani. All'inizio degli anni Trenta i l r ecupero agricolo dell 'agro r o m a n o era un fatto compiu to . Ci fu rono in ques to sforzo, r ipe t i amo, miopie , e r r o r i , spe rpe r i e abusi . L'enfasi re tor ica con cui queste realizzazioni vennero celebrate e commenta te sfiora­va il grottesco. Ma u n o slancio, un entusiasmo, u n a volontà o una illusione di r innovare l'Italia nelle sue s t ru t ture e nel suo an imo e rano avvertibili. I mezzi e la mentali tà cui si fece ricorso e rano inerenti al sistema. Lo si è visto nella p ropen­sione ru ra l e delle p rovvidenze pubbl iche , lo si vide, sotto tutt 'al tro aspetto, nella offensiva sferrata contro la mafia.

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Mussolini aveva deciso di muove re g u e r r a alla mafia d o p o un viaggio in Sicilia, nella ta rda pr imavera del 1924. I gran­di esponent i della «onorata società», spalleggiatori del fasci­smo negli anni della sua presa di potere , n o n gli avevano le­sinato le manifestazioni di ossequio e di devozione . Anzi gliene avevano date t roppe , e con un tono, a volte, di prote­zione e di complicità che al Duce e ra parso , e n o n a tor to , insultante. Egli capì il pericolo che il Regime potesse essere identificato, in Sicilia, con le coppole storte, e che la sua tol­leranza verso i soprusi dei pezzi da novanta fosse considera­ta omertà . Tornato a Roma, aveva convocato il 27 maggio a Palazzo Chigi De B o n o , Federzoni , alcuni alti funzionari della polizia, e chiesto a chi potesse essere affidato il compi­to di l iquidare la mafia. De Bono aveva spiccicato, con u n a certa esitazione, i l n o m e del prefet to Cesare Mori , accolto dal Duce con u n a delle sue smorfie di corruccio. In effetti Mori, del quale nessuno contestava le capacità, e ra sulla li­sta nera fascista.

Aveva allora 52 anni . Figlio di ignoti, abbandonato a Pa­via sulla ruota di un brefotrofio, aveva poi assunto il cogno­me dei genitori adottivi. Allievo dell 'Accademia mili tare di Torino, vi aveva conseguito il g rado di sottotenente, ma poi p e r i l m a t r i m o n i o con u n a ragazza che i r ego lamen t i del t empo r i tenevano inadeguata - era senza dote - al suo status di ufficiale di carr iera, aveva lasciato l'esercito. Vinceva su­bito dopo un concorso pe r la ammissione alla Pubblica sicu­rezza e, inviato in Romagna, vi si dist inguerà - secondo i re­pubblicani locali «tristemente» - pe r il suo p u g n o di ferro. Destinato in Sicilia, p r e n d e v a di pe t to , con la i r ruenza del suo carattere, la del inquenza comune - un bandi to fu da lui ucciso a fucilate in u n a sorta di duello rusticano - e la mafia. S e m p r e in Sicilia par tec ipava , d o p o Capore t t o , alla lotta contro le torme di disertori che si e rano rifugiati nell'isola, e vi praticavano il brigantaggio. Giolitti aveva da t empo nota­to la stoffa di quel poliziotto così alieno dalla ordinar ia am­ministrazione. E si interessò con Or lando , Capo del gover-

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no, pe rché lo nominasse questore . Propr io come questore , a Bologna, Mori s'era trovato a fronteggiare le violenze del­le squadre fasciste di Balbo e Arpinati . L'aveva fatto con la consueta risolutezza, att irandosi i fulmini di Balbo («Stiamo lot tando contro i partiti antinazionali protet t i ignominiosa-m e n t e dal prefet to Mori») e dello stesso Mussolini che sul Popolo d'Italia lo definiva «servitore ot tuso del gove rno di Roma» la cui vita n o n meri tava «una goccia di sangue del­l 'ultimo fascista di provincia». Duran te u n a manifestazione fascista a Bologna Mori , l 'odiato «prefettissimo», e ra stato costretto a barricarsi nel Palazzo d'Accursio. Il debole Facta compensò Mori dei servizi resi relegandolo a Bari: e Musso­lini, venti giorni dopo la Marcia su Roma, lo sospese da ogni incarico.

Si spiega, d u n q u e , la perpless i tà del Duce q u a n d o De Bono e Federzoni avevano caldeggiato la des ignaz ione di un funzionario così march ia to come proconsole in Sicilia. Tuttavia Mussolini - che all 'occorrenza sapeva dimenticare -s u p e r ò i dubbi . Sentiva che Mori faceva pe r lui in Sicilia, così come Bocchini a Roma. Sul finire del 1925 il superpre -fetto d i ede inizio, con po te r i p r a t i c a m e n t e illimitati, alla «pulizia» dell'isola. Con 800 uomin i attaccò i bandi t i e ma­fiosi ar roccat i sulle Madon ie , passò al setaccio borga te e città, prese nelle sue reti molti pesci piccoli ma anche qual­che pesce grosso, come Calogero Vizzini e Genco Russo, se­guì le tracce indicate dalle lettere anonime, utilizzò spregiu­d ica t amen te i confidenti , fece r icorso ai mezzi più bruta l i per i n d u r r e alla resa i capicosca. Confiscava pa t r imoni , se­questrava, q u a n d o gli pareva occorresse, le d o n n e dei lati­tanti, faceva macellare il best iame sulle piazze e distribuiva la carne ai poveri, proclamava che «se i siciliani h a n n o pau­ra dei mafiosi li convincerò che io sono il mafioso più forte di tutti». Era, ha osservato Arr igo Petacco in u n a biografìa di Mori , p iù u n o sceriffo che un prefet to. La magis t ra tura agiva sos tanzia lmente ai suoi o rd in i , su p r o v e discutibili , e m a n a n d o sentenze spicciative e severe. Si d i ede ro casi di

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mafiosi condannat i pe r crimini avvenuti lo stesso giorno, al­la stessa ora, a centinaia di chilometri di distanza. Il garanti­smo legale era stato travolto dal dinamismo di questo ditta­tore de l l ' o rd ine pubbl ico siciliano. Ma, r iconosciuto tu t to questo , va p u r det to che la mafia ricevette da lui un colpo t remendo , e che p ropr io allora molti tra i suoi capi e grega­ri cercarono scampo negli Stati Uniti, pe r sfuggire alla cac­cia degli uomini di Mori. Si usa r ipetere che il prefettissimo r i spa rmiò i maggior i m a n d a n t i , si insiste sulla sterilità di una azione solo poliziesca, n o n sociale.

Obbiezioni che possono essere valide, in qualche misura, a pa t to che non si voglia sottovalutare i risultati impor tant i che Mori o t t enne . N o n si fermò n e p p u r e di f ronte a un esponente fascista che stava emergendo , Alfredo Cucco, fe­derale di Palermo. Cont ro costui il superprefet to accumulò una documentaz ione implacabile, che indusse Mussolini a sciogliere, agli inizi del 1927, il fascio di Palermo, e a con­sentire la incriminazione del Cucco. In questo suo ruolo di proconsole con poter i pressoché assoluti Mori aveva tutta­via p e r d u t o il senso del limite. Il prefet to giolittiano di Bo­logna era diventato un fanatico della camicia nera , assume­va pose gladiatorie, si compiaceva della popolari tà e la solle­citava. Mussolini, che nel marzo del 1928 l'aveva convocato a Roma ed esor ta to a «provvedere alla l iquidazione giudi­ziaria della mafia nel p iù breve t e m p o possibile», t re mesi dopo gli concedeva il laticlavio, togliendolo dalla Sicilia. Se­condo u n a spiegazione che forse concede t roppo agli sche­mi marxisti , il prefettissimo fu l iquidato pe rché , m e n a n d o colpi d'accetta nella giungla mafiosa, aveva colpito n o n solo gli esponent i minori , ma anche notabili di p r imo piano, le­gati sa ldamente al fascismo. Non possiamo escluderlo. Ma va p u r detto che Mori - mor to dimenticato nel 1942 - sem­brava a un certo momen to ubriacato dalla sua «missione», e che la emergenza poliziesca e giudiziaria da lui instaurata in Sicilia non poteva diventare regola in u n o Stato cui il Duce voleva dare connotati di normali tà autoritaria. La mafia so-

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pravvisse senza dubbio a Mori, ma dopo che si era volonta­r iamente ibernata: e risorse anche grazie al r i to rno di quei «boss» che p ropr io pe r sfuggire al g rande giustiziere aveva­no traversato l 'Oceano.

Lo Stato fascista non poteva consentire che i conflitti tra le forze sociali si sviluppassero e risolvessero secondo u n a lo­gica spontanea, e perciò spesso turbolenta. La preminenza , affermata a ogni pie sospinto, del l ' interesse nazionale sul­l'interesse individuale, esigeva che queste tensioni logoranti fossero sostituite da una dialettica mediata, appun to , si dis­se, pe r salvaguardare i beni supremi su cui vigilava lo Stato forte, saggio, onnipresente . Questa concezione dei rappor t i tra capitale e lavoro aveva avuto una pr ima at tuazione pra­tica, lo abbiamo visto, nei patti di Palazzo Vidoni che furono la c o n d a n n a a mor te del sindacalismo libero. Era u n a con­cezione che , sotto la a p p a r e n z a della imparzial i tà , aveva funzionato quasi s empre , nei p r imi ann i del fascismo, in d a n n o dei lavorator i . Anche q u a n d o - come p e r la quo ta novanta - Mussolini si e ra trovato in contrasto con gli am­bienti finanziari, la decisione da lui presa n o n era stata favo­revole alle masse: aveva semplicemente richiesto un sacrifi­cio gravoso ai d ipendent i a reddi to fisso, e imposto qualche danno anche agli imprendi tor i .

La legge sindacale del 1926, che d iede un assetto giuri­dico alla materia, e gettò le basi dello Stato corporativo, era stata p r e c e d u t a da u n a de l iberaz ione del G r a n Consiglio che tracciava le l inee del proget to . Essa stabiliva che «il fe­nomeno sindacale deve essere controllato e inquadra to dal­lo Stato», che pe r ogni specie di impresa o categoria di lavo­ratori la rappresen tanza sarebbe stata accordata ad un solo sindacato, fascista; che una magis t ra tura ad hoc avrebbe de­finito le vertenze derivanti da rappor t i di lavoro; e che infi­ne «deve essere vietata la auto-difesa di classe, cioè la serra­ta e lo sciopero». La interpretazione di queste consegne del Gran Consiglio diede luogo a qualche contrasto tra l'ala mo-

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dera ta del fascismo, che aveva il suo in terpre te nel guarda­sigilli Rocco, e che temeva anche le caute concessioni popu­liste che la legge avrebbe po tu to con tene re , e il sindacali­smo fascista di Rossoni. La Conf indust r ia , che app rovava calorosamente il divieto di sciopero, avrebbe voluto conser­vare qualche maggiore autonomia di movimento pe r quan­to r iguardava le imprese, ma era soddisfatta.

Il varo della legge sindacale fu salutato dalla s tampa fa­scista come u n a «data storica». In un messaggio «a tutti i fa­scisti» il Duce, con il suo vecchio tono tribunizio, spiegò che «l 'ordinamento corporativo dello Stato è un fatto compiuto» e che «lo stato demo-liberale, agnostico ed imbelle, fu: al suo posto sorge lo Stato fascista». «Per la p r ima volta nella storia del m o n d o - cont inuava il messaggio - u n a rivoluzione co­strutt iva come la nos t ra realizza pacificamente, nel campo della p roduz ione e del lavoro, l ' i nquad ramen to di tu t te le forze economiche ed intellettuali della nazione, pe r diriger­le verso u n o scopo comune . Per la p r ima volta si crea un si­s tema p o t e n t e d i quindic i g r a n d i associazioni, tu t te poste sullo stesso piano di parità, tutte riconosciute nei loro legit­timi e conciliabili interessi dallo Stato sovrano.»

Il sistema corporativo fascista, che subì successivi adegua­ment i (anche perché, secondo una espressione di Bottai, al­l'inizio le Corporazioni sembravano destinate a girare isola­te l 'una dal l 'a l t ra , p e r d u t a m e n t e , nel l 'orbi ta dello Stato), non mutuava nulla, in sostanza, dalle Corporazioni antiche; che nascevano, in generale , dalla esigenza, avvertita in de­t e rmina t e ca tegor ie , d i p ro tegge r s i dallo s t r apo te re dello Stato. Le Corporazioni fasciste, cui D'Annunzio aveva dato qualche ispirazione con la Carta del Carnaro , furono al con­trario u n a emanazione di quel potere . Con esse l'ideale del­la pace sociale veniva perseguito togliendo alle par t i poten­z ia lmente in conflitto la l ibertà di scontrars i . La s t ru t tu ra corporativa poggiava, lo abbiamo già accennato, su quat t ro capisaldi. 1) Il r iconoscimento legale delle associazioni sin­dacali dei dator i di lavoro e dei prestatori d 'opera , e l'attri-

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buzione a queste associazioni di u n a competenza di diri t to pubblico; 2) la disciplina giuridica dei contratt i collettivi di lavoro; 3) la magis t ra tura del lavoro pe r d i r imere i conflit­ti.; 4) il divieto di sciopero e di serrata.

Al vert ice d e l l ' o r d i n a m e n t o sindacale e corpora t ivo fu poi posto il Consiglio nazionale delle Corporazioni , nel qua­le e rano rappresenta te le sezioni e le sottosezioni corr ispon­dent i ai g randi r ami della p roduz ione e della libera attività professionale e artistica. Il Consiglio nazionale delle Corpo­razioni era pres ieduto formalmente da Mussolini; ma in sua vece lo presiedeva di n o r m a il ministro delle Corporazioni . Le funzioni del Consiglio fu rono , q u a n d o i l s istema rag­giunse un certo assestamento, duplici: consultive e normat i ­ve. Esso espr imeva un p a r e r e sulla attività legislativa dello Stato nel campo sindacale e corporativo, e sui ricorsi ammi­nistrativi in materia sindacale. Inol tre , con funzioni norma­tive, il Consiglio coordinava le leggi sui rappor t i di lavoro, e sovrintendeva alla attività assistenziale esercitata dalle asso­ciazioni sindacali. Infine il Consiglio stesso autorizzava le as­sociazioni sindacali a de te rminare le tariffe pe r le prestazio­ni professionali e ad e m a n a r e rego lament i obbligatori pe r gli appa r t enen t i a u n a categoria. Scriveva u n a pubblicazio­ne di allora: «Se si considera il sistema corporat ivo nel suo spirito più profondo e nelle sue più alte finalità si scorge che esso, m e n t r e si ispira a super ior i pr incipi etici quali l 'auto­rità statale, la pacifica convivenza, la concorde collaborazio­ne di tut te le categorie produt t ive , il loro elevamento mora­le e intellettuale, espr ime al t e m p o stesso il più p ieno rico­noscimento della realtà economica dei nostri giorni domi­nata dal fenomeno della concorrenza tra le varie economie nazionali , di f ronte al qua le f e n o m e n o i l d i v a m p a r e della lotta di classe c o n d u r r e b b e fa ta lmente alla sopraffazione economica e politica. Si p o n e per tan to l ' imperiosa esigenza della magg io re compat tezza organica delle singole comu­nità politiche e della riaffermazione del l 'uni tà nazionale in senso economico oltreché politico».

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Questo discorso è fumoso, e articolato in forma oscura, co­me spesso nello stile degli ideologi, quale che sia la loro parte . Ma un concetto è chiaro, nel labirinto delle frasi: ogni attività economica, e gli interessi delle categorie che vi si dedicavano, dovevano r imanere subordinat i alla volontà dello Stato. Le Corporazioni fasciste ebbero d u n q u e un marchio burocrati­co, autor i tar io , dirigistico come si d i rebbe oggi. Ci si illuse che grazie al nuovo sistema la lotta di classe potesse essere eli­minata. Certo furono eliminate le sue forme esteriori, e furo­no legate le mani ai sindacalisti combattivi. L'ordinamento fa­vorì i datori di lavoro, (industriali o agrari, a scapito dei lavo­ratori . Anche gli interventi della magis t ra tura del lavoro ri­sul tarono, in un p r imo t empo , così lenti, da p o r r e la pa r t e più debole - i lavoratori - in una drammat ica situazione di inferiorità. Propr io pe r ovviare a questi inconvenient i fu adottata, nel 1930, una serie di provvedimenti che fece della giustizia del lavoro uno s t rumento più equo. Le decisioni dei magistrati furono da allora orientate in favore dei d ipenden­ti: il che non solo diede a questi ultimi maggiori garanzie, ma indusse gli imprenditori a preferire le procedure e le soluzio­ni conciliatorie, senza più rifugiarsi sistematicamente, come era accaduto in precedenza, negli stancheggiamenti cui ogni vertenza si prestava in sede giudiziaria.

L'edificio corpora t ivo , che e ra s e m p r e «in divenire» - Mussolini stesso aveva posto un t r agua rdo secolare pe r il suo comple tamento - n o n assunse mai, in realtà, le caratte­ristiche di un sistema organico, nel quale cioè le p remesse «ideologiche» si r iverberassero , come avviene nei sistemi «socialisti», in tut t i i set tori della società e delle attività. Troppi elementi impedivano che questa strada fosse percor­sa fino in fondo. Anzitutto il p ragmat i smo del Duce che non voleva essere impr ig iona to e n t r o schemi t r o p p o rigidi . Q u a n d o Giuseppe Bottai, ministro delle Corporazioni , vol­le ampliare le funzioni del suo dicastero, fino a trasformarlo nel p e r n o di u n a vera p rogrammazione nazionale, Mussoli­ni lo bloccò, a s sumendone pe r sona lmente , nel 1933, la re-

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sponsabilità. Si opponevano inoltre a un dirigismo coerente le resis tenze della classe imprend i to r i a l e , la vischiosità di u n a amminis t razione che agiva paral le lamente al fascismo, senza confondersi con esso, lo spirito di iniziativa individua­le e anche l 'anarchismo e la approssimazione italiani. Tutti e lement i che, mutatis mutandis, h a n n o poi giuocato e conti­n u a n o a giuocare contro altri conati dirigistici - e probabil­men te è stata una fortuna - negli anni del dopoguer ra . Iso­le potent i di economia liberale - o anarco-liberale - resiste­vano così gagl ia rdamente accanto alle s t ru t tu re e incrosta­zioni corporative, e agivano all ' interno di esse.

La sistemazione dei rappor t i tra le classi secondo «l'etica e i principi del fascismo» fu completata con la Carta del La­voro , «summa» della socialità del Regime, e labora ta nelle sue p r i m e s tesure da G iuseppe Bottai , so t tosegre tar io e qu ind i minis t ro delle Corporaz ion i . La formulaz ione di ques to d o c u m e n t o aveva no tevo lmen te a l la rmato le orga­nizzazioni dei datori di lavoro, che vedevano in esso una in­sidia alla libertà di impresa e al normale meccanismo delle forze economiche. Tanto tenaci furono queste resistenze che Bottai, dopo aver tentato invano, ai pr imi del 1927, di con­ciliare i pun t i di vista della Confindustria e del sindacalismo fascista di Rossoni , t rasmise al Duce d u e diverse versioni della «Carta», invitandolo a tagliare d 'autor i tà il n o d o per­ché «il congegno del l 'ord inamento corporativo non p u ò ri­posare che parzialmente sul consenso delle parti», e «al suo funzionamento è indispensabile l ' intervento risolutivo della volontà politica, l 'azione dello Stato forte». Alla mediazione tra i due testi mise le mani Rocco, come al solito accentuan­do la impronta conservatrice, poi Mussolini ricorresse il cor­re t to , e infine la no t te t ra il 21 e il 22 apr i le 1927 il Gran Consiglio approvò la Car ta che n o n aveva valore giuridico in se stessa, ma enunciava pr incìpi che la legislazione suc­cessiva avrebbe dovuto t r a d u r r e in concreti provvedimenti . Essa fu salutata comunque dalla s tampa fascista con ditiram­bi entusiastici, si scrisse che era «il p u n t o di par tenza pe r la

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costruzione della nuova organizzazione della società italia­na» e che realizzava «lo stato del popolo». La Carta fu, tutto sommato, uno s t rumento propagandist ico del quale Musso­lini sentiva il bisogno pe r t appare con esso la bocca a quant i accusavano il fascismo di essere l 'espressione del g r ande ca­pitale agra r io e indus t r ia le . Il g r a n d e d e m a g o g o vi aveva trasfuso il suo frasario magni loquente ed efficace, già avver­tibile nei d u e pr imi articoli: «La Nazione italiana è un orga­nismo avente f ini , vita, mezzi di azione super ior i , p e r po­tenza e dura ta , a quelli degli individui divisi o r aggruppa t i che la compongono . E u n a unità morale , politica ed econo­mica, che si realizza in tegra lmente nello Stato fascista». «Il lavoro, sotto tut te le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manual i , è un dovere sociale. A que­sto titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato.» Negli articoli successivi la Car ta del Lavoro r iassumeva le conce­zioni corpora t ive ( l 'organizzazione sindacale è l ibera, ma «solo il s indacato lega lmente r iconosciuto e sot toposto al controllo dello Stato ha il diritto di rappresen ta re legalmen­te tutte le categorie», «nel contrat to collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà t ra i vari fattori del­la produzione» ecc.); e riaffermava, pera l t ro , la prevalenza del la iniziativa pr iva ta sulla iniziativa pubbl ica nel c a m p o imprend i to r i a l e , passaggio ques to fo r t emente voluto da Rocco («l'intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l'inizia­tiva privata o q u a n d o siano in giuoco interessi politici dello Stato»). Per quan to r iguardava i lavoratori, la Carta sancì il diritto al riposo settimanale, alle ferie, a u n a maggiore retri­buzione pe r i turni di notte , alla indenni tà di licenziamento; stabilì che i benefici dei contratt i collettivi si estendessero ai lavoratori a domicilio, det tò criteri p e r la prevenzione degli infortuni e pe r la previdenza, diede base paritetica (con rap­presen tan t i delle d u e part i ) agli uffici di col locamento. Fu ins ieme u n a sintesi del corpora t iv i smo, i l s o m m a r i o di princìpi e n o r m e a difesa dei lavoratori che e rano ormai pa-

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t r imonio c o m u n e degli Stati civili, e un catalogo di b u o n e intenzioni. Grazie ad essa il fascismo potè affermare che era stata trovata u n a «terza via» sociale, diversa dal capitalismo egoista, diversa dal comunismo collettivizzatore.

La s t r u t t u r a corpora t iva n o n fu trasferi ta i n t eg ra lmen te , per il momen to , nelle assemblee legislative. Progetti di tota­le «corporativizzazione» della Camera e del Senato furono affacciati e discussi, t ra il 1927 e il 1928, q u a n d o si trattò di definire il sistema elettorale. Ma alla fine venne varata u n a legge che «fascistizzava» la Camera , senza tuttavia render la del tutto corporativa. Le nuove n o r m e furono approvate i l 16 marzo 1928 dalla Camera , due mesi dopo dal Senato, in en t r ambe le assemblee con schiacciante maggioranza . Gio­litti p r o n u n c i ò in quel la occasione il suo u l t imo discorso pa r l amen ta re , a m m o n e n d o che veniva segnato «il decisivo distacco del Regime fascista dal Regime ret to dallo Statuto (albertino)». Il senatore Luigi Albertini mosse anch'egli , in­sieme a pochi al t r i , cr i t iche al p roge t t o , cui Mussolini re ­plicò asserendo che «lo Statuto n o n c'è più n o n pe r ché sia stato r innegato , ma pe rché l'Italia d'oggi è p ro fondamente diversa dall 'Italia del 1848».

Con la legge elettorale veniva istituito un unico collegio nazionale, e i deputa t i e rano ridotti a 400. Le confederazio­ni sindacali nazionali legalmente riconosciute ed alcuni enti morali e associazioni apposi tamente designati avrebbero in­dicato mille nomi , tra i quali il Gran Consiglio avrebbe pre­scelto - anche con aggiunte di sua iniziativa tra personali tà «di chiara fama» - l 'elenco dei qua t t rocen to . U n a maggio­ranza del la m e t à più u n o dei voti alla lista unica avrebbe por ta to alla Camera tutti i 400 candidati . L'elettore era chia­mato a r i spondere con un sì o con un no alla d o m a n d a «ap­provate voi la lista dei deputa t i designati dal Gran Consiglio nazionale del fascismo?». La legge disponeva anche come si dovesse procedere ove il voto popolare fosse stato contrar io alla lista: ipotesi che comunque era fuori dalla realtà.

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In un complesso giuoco di equilibri Mussolini fascistizza­va la Camera , statalizzava il fascismo e debilitava la Monar­chia. Una circolare del Duce ai Prefetti, agli inizi del 1927, aveva stabilito d u e pr inc ìp i egua lmen te impor t an t i : che i l prefetto era «la più alta autori tà dello Stato nella provincia», n o n essendo p iù in discussione in alcun m o d o , d u n q u e , la sua supremaz ia sul segre tar io federale; ma che i l prefet to era anche «il rappresen tan te politico del Regime Fascista» al quale «tutti i cittadini, e in p r imo luogo quelli che h a n n o il g r a n d e privilegio ed il massimo onore di militare nel fasci­smo, devono rispetto ed obbedienza». Non basta. Aggiunge­va la circolare che «laddove necessita il prefetto deve eccita­re ed armonizzare la attività del part i to nelle sue varie ma­nifestazioni» pe r ché «l 'autorità n o n p u ò essere condo t ta a mezzadria» e «il part i to e le sue gerarchie. . . n o n sono, a ri­voluzione compiuta , che u n o s t rumen to consapevole della volontà dello Stato, t an to al cen t ro q u a n t o alla periferia». Con queste misure , Mussolini «burocratizzò» il fascismo e affidò al partito funzioni di parata . Per essere più forte, con­t ro le residue velleità «rivoluzionarie» di a lcune frange del vecchio squadrismo, confuse Stato e part i to. Il part i to perse ogni mordente : e quanto lo avesse perso fu possibile consta­tarlo nella crisi del 25 luglio 1943.

Con un'altra decisione - che anch'essa avrebbe p rodo t to i suoi lontani effetti il 25 luglio - il Gran Consiglio del fasci­smo divenne, nel se t tembre del 1928, un «organo costitu­zionale dello Stato». Presieduto dal Capo del governo, e da lui convocato, il Gran Consiglio era incaricato di «coordina­re tutte le attività del regime», di approvare , come abbiamo visto, la lista dei deputat i , di pronunciars i sulle nomine del P N F , di esprimere parer i «sulle questioni aventi carat tere co­stituzionale», ivi inclusi i poter i e le attr ibuzioni del Re e la successione al t rono. Ques t 'u l t ima facoltà del G r a n Consi­glio sottoponeva addir i t tura ad una sua valutazione politica il meccanismo ereditario e aggravava la ipoteca fascista sulla Corona , anche se Mussolini si sentì in dovere di precisare

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che n o n vi e rano dubbi sulla automaticità della ascesa al t ro­no del principe Umber to , q u a n d o il pad re fosse mor to .

L'affronto alla Monarchia era bruc iante : ma sugli effetti che esso ebbe le tes t imonianze e i p a r e r i fu rono e res tano tu t tora controversi . Mussolini scrisse nella Storia di un anno che la legge sul G r a n Consiglio «de terminò il p r i m o grave ur to fra monarchia e fascismo» e che «da quel g iorno Vitto­rio Savoia cominciò a detestare Mussolini e a covare un odio t r e m e n d o contro il fascismo». Sempre secondo Mussolini, il Re aveva det to che «il gr ido della successione n o n p u ò esse­re che il t radizionale: il Re è mor to ! Viva il Re!». Test imo­nianza di p r ima mano , e che più autorevole non si pot rebbe pensare : ma recata dal Mussolini di Salò, invelenito cont ro la Corona , e qu indi t endenz ia lmen te fazioso. Tuttavia Fe­de rzon i , nelle sue m e m o r i e , ha sos tanz ia lmente ricalcato ques ta traccia r a c c o n t a n d o - s e p p u r e con in tenz ioni f i lo­monarchiche - che la legge sul Gran Consiglio aveva lo sco­po di ricattare il Principe di Piemonte, ostile al fascismo, co­s t r ingendolo a un a t teggiamento più favorevole. U m b e r t o di Savoia ha peral t ro negato che la legge sul Gran Consiglio fosse stata causa di dissapori tra il p a d r e e Mussolini. I r ap ­por t i t ra i d u e sa rebbero stati p e r dieci ann i , dal discorso del 3 gennaio 1925 fino al 1935, sempre buoni . Resta il fat­to che Vittorio Emanuele I I I , anche se si sentì offeso e tur­bato, non r i tenne di dover espr imere in m o d o chiaro ed uf­ficiale questi suoi sentimenti al Duce. Egli forse non capì che con le nuove prerogat ive del G r a n Consiglio la «diarchia», che già esisteva nei fatti, era stata istituzionalizzata, anzi ad­dir i t tura costituzionalizzata.

Il Duce aveva congegnato u n a s t ru t tura politica, sociale, burocrat ica che r ispondeva ai suoi scopi. Tutto faceva capo a lui, il Gran Consiglio, il Governo, il Partito, le Corporazio­ni. Lo Stato era fascista, e il fascismo era statalizzato. La Ri­voluzione, che cont inuava a qualificarsi tale, e ra diventata amministrazione.

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C A P I T O L O Q U A R T O

LA CONCILIAZIONE

La Conciliazione fu il p u n t o d 'arr ivo di due esigenze diver­se ma t e n d e n t i allo stesso obbiet t ivo. Per la Santa Sede si t ra t tava d i p o r r e f ine , con un accordo soddisfacente , che n o n sembrasse una resa, alla «iniqua condizione fatta al ro­m a n o Pontefice». Per Mussolini si t rat tava di accelerare la dissoluzione di ciò che restava del part i to popolare , toglien­do alla sua opposizione al Regime il f ondamen to mora le e politico della «Questione romana»; e di at t irare inoltre ver­so il fascismo quelle masse cattoliche che ancora e rano per­plesse ed esitanti. L'anticlericalismo dei fascisti della p r ima ora , e le declamazioni atee del Mussolini pre-fascista, n o n erano stati del tutto dimenticati , a lmeno da chi dimenticarli n o n voleva. Senza dubbio Mussolini e ra stato poi largo di gesti e provvediment i che attestavano la sua ansia di ingra­ziarsi la Chiesa. II Crocefisso era tornato nelle scuole e negli ospedali , l ' insegnamento religioso era stato reso obbligato­rio, i seminaristi avevano ot tenuto l 'esonero dal servizio mi­litare, la Messa era divenuta un accessorio indispensabile di molte solenni cer imonie ufficiali.

Con la abilità tattica e la spregiudicatezza ideologica di sempre , Mussolini voleva la pace con la Chiesa pe r cattura­re i cattolici. Sapeva che, se vi fosse riuscito, il suo potere sa­rebbe divenuto notevolmente più forte, e più capillare. Non era disposto a dividere con la Chiesa il p redomin io politico in alcuni settori essenziali - la lotta che mosse alle organiz­zazioni giovanili cattoliche fu senza quar t iere , e si concluse con la loro cancellazione - ma era disposto a largheggiare in altri settori. Quan to di questa conversione corrispondesse a

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un mu tamen to di convinzioni personali è difficile dire. Nel­l ' uomo ogni a t t egg iamen to e ra subord ina to alle esigenze del momento , e legittimato da esse. Questa affermazione va­le pe r il mang iapre t i smo forsennato della fase socialista, e vale p e r i l p e r b e n i s m o cattolico degli ann i di gove rno . Si racconta che egli abbia s e m p r e avuto carissimi un libro di p reghie re , un rosario, e u n a catenina d 'oro con u n a meda­glietta della M a d o n n a donatigli dalla madre . Questo attac­camento, se r i sponde a verità, e ra più superstizioso, o fami­liare, che religioso. Certo è che pe r il Natale del 1925 Beni­to e Rachele, già uniti in matr imonio con il solo rito civile, si r i sposarono davanti all 'altare. Altret tanto certo è che Mus­solini assistette, du ran t e il ventennio, solo alle cer imonie re­ligiose impostegli dal suo ruolo ufficiale.

Come abbiamo ampiamen te riferito ne Lltalia in camicia nera, già nei mesi immedia tamente successivi alla Marcia su Roma Mussolini aveva voluto p r e n d e r e contat to con il car­dinale Gasparri , u o m o chiave della politica vaticana. A metà di genna io del 1923 il Capo del governo fascista e il cardi­nale segretario di Stato s ' incontrarono segretamente , in un palazzo messo a disposizione dal p r e s iden t e del Banco di Roma, conte Santucci, che si era prestato come intermedia­rio. Parlarono soprat tut to del Banco di Roma, che finanzia­va le organizzazioni cattoliche, e che versava in difficili con­dizioni. Q u a n t o alla «Questione romana», convennero che n o n era il m o m e n t o di «affrontarla in pieno». Ma si e r ano capiti, e sapevano en t r ambi che al cuore di essa sarebbero pres to o ta rd i arr ivat i . Stabi l i rono in t an to di comunica re , q u a n d o ve ne fosse bisogno, t ramite il Padre gesuita Tacchi Venturi, che allora fece assiduamente la spola t ra Mussolini e Gasparri , e che fu il p r imo tessitore della t rama che por tò ai Patti lateranensi .

Dopo il discorso del 3 gennaio 1925 Mussolini aveva fatto un al tro passo, sulla s t rada che por tava al l 'accordo con la Chiesa, nominando una commissione per la riforma della le­gislazione ecclesiastica. Di essa facevano par te sette laici e tre

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sacerdoti . La pres iedeva il sot tosegretar io Matteini , la cui estrazione politica (veniva dalla destra del part i to popolare) garantiva un at teggiamento benevolo verso le esigenze della Santa Sede. Il Vaticano prese le distanze dalla iniziativa, af­fe rmando che i t re ecclesiastici e r ano entra t i nella commis­sione a titolo personale , n o n pe r designazione del Papa. Il quale , conosciute le conclusioni della commiss ione stessa, che p u r e rano molto favorevoli alle richieste della Santa Se­de, le rifiutò pregiudizialmente . La sistemazione delle pen­denze, precisò, non poteva avvenire pe r decisione unilatera­le dello Stato italiano, ma doveva essere oggetto di negoziati. Analoga accoglienza da par te di Pio XI ebbe un proget to di riforma della legge delle Guarentigie, che era stato elaborato dal senatore Santucci, e che era stato approvato entusiastica­mente sia dal guardasigilli Rocco, sia dal cardinale Gasparri . Quest 'ul t imo sottopose il documento all 'esame del Papa che si cavò d'impaccio dicendo di trovarlo «di così difficile attua­zione, che prefer iva lasciare al suo successore la soluzione del difficile problema». Lo affrontò e risolse invece egli stes­so, qua t t ro ann i d o p o . Evidentemente la situazione e r a nel frattempo cambiata, agli occhi di Pio XI.

Si p u ò soltanto conge t tura re sulle ragioni che indussero in quel m o m e n t o il Pontefice ad o p p o r r e un «fin de non-re-cevoir» alla p ropos t a . Le p iù verosimili sono d u e . Da u n a par te Papa Ratti in tendeva aspet tare che i l fascismo anche se si consolidava di g iorno in giorno desse maggior i e defi­nitive garanzie di essere u n a c o n t r o p a r t e la cui f i rma n o n potesse essere rimessa, a breve distanza di t empo , in discus­sione. Dall 'altra egli voleva seguire l 'a t teggiamento del Re­gime, in quel per iodo di p rofonde mutazioni e di instaura­zione della d i t t a tu r a verso le organizzazioni cat tol iche. I l par t i to popo la re era in disfacimento. Ma l'Azione cattolica r app resen tava un polo di coagulazione delle forze cattoli­che al quale la Santa Sede non poteva né voleva r inunciare . Nel corpo stesso del fascismo era ancora t roppo potente , e a volte violenta, la c o r r e n t e es t remis ta e i n t r ans igen te che

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chiedeva la cancellazione di ogni possibile organizzazione rivale, anche se limitata all 'ambito spirituale.

Mussolini era ormai risoluto a saltare il fosso. Il 4 maggio 1926 scrisse a Rocco: «Con profonda fede nella missione re­ligiosa e cattolica del popolo italiano, il governo fascista ha p roceduto metodicamente , con una serie di atti amministra­tivi e di provvediment i legislativi, a restituire allo Stato e al­la nazione italiana quel cara t tere di Stato cattolico e di na­zione cattolica che la politica liberale si era sforzata, du ran t e lunghi anni , di cancellare». Ma esponent i del fascismo di as­sai diversa tendenza, come Farinacci, che si rifaceva sempre alla purezza delle origini, o come il filosofo Giovanni Genti­le, che difendeva la p reminenza dello Stato anche nel cam­po spiri tuale, r imanevano su posizioni oppos te . E Vittorio Emanuele I I I nutr iva u n a diffidenza profonda verso la San­ta Sede.

Nell 'estate di quello stesso 1926 furono avviate le trattati­ve vere e p ropr ie che, sulla scia dell 'azione di Tacchi Ventu­ri, venne ro condot te da personaggi a p p a r e n t e m e n t e di se­condo piano, ma abili e discreti. Per l'Italia il consigliere di Stato Domenico Barone , pe r la Santa Sede l 'avvocato mar­chese Francesco Pacelli, fratello del futuro segretario di Sta­to e Pontefice. Fino a tut to il 1926 gli incontr i ebbero il ca­ra t te re di sondaggi , p iù che di vero e p r o p r i o negoziato, e gli inter locutori n o n e rano investiti di un incarico formale. Lo ebbero soltanto dal p r imo gennaio del 1927, quando Ba­rone fu espressamente delegato a «trattare p e r la de te rmi­nazione dei r appo r t i t ra lo Stato italiano e la Santa Sede». Barone e Pacelli - quest 'ul t imo si sarebbe in t ra t tenuto con il Papa 129 volte, p r ima che si arrivasse alla firma - si t rovaro­no d 'accordo sulla oppo r tun i t à di formulare gli accordi in t re document i : il trattato, relativo ai r appor t i tra i d u e Stati sovrani, che avrebbe sanato la ferita aper ta con la breccia di Porta Pia, il 20 se t tembre del 1870; il Concorda to , r iguar ­dan te il ruolo della religione cattolica, e delle sue istituzioni, in Italia; infine la convenz ione finanziaria, in forza della

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quale alla Santa Sede sarebbero state versate globalmente le s o m m e che le e r a n o assicurate dalla legge sulle Guaren t i ­gie, e che n o n erano mai state riscosse.

La disponibilità di Mussolini ad accettare, pe r i rappor t i con la Chiesa cattolica, si tuazioni e compromiss ion i cui lo Stato l iberale non si sarebbe, pe r motivi di p r inc ip io , mai ada t ta to , facilitò l'inizio delle t rat tat ive. Gli i n topp i che si verif icarono - con d u e in t e r ruz ion i del negozia to , la p iù lunga nella seconda metà del '27 l'altra nel maggio del 1928 -der ivarono prevalentemente da fattori esterni.

Propr io men t re Barone e il marchese Pacelli tessevano le fila dell 'accordo, si era de te rmina ta u n a crisi grave tra il Re­gime e la Chiesa. Mussolini aveva creato l 'Opera Nazionale Balilla, destinata a r iunire e organizzare i ragazzi. Nel rego­lamento che accompagnò la istituzione de l l 'ONB si dispone­va che nessun'al t ra organizzazione giovanile potesse essere creata nei centri con meno di diecimila abitanti e che quelle esistenti dovessero essere sciolte. La misura colpiva i Giova­ni esp lora tor i (boy-scouts) cattolici e assicurava uni la te ra l ­m e n t e allo Stato - essendo prevedibi le la sua estensione ai centri maggiori - il monopol io della gioventù. Tutto ciò era t e m a di discussione p e r i l C o n c o r d a t o ; era inol t re ch ia ro che si profilava una minaccia pe r l'Azione cattolica, cui il di­vieto si sarebbe pres to esteso, se il Papa avesse lasciato fare.

A mezzo dell'avvocato Pacelli e del pad re Tacchi Venturi la Santa Sede fece sapere che la approvazione di questo re­golamento avrebbe provocato l ' insabbiamento delle trattati­ve. Mussolini, che le voleva c o n d u r r e in por to , cedette: ma solo in par te . Mantenne ferma la soppressione dei boy-scouts cattolici, anzi la estese ai centri fino a ventimila abitanti che n o n fossero capoluoghi di provincia. Ma comunicò nel con­tempo che l'Azione cattolica n o n era presa di mira, e che la garanzia della sua sopravvivenza poteva essere inclusa nel Concordato . La Chiesa si adattò, p u r con una presa di posi­zione di Pio XI il quale fece pubbl icare dall'Osservatore Ro­mano una sua lettera al cardinale Gasparr i . Essa diceva che i

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provved imen t i su l l 'Opera Nazionale Balilla legi t t imavano timori e preoccupazioni , e che il Pontefice intendeva rende­re noto ai cattolici che n o n c'era stata, da pa r t e sua, corre­sponsabilità o acquiescenza.

L'arrendevolezza della Santa Sede consentì di evitare una rot tura . Ma, lo si è già accennato, a metà del '27 e fino agli inizi del '28, ci fu egualmente una sosta, che in qualche mo­do giovava a en t rambi i contraenti . A Mussolini per vincere le ul t ime resistenze di alcuni gerarchi - t ra gli altri Balbo, Farinacci, Arp ina t i - e p e r saggiare gli u m o r i del Re; alla Santa Sede pe r ten tare di s t r appare qualche ul ter iore con­cessione.

Duran te la pausa si sviluppò, sulla «Questione romana», u n a polemica di s tampa, che s icuramente fu voluta o alme­no approva ta da Mussolini. Lo d imost ra la par tec ipazione ad essa del fratello Arnaldo, dalle colonne del Popolo d'Italia. La polemica trasse origine dalla interpretazione che i quoti­diani fascisti in genera le avevano data a tre manifestazioni religiose (in part icolare il Congresso eucaristico nazionale) t enu te nel se t t embre del 1927. Quest i avveniment i consa­cravano, avevano scritto gli o rgan i fascisti, l ' a rmonia profonda esistente t ra Religione e Stato. Al che YOsservatore Romano aveva ribattuto che certo, un cambiamento di a tmo­sfera c 'era stato, ma n o n pe r ques to e ra cessato i l dissidio che solo un ripristino totale della ind ipendenza e libertà del Papa di fronte al m o n d o cattolico avrebbe potu to sanare.

La nota àe\YOsservatore provocava d u e repl iche impor ­tanti. L u n a di Arnaldo Mussolini, che insisteva sul carat tere nazionale della «Questione romana» - escludendo così ogni sua internazionalizzazione - e r icordava che «l'Italia cattoli­ca e r omana ha ritrovato senza l 'apporto della Chiesa politi­ca il vigore e la forza pe r la sua rinascita». L'altra di Giovan­ni Gentile che, r imanendo nell'alta sfera delle categorie filo­sofiche, spiegava come «la separazione dello spir i tuale dal t empora le è u n a utopia» e p e r t a n t o «la Ques t ione r o m a n a sarà s e m p r e viva». ^.Osservatore t o rnò su l l ' a rgomento , con

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ul ter ior i precisazioni . Ques to dibat t i to ebbe t e rmine , nel­l 'ottobre, con un nuovo articolo a firma di Arnaldo Mussoli­ni, da molti a t t r ibui to a Benito, e con u n a nota pubblicata su un Foglio d 'ordini del part i to, nota che, si fece sapere - e in par t ico lare B a r o n e lo comunicò a Pacelli - e ra in tera­mente di p u g n o di Mussolini.

Con il suo consueto stile lapidario egli rilevava anzitutto che «per il Vaticano la Ques t ione r o m a n a n o n è di o rd ine internazionale, ma semplicemente bilaterale», con il che ve­nivano scongiurati «pericolosi interventi e inutili complica­zioni». Aggiungeva come il con tenu to degli articoli dell'Qs-servatore Romano lasciasse in tendere che non sarebbero state pos te pregiudizia l i ter r i tor ia l i : e l emen to posit ivo p e r c h é «per l'Italia fascista è e sarebbe fuori di ogni discussione un r iprist ino anche in formato ridottissimo del po te re t empo­rale cessato nel 1870 con incommensurab i le vantaggio - a nostro avviso - del prestigio morale della Chiesa di Roma». Infine la nota di Mussolini si rivolgeva ai fascisti a m m o n e n ­doli a n o n c redere né che la Quest ione romana fosse insolu­bile - il destinatario di questo passaggio era Gentile - né che fosse di agevole soluzione. «Il Regime fascista che ha dinan­zi a sé tut to il secolo ventesimo - concludeva - p u ò riuscire là dove il demoliberalismo in r ipetuti tentativi fallì.»

Era in sostanza la luce verde pe r t tna prosecuzione delle trattative, che infatti si sv i lupparono nel 1928: con la ulte­r iore bat tuta di arresto in maggio, cui abbiamo già accenna­to, dovuta ancora a l l 'Opera Nazionale Balilla, i l cui mono­polio sui giovanissimi e giovani era stato esteso, ed era pre­vedibile, anche alle città con più di ventimila abitanti. Era il colpo di grazia ai Giovani esploratori cattolici. Di fronte alla p ro tes ta del Papa, Mussolini t e m p e r ò di poco, e solo for­malmente , il provvedimento . La Santa Sede si rassegnò.

Nel genna io del 1929 D o m e n i c o B a r o n e , u n o dei d u e protagonis t i del negoziato, moriva. Mussolini assunse allo­ra di pe r sona il compi to di per fez ionare gli accordi , e più volte, in quella es t rema fase, l 'avvocato Pacelli si t r a t t enne

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con lui d o p o cena, e fino a notte . Tutti gli scogli e r ano stati o rmai superat i . Il Vaticano aveva r inunc ia to a r ivendicare il t e r r i t o r io di Villa Pamphi l i , i l che aveva p lacato le a p ­p r e n s i o n i d i Vi t tor io E m a n u e l e I I I p e r un even tua le in­g rand imen to dello Stato vaticano. La indenni tà che la San­ta Sede - le cui f inanze e r a n o in quel m o m e n t o tu t t ' a l t ro che floride - p re t endeva dallo Stato italiano era stata ridot­ta dagli or iginar i tre miliardi a un mi l iardo e 750 milioni, di cui un mil iardo in titoli al por t a to re e il resto in contanti . Impor tan t i , dal p u n t o di vista finanziario, furono anche al­cune esenzioni fiscali accordate ai beni e investimenti della Santa Sede, esenzioni a t t o rno alle quali si doveva poi svi­luppa re , nel dopogue r r a , d u r a n t e i l papa to di Pio XI I , u n a lunga polemica.

Ma più impor tant i della convenzione finanziaria furono, na tu ra lmen te , il Trat ta to e il Concorda to . Il Trat ta to - che regolava il r appor to tra d u e Stati sovrani - aveva un p ream­bolo di 27 articoli, e subito all 'inizio r ibadiva il c o n t e n u t o dell'articolo p r imo dello Statuto albertino in forza del quale la religione cattolica apostolica r o m a n a era la sola religione dello Stato italiano. Riconosceva quindi la piena sovranità e la esclusiva ed assoluta potes tà e giurisdizione della Santa Sede sul Vaticano, c reando a tale scopo la Città del Vatica­no , i cui servizi pubblici sa rebbero stati a cu ra dello Stato italiano. Il trattato stabiliva quali fossero le persone soggette alla sovranità della Santa Sede, riconosceva ad essa il diritto di legazione attiva e passiva (ossia il dirit to di accredi tare e r icevere missioni diplomatiche) . La Santa Sede dichiarava «definit ivamente ed i r revocabi lmente composta» la «Que­stione romana» , e riconosceva il Regno d'I tal ia sotto la di­nastia dei Savoia.

Nel Conco rda to , r i g u a r d a n t e la posizione della Chiesa nel l 'ordinamento in te rno italiano, si riconosceva alla Chiesa personalità giuridica, con tutti i diritti che ne derivavano, si dava eguale r iconoscimento alle «famiglie» religiose, si attri­buiva «il dovuto ufficio ed onore a l l ' insegnamento religio-

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so» (con u n a speciale menzione dell 'Università Cattolica di Milano), si ammet teva il ruolo legittimo dell 'Azione cattoli­ca. Ai sacerdoti era affidata, nella celebrazione del matr imo­nio religioso, la funzione di ufficiali di stato civile. Si stabili­va infine che i sacerdot i aposta t i o colpiti da censu ra n o n potessero occupare uffici pubblici, e si concedeva a cardina­li e vescovi u n a speciale posizione giuridica. I vescovi dove­vano tuttavia giurare lealtà allo Stato, al Re e al Governo.

La «Questione romana» era chiusa. I nd ipenden te e libe­ro , nei qua ran taqua t t ro chilometri quadra t i della città leo­nina, il Romano Pontefice riconosceva finalmente la legitti­mità del Regno d 'I tal ia , con R o m a capitale. L'11 febbraio 1929, un lunedì , poco p r ima di mezzogiorno, il corteo uffi­ciale che accompagnava Mussolini si avviò verso il Palazzo apostolico lateranense, dove sarebbe avvenuta la cer imonia della firma. Pioveva a di rot to . Il segretar io di Stato, cardi­na le Gaspar r i , a t t endeva Mussolini (in r e d i n g o t e come i l sottosegretario agli Esteri Dino Grandi) nella vasta sala del­le Missioni. Per p r imo firmò Gasparri , quindi porse la stilo­grafica d 'oro massiccio che il Papa gli aveva affidato a Mus­solini, il quale firmò a sua volta. La p e n n a gli r imase in do­no, a r icordo dell 'avvenimento. Ment re Mussolini usciva, le campane della basilica di San Giovanni in La te rano suona­r o n o a festa. L' indomani, settimo anniversario della sua in­coronazione, Papa Ratti fu acclamato da u n a g rande folla di fedeli pe r l 'accordo r agg iun to con «l 'uomo che la Provvi­denza aveva stabilito di farci incontrare» secondo la sua stes­sa definizione.

In tut te le chiese d'Italia si p r egò e si esultò pe r la Conci­liazione che aveva r ida to «Dio all 'Italia e l 'Italia a Dio». Il governo dichiarò 1' 11 febbraio festa nazionale. Le formalità p a r l a m e n t a r i che av rebbe ro reso cos t i tuz ionalmente ope­ran t i i Patti del La t e r ano furono supera te senza difficoltà. La nuova Camera - eletta come vedremo il 24 marzo - fece registrare solo d u e voti contrari , e sei il senato: quelli di Lui­gi Albertini, Bergamini, Croce - il filosofo aveva spiegato in

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un discorso il suo dissenso n o n alla Conciliazione, ma al mo­do in cui era stata realizzata - , Pa te rno , Ruffini, Sinibaldi. Ma p ropr io la discussione (si fa pe r dire) in Par lamento do­veva p re s to d imos t r a r e che ciascuna delle d u e par t i con­t raen t i aveva visto nei Patti qualcosa di diverso, se n o n di ant i te t ico: e che la loro i n t e rp re t az ione e appl icazione avrebbe provoca to p iù difficoltà di q u a n t o si potesse sup­por re .

Era accaduto infatti che, forti della nuova osanna ta intesa, le organizzazioni e i circoli cattolici, a lcuni dei quali ideal­men te legati al filone politico del part i to popolare , si fossero sentiti autorizzati ad u n a maggiore attività. Ma nel discorso con cui presentò la Conciliazione alla Camera Mussolini dis­sipò sia i t imori di molti fascisti «intransigenti» sia le illusioni di ques te organizzazioni sia, se esistevano, le spe ranze del Vaticano. Ribadì l'esclusiva statale sulla educazione dei gio­vani, e quanto agli «elementi cattolici» che stavano intentan­do «un processo al Risorgimento», avvertì che «il Regime è vigilante e che nulla gli sfugge». E sottolineò che e rano stati seques t ra t i «più giornal i cattolici in t re mesi che nei sette ann i precedent i» . I l tono minaccioso di Mussolini n o n era stato sugger i to , p robab i lmente , soltanto dalla reviviscenza politica dei cattolici, ma anche da taluni giudizi della stam­pa straniera, ai quali e ra sensibilissimo. I quotidiani france­si, inglesi, americani e rano stati unan imi nel rilevare la por­tata storica dell 'avvenimento, e il marchio di stabilità che es­so dava al Regime fascista (secondo alcuni storici la Conci­liazione è stata del resto, in campo internazionale, il p u n t o più alto di prestigio ragg iun to da Mussolini, fermo restan­do che p e r l 'op in ione pubbl ica i tal iana esso fu r a g g i u n t o con la g u e r r a d'Etiopia). Ma il Daily Herald, ad esempio, ave­va scritto che «il Papa diviene ancora u n a volta sovrano» e «ha o t tenuto quello pe r cui la Chiesa lottava da mezzo seco­lo». Piccato, Mussolini aveva voluto d imost rare che chi pen­sava a u n a vaticanizzazione dell 'Italia sbagliava di grosso.

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L'attacco, e in generale la crisi che si era determinata, non potevano essere ignorati dal Papa, che rispose con un discor­so, e poi incaricò addir i t tura Pacelli di chiedere a Rocco che soprassedesse alla pubblicazione delle leggi derivanti dai Pat­ti la teranensi . Lo scambio delle ratifiche dei Patti, suggello definitivo ad essi, era stato fissato pe r il 7 giugno. Due giorni pr ima l'Osservatore Romano pubblicò il testo di u n a lettera di Pio XI al cardinale Gaspar r i in cui si l amentava l 'atteggia­mento di Mussolini e si affermava comunque che Trattato e Concorda to e r ano legati e indivisibili: simul stabunt o p p u r e simul cadent. Abbastanza indifferente agli altri addebit i , che d imos t ravano semmai la sua ind ipendenza , Mussolini n o n poteva accettare questa impostazione. In forza di essa, infat­ti, la «Questione romana» n o n poteva dirsi veramente risol­ta, pe rché un qualsiasi dissenso sulla applicazione del Con­cordato - ossia sui rapport i t ra Stato e Chiesa nell 'ambito in­t e rno italiano - avrebbe po tu to p rovoca le la r imessa in di­scussione del Trattato tra i d u e poteri sovrani.

La vigilia del 7 g iugno il marchese Pacelli fu impegna to in una affannosa opera di mediazione pe r compor re il dissi­dio facendo la spola t ra Palazzo Chigi e i Palazzi apostolici. Fu escogitata la formula di u n a d ich ia raz ione in base alla quale «le alte par t i contraent i riaffermano la loro volontà di osservare lealmente, nella parola e nello spirito, n o n solo il Trat tato negli irrevocabili reciproci riconoscimenti di sovra­nità e nella definitiva eliminazione della Quest ione romana , ma anche il Concordato nelle sue alte finalità tendent i a re­golare le condizioni della religione e della Chiesa in Italia». Dal braccio di ferro era uscito vincitore Mussolini, piuttosto che il Papa. Lo scambio delle ratifiche avvenne regolarmen­te, e il 25 luglio Pio XI sancì, r agg iungendo piazza San Pie­t ro, la fine della «prigionia» che i pontefici romani si e rano imposta dal 1870. In dicembre il Re e la Regina rendevano visita a Pio XI. I Savoia si e rano essi p u r e riconciliati.

Ma anche d o p o di allora l'idillio tra il fascismo e la Chie­sa cattolica n o n fu in interrot to , anzi soffrì de ter iorament i e

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soprassalti polemici sempre - a lmeno fino alle leggi razziali -pe r lo stesso motivo: l'Azione cattolica e la Gioventù cattoli­ca. Mussolini, che alla religione di Stato era p ron to a r ende ­re omagg io in ogni occasione, reagiva v io len temen te ad ogni sospetto di inframmettenza politica educativa o sinda­cale delle organizzazioni cattoliche. Una seria crisi d ivampò nel 1931 - ci d is tacchiamo dalla c ronologia degl i avveni­ment i pe r completare l 'argomento - ed ebbe spunto , al soli­to, da u n a polemica giornalistica: il che fa s u p p o r r e che la volontà di Mussolini non fosse estranea ad essa. Pr ima Criti­ca fascista di Bottai, poi altre pubblicazioni di regime accusa­r o n o l 'Azione cattolica di « invadere i l c a m p o de l l ' o rd ina­mento sindacale e corporativo», di voler formare u n a classe d i r igen te n o n fascista, d i a d o p e r a r s i p e r incana la re «una pa r t e della gioventù italiana die t ro i vecchi p r o g r a m m i e i marciti ro t tami del m o n d o sturziano». Dalla s tampa il p ro ­blema si trasferì alla diplomazia, il Nunz io apostolico Bor-goncini Duca fu avvertito che il Regime n o n avrebbe tolle­ra to la t rasformazione della Azione cattolica in un par t i to politico, così come n o n avrebbe tollerato «provocazioni sin-dacaliste». Veniva anche chiesto che i vecchi capi del part i to popola re , p r imo tra essi De Gasperi , fossero allontanati da Roma.

Pio XI non esitò ad impegnars i in pr ima persona nel ro­vente scambio di accuse. Non si p u ò sostenere, alla luce del­l'oggi, che alcuni suoi a rgoment i fossero convincenti . L'ad­debito al fascismo di consentire «pubblici concorsi di atleti­smo femmini le , dei quali anche i l p a g a n e s i m o mos t rò di sentire le sconvenienze ed i pericoli», era futile. Il n o d o ve­ro restava l'Azione cattolica, alla quale il Papa rivendicava il diritto di «portarsi anche sul t e r r eno operaio, lavorativo, so­ciale». T roppo pe r Mussolini, risoluto a relegare sempre più l 'organizzazione nello s t re t to c a m p o dello «spirituale» e a i m p e d i r e che cert i suoi u o m i n i d imos t rasse ro eccessivo morden te . Si asserì che a metà maggio esponenti della Azio­ne cattolica avevano tenu to r iunioni pe r discutere proget t i

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ostili al Regime. Il 29 maggior 1931 Mussolini r u p p e gli in­dugi e o rd inò ai Prefetti di sciogliere «le associazioni giova­nili di qualsiasi na tu ra e g rado di età che non facciano diret­t amen te capo alle organizzazioni del Partito Nazionale Fa­scista o del l 'Opera Nazionale Balilla». La Gioventù cattolica e ogni altra branca giovanile della Azione cattolica subirono così la sorte degli Esploratori cattolici. Le loro sedi furono chiuse, il materiale che vi si trovava sequestrato.

Pio XI e i vescovi pro tes tarono (la Santa Sede aveva subi­to disposto affinché i vescovi stessi assumessero la «tutela e direzione» della Azione cattolica), m e n t r e si verificavano violenze di t ipo squadristico. Una d u r a nota della Segrete­ria di Stato fu respinta dal governo italiano. L'irritazione e l 'amarezza del Papa pe r un at teggiamento che violava, a suo avviso, l 'articolo 43 del Concorda to , r i g u a r d a n t e a p p u n t o l'Azione cattolica, t rovarono solenne espressione nella enci­clica Non abbiamo bisogno. L'enciclica deplorava il proposi to fascista «già in tanta pa r te eseguito, di monopolizzare inte­r a m e n t e la g ioventù dalla pr imiss ima fanciullezza fino al­l'età adulta, a tutto esclusivo vantaggio di un part i to, di un regime, sulla base di u n a ideologia, che d ichiara tamente si risolve in u n a vera e p r o p r i a s tatolatr ia pagana» . Non mancò tuttavia, nella p a r t e u l t ima del d o c u m e n t o papa le , un accenno distensivo: «Noi n o n abbiamo voluto condanna­re il part i to ed il Regime come tali. Abbiamo inteso segnala­re e condanna re quanto , nel p r o g r a m m a e nell 'azione di es­si, abbiamo veduto e constatato contrario alla dot t r ina ed al­la pratica cattolica». Pur dopo le sue severe premesse Pio XI faceva così sapere al Duce che n o n in tendeva p r o m u o v e r e u n a crociata ideologica con t ro i l fascismo, né t e n t a r e u n a mobil i tazione dei cattolici. Dietro il Papa n o n c 'era, fu la­sciato chiaramente capire, Don Sturzo.

In queste contese Mussolini si trovava a suo agio, ed era assai abile nel con temperare toni verbali minacciosi e intran­sigenti con una sostanziale propens ione all 'accomodamento. Egli dispose subito, in relazione alla enciclica, che fosse vieta-

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ta la con temporanea iscrizione al Partito nazionale fascista e all'Azione cattolica. Ma era disposto a t ra t tare , così come il Vaticano (il cardinale Gasparri aveva fatto pervenire a Mus­solini un biglietto accorato in cui lo scongiurava di n o n ag­gravare la situazione e di accettare una ripresa dei contatti). Senonché Pio XI, uomo di t emperamento difficile, anche se in definitiva ragionevole, affidò al negoziatore prescelto, il solito p a d r e Tacchi Venturi , un messaggio che poteva sem­brare , a tut ta pr ima, un u l t imatum. O il fascismo cambiava rotta, o il Papa si sarebbe visto costretto a r iprovarne esplici­t amente i princìpi . Mussolini replicò da pa r suo, si mostrò , come poi riferì Tacchi Ventur i , cos terna to p e r la venti lata condanna papale , e ventilò a sua volta dimostrazioni e vio­lenze incontrollabili da pa r te degli italiani esacerbati se alla condanna si fosse arrivati. Erano, questi, i prel iminari appa­ren temen te bellicosi di u n a pace che fu firmata il 2 settem­bre e che rappresentò u n a indubbia vittoria del Duce.

In base ad essa, infatti, si stabilì che l'Azione cattolica «è essenzialmente diocesana», che i suoi dirigenti non poteva­no essere scelti «tra coloro che a p p a r t e n n e r o a partiti avver­si al Regime», che essa «non si occupa affatto di politica», che «non si p r o p o n e compiti di o rd ine sindacale», che infi­ne i circoli giovanili avrebbero assunto la nuova denomina­zione di Associazioni di azione cattolica e si sarebbero limi­tati ad attività religiose e ricreative. Don Sturzo, da Parigi, c o m m e n t ò amareggia to che «sarebbe occorso un Gregor io Magno, il quale avrebbe fatto il vero interesse della Chiesa affrontando la lotta ed i dann i attuali, sicuro pe rò di p repa­ra re il trionfo finale della sua causa». Da quel m o m e n t o , fi­no al 1938, q u a n d o risorsero attriti soprat tut to pe r l'adesio­ne fascista al razzismo, i rappor t i tra Chiesa e fascismo furo­no sereni e di collaborazione. Ricevuto so lennemente in Va­ticano ai pr imi del 1932, l 'antico anticlericale Mussolini fu insignito del l 'ordine dello Speron d 'Oro .

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C A P I T O L O Q U I N T O

IL DUCE E LA SUA CORTE

II «plebiscito» del 24 marzo 1929 fu cer tamente , dal p u n t o di vista della democrazia formale, u n a pa rod ia di elezione p a r l a m e n t a r e . Gli i taliani, l ' abbiamo già spiegato , e r a n o chiamati ad approvare o respingere u n a lista di quat t rocen­to candidati alla Camera , tutti designati dal Gran Consiglio del fascismo attraverso un dosaggio delle proposte presen­tate dalle varie categorie e organizzazioni ammesse ad avere voce in capitolo. L'elenco degli enti che compilarono i mille nomi tra i quali il Gran Consiglio scelse i quat t rocento defi­nitivi è l u n g o e va dalla Confederaz ione nazionale degl i agricoltori e degli industriali e dalla Confederazione nazio­nale degli operai e impiegati dell ' industria al Tour ing Club e al Coni. Nel vaglio, furono favorite le organizzazioni pa­drona l i , e sacrificate quelle dei pres ta tor i d 'opera . I quat­trocento e rano fascisti o simpatizzanti (una c inquant ina non iscritti). Tra gli iscritti un b u o n terzo era post-Marcia su Ro­ma. Votò quasi il novanta pe r cento degli aventi diritto. I sì furono 8.519.559, i no 135.761. Il fascismo aveva stravinto. Tut tavia Mussolini stesso aveva a n n u n c i a t o p e r co lmo di p rudenza , p r ima del voto, che anche u n a prevalenza di no non l 'avrebbe fatto cadere , in base al curioso rag ionamento che «una rivoluzione p u ò farsi consacrare da un plebiscito, giammai rovesciare».

I suoi timori, se davvero ne aveva, e rano del tut to infon­dati . Senza dubbio contr ibuì al successo schiacciante del li­stone fascista l 'atmosfera di costrizione, a lmeno psicologica, in cui la consul tazione ebbe luogo. Già l 'astensione era un gesto ostile al Regime, e non mancarono i mezzi pe r identi-

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ficare, in taluni seggi e in talune località, i no. Ma si p u ò af­fermare con certezza che, anche liberi da ogni intimidazio­ne , gli italiani si sarebbero pronuncia t i in larga maggioran­za pe r il fascismo. Questo aveva ormai dimostrato la sua sta­bilità. Le opposizioni appar ivano più inconsistenti e divise di quan to la loro situazione di clandestini tà potesse di p e r sé sola c o m p o r t a r e . La Conciliazione aveva fatto r iversare quasi c o m p a t t a m e n t e sulla schiera dei prescel t i dal G r a n Consiglio i voti cattolici: qua lche n o m e - pochissimi in ve­rità - era stato addir i t tura suggerito da p a d r e Tacchi Ventu­ri . La s i tuazione economica migl iorava. Ma sopra t tu t to giuocava a favore del fascismo la mancanza di u n a concreta alternativa, che non significasse semplicemente il caos. Con la nomina di Giovanni Giuriati alla pres idenza della Came­ra, e di Luigi Federzoni alla presidenza del Senato, Mussoli­ni aveva completato, in m o d o fascisticamente soddisfacente, l 'organigramma delle alte cariche dello Stato. Nel set tembre egli p rocede t t e a un r impas to governat ivo che lo l iberò di tutti i ministeri che si e rano andat i r i unendo nelle sue mani , t r a n n e quel lo de l l ' In t e rno . Aveva f ini to pe r essere t i tolare di ot to portafogli: oltre a l l ' In terno, gli Esteri, la Guer ra , la Marina, l 'Aeronautica, le Colonie, le Corporazioni , i Lavori pubblici.

N e l l ' a u t u n n o - come p e r sot to l ineare , forse inconscia­m e n t e , i l passaggio da C a p o del g o v e r n o a Duce in tu t t e maiuscole - Mussolini aveva cambiato casa lasciando l 'ap­pa r t amen to di via Rasella, e aveva cambiato ufficio lascian­do Palazzo Chigi . La famiglia Mussolini si e ra finalmente r iuni ta a Villa Torlonia, sontuosa d imora sulla via N o m e n -tana, con qua ran ta stanze, 14 ettari di parco, tennis , galop­pa to io , che il p r i n c i p e Giovann i Tor lon ia aveva offerto e occasionalmente pres ta to al di t ta tore da t empo , e poi defi­ni t ivamente ceduto pe r l'affitto simbolico di u n a lira al me­se. «Mi sembrava quasi incredibile - ha raccontato Rachele nelle sue memor ie - io, la contadinella di Salto, sarei andata a vivere nella villa di un Torlonia. . . Al p i ano t e r r e n o c 'era

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un g r a n d e salone che mi r icordava quel lo del Tea t ro alla Scala, e n u m e r o s e co lonne di marmo.» Da brava reggiora r o m a g n o l a Rachele gu idava c inque p e r s o n e d i servizio: u n a ragazza sua c o n t e r r a n e a , I r m a Morell i , s i incaricava del vestiario di Mussolini, che del resto pe r l 'eleganza era u o m o di pochissime pre tese , e ot teneva, anche q u a n d o ne aveva, risultati mediocri . Sul re t ro della villa Rachele tene­va un pollaio, e provvedeva pe r sona lmen te a dis t r ibuire il becchime.

La moglie di Mussolini n o n volle mai essere «presiden­tessa», e a Palazzo Venezia, d u r a n t e i quindic i ann i in cui Mussolini vi t rascorse g ran pa r t e della sua g iorna ta , mise p i ede solo poche volte, p e r c h é des iderava vede re megl io qualche sfilata o manifestazione. In compenso a Villa Torlo­nia comandava lei. Mussolini era a suo m o d o un u o m o casa­lingo. Tutte le sere infallibilmente, q u a n d o era a Roma, tor­nava in famiglia, e anche d u r a n t e la l unga re laz ione con G a r e t t a Petacci n o n cont ravvenne mai a questa regola. La sera il g rande parco pareva t r apun to di lucciole: erano le si­garet te che, ce rcando di farsi no ta re il m e n o possibile, ac­cendevano i poliziotti annoiat i messi lì a vigilare sulla sicu­rezza del capo del fascismo. In t an to , nella villa, Mussolini amava assistere d o p o cena, nella saletta cinematografica, al­la p ro iez ione dei d o c u m e n t a r i Luce - p e r con t ro l l a rne il con tenu to - e a u n a pellicola amena . Predil igeva i film co­mici - soprat tut to quelli di Charl ie Chaplin, fino a q u a n d o non fu bandi to pe r le sue origini ebree e la sua ideologia an­titotalitaria - ma gli piacevano anche i «western». Poco incli­ne a romant icher ie e sentimentalismi, «fan» di Stanilo e Ol-lio, era tuttavia affascinato dal volto enigmatico e luminoso di Greta Garbo.

Un paio di mesi pr ima del trasloco a Villa Torlonia, Mus­solini at tuò anche quello a Palazzo Venezia. Palazzo Chigi era intriso, storicamente, di tradizione liberale. Quei mur i e quei saloni appar ivano irr imediabilmente legati alla «Italietta» cui il fascismo intendeva sostituire un 'a l t ra Italia, po ten te e or-

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gogliosa. Ma una ragione ancora più impor tante aveva senza dubbio suggerito il cambiamento. Mussolini non voleva esse­re soltanto un Presidente del Consiglio, come coloro che lo avevano preceduto alla testa dei governi succedutisi nei qua­si se t t an tann i , ormai, del Regno d'Italia. Era il Duce del fa­scismo: un personaggio nella vita della Nazione, il cui potere assoluto doveva d u r a r e q u a n t o fosse d u r a t o il fascismo, o quanto fosse dura ta la sua vita fisica. L'altro polo della «diar­chia» sulla quale si fondava o rmai , nella sostanza anche se non nella lettera, l 'ordinamento dello Stato italiano. Vittorio Emanuele I I I aveva il Quirinale e Villa Ada, Benito Mussoli­ni aveva Palazzo Venezia e Villa Torlonia.

Con la sua mole merlata, con il suo colore cupo, il palazzo che era stato sede degli ambasciatori della Serenissima collo­cava Mussolini in una cornice severa, intimidatoria. Al piano nobile era la sala del Mappamondo , vastissima e spoglia, ec­cessiva ed enfatica senza dubbio pe r un Primo ministro, ma adeguata alle esigenze del Duce. Egli dispose che l ' immenso locale n o n avesse altro a r r e d a m e n t o che il suo tavolo, nel­l 'angolo oppos to a quello da cui i visitatori en t ravano , tutt i scattando, salvo che si trattasse di personali tà s t raniere, nel saluto romano . Sul tavolo e rano un calamaio di bronzo con due leoni ai fianchi (Mussolini non si servì mai di stilografi­che), un orologio barometro , un vasetto di porcellana pe r le mati te che egli consumava fino a q u a n d o fossero diventate dei mozziconi, un tagliacarte d 'argento, un asciugacarte, un abat- jour di seta gialla, u n a min ia tu ra della m a d r e Rosa. Q u a n d o la relazione con Claretta Petacci si consolidò, alcuni anni più avanti, fu aggiunto a questi oggetti un «bibelot» raf­figurante u n a casetta e un cuore , sul quale era scritto «una capanna e il tuo cuore». Tre telefoni e rano a portata di mano del Duce, u n o collegato con il centra l ino della pres idenza , un altro p e r le comunicazioni in te rurbane , un terzo «diret­to». Di quest 'ult imo nessuno, t ranne l'usciere Quinto Navar-ra, conosceva il n u m e r o . N e m m e n o lo stesso Mussolini - a quanto ha raccontato Navarra - se ne ricordava.

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In un cassetto della scrivania era una pistola carica, in un al t ro del d e n a r o p e r eventua l i elargizioni i m m e d i a t e . Un ' appos i t a tast iera p e r le luci consent iva a Mussolini di g r a d u a r l e , secondo l ' impor tanza de l l ' in te r locu tore : p e r i più modesti , si teneva in penombra , come un idolo nel tem­pio. Tra il tavolo e la finestra fu collocato, dopo la mor te del f iglio B runo , un busto che lo raffigurava. I gerarchi e r ano tenut i solitamente in piedi, pe r riferire e ricevere ordini . Le personali tà t rat tate con più r igua rdo avevano a loro dispo­sizione u n a pol trona. Il solo Italo Balbo osò u n a volta sede­re conf idenz ia lmente su un angolo del tavolo, ch ' e ra an­ch'esso di g r a n d i d imens ion i , e a c c u r a t a m e n t e spoglio di carte. Mussolini non ve ne lasciava mai, abbandonando l'uf­ficio. Portava via le p ra t i che in sospeso in u n a cartella di cuoio. Era molto orgoglioso della sua puntua l i tà e pignole­ria di funzionario: come Filippo II di Spagna amava accop­piare la onnipotenza del comando assoluto a u n a diligenza da burocrate . Ai visitatori non era concesso di fumare (nep­p u r e i m e m b r i del Gran Consiglio potevano farlo, d u r a n t e le sedute). La luce sul tavolo di Mussolini restava accesa an­che q u a n d o se n ' e ra a n d a t o p e r t o r n a r e a Villa Tor lonia . Non è u n a leggenda. La disposizione era stata impart i ta da lui, personalmente . Il mito dell ' insonne n o n è stato casuale, appar teneva a u n a coreografia che Mussolini istintivamente andava c reando e per fez ionando di g iorno in g iorno. Essa fu completata q u a n d o venne istituito il corpo dei Moschet­tieri del Duce - un altro parallel ismo sintomatico con i co­razzieri del Re - che e rano giovani volontari di famiglie del­la Roma-bene , e indossavano u n a uni forme fune reamente nera , con un teschio ricamato sul fez.

Nessun ufficio ministeriale fu trasferito a Palazzo Venezia - dove il preesistente Museo venne relegato in poche sale -a testimoniare il carat tere eccezionale di questa sede del Pri­mo ministro. Vi t rovarono sistemazione solo gli uffici della Presidenza. Una seconda reggia. Un'ul t ima prerogat iva fa­ceva di Palazzo Venezia u n a sede ben più idonea di Palazzo

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Chigi pe r le esigenze di Mussolini: la piazza. Anche da Pa­lazzo Chigi Mussolini aveva arr ingato sovente la folla, affac­ciandosi a un balcone d 'angolo così che lo potessero sentire e acclamare non solo coloro che si t rovavano in piazza Co­lonna, ma anche coloro che fossero in via del Corso. Ma la disponibilità di spazio pe r aduna te che si avviavano ad esse­re sempre più oceaniche vi era limitata. Piazza Venezia of­friva ben altre possibilità: e il balcone che fu pe r anni la ri­balta della vita politica italiana si affacciava su di essa da u n a posizione ideale. L'oratore era visibile da ogni pun to , lonta­no q u a n t o occorreva p e r c h é avvenisse la t rasf igurazione dal l 'uomo al mito, abbastanza vicino pe r poter dominare la folla e percep i rne l'abbraccio estatico e insieme - pe r usare un termine di cui la retorica fascista si compiacque - incan­descente.

A Palazzo Venezia Mussolini arrivava d'estate verso le ot­to del mat t ino , d ' inverno verso le nove e mezza. Aveva già avuto il t empo di dare una scorsa ai giornali, in automobile, e r imuginava elogi o r imbrott i pe r questo e pe r quello (non riuscì mai a l iberarsi , anche q u a n d o fu all 'apice della sua potenza, di un at teggiamento da reda t tore capo: non di un singolo giornale, ormai , ma di tutti i giornali e i giornalisti d ' I tal ia) . Sul tavolo t rovava i l r a p p o r t o del segre ta r io del part i to, e quindi procedeva alle p r ime udienze. L'ordine in cui esse avvenivano è e loquente . Il Duce voleva sempre co­noscere a pun t ino la situazione del l 'ordine pubblico, ed es­sere informato su fatti, retroscena, pettegolezzi raccolti dal­la f i t ta re te degli informatori . En t ravano d u n q u e da lui, in r ap ida successione, il c o m a n d a n t e dei carabinier i , i l capo dell'ovRA, il capo della polizia, il sot tosegretario alla presi­denza, il ministro degli Esteri, il ministro della Cul tura po­polare, il segretario del parti to, il ministro del l ' In terno. Re­legato, ques t ' u l t imo, in u n a posizione che d imos t ra come Mussolini considerasse se stesso il vero ministro del l ' Inter­no, anche q u a n d o non resse ufficialmente quel dicastero.

Veniva poi u n a lunga serie di udienze n o n di «routine»,

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che era interrot ta alle due del pomeriggio pe r un pasto fru­gale (era s empre t o rmen ta to dal l 'ulcera che gli p rocurava lancinanti dolori allo stomaco), e qu ind i cont inuava fino a sera. Tra le otto e mezzo e le nove tornava a Villa Torlonia. Nei giorni festivi, q u a n d o il meccanismo burocrat ico era pa­ralizzato, Mussolini sedeva ugua lmente dietro la sua scriva­nia, irri tato e smanioso per il vuoto che avvertiva a t torno a sé. Il «motore del secolo» girava a vuoto . Sul finire della g iorna ta Mussolini ebbe s e m p r e u n a l unga conversazione con il fratello Arnaldo: l 'unica persona al m o n d o in cui aves­se confidenza e a cui desse confidenza. La conversazione ri­gua rdava p r eva l en t emen te II Popolo d'Italia, ma sovente si estendeva ad altri argomenti .

Arnaldo fu, in qualche modo , la coscienza di Benito: l'at­tacco cardiaco che lo fulminò a 46 ann i nel d i cembre del 1931, accrebbe patologicamente la solitudine, ma anche l'e­gocentrismo del dit tatore. Di qualche anno più giovane del fratello, A r n a l d o aveva nel f is ico forti rassomigl ianze con lui: ma i tratti imperiosi di Benito si addolcivano, in Arnal­do , l ' impianto massiccio diventava p ingued ine . L'atteggia­men to abituale d i Arnaldo n o n era dinamico, ma meditat i­vo. Tuttavia n o n mancava di carat tere né, en t ro i limiti con­cessigli, di iniziativa. Di sentimenti p ro fondamente religiosi, aveva cont r ibui to no tevo lmen te a d e t e r m i n a r e ta luni am­morbidiment i del Duce du ran t e il per iodo che precedet te e seguì la Conciliazione. A volte Mussolini firmava testi di Ar­naldo - che non era un cattivo articolista, anche se mancava di m o r d e n t e - a volte Arnaldo firmava testi di Mussolini che preferiva restare nel l 'ombra. Il r appor to t ra i due fratelli fu sempre lealissimo. E certo che, scomparso Arnaldo , il p ro ­cesso di deificazione del Duce, e il suo distacco dalla realtà quot idiana del paese (nonostante gli innumerevol i rappor t i polizieschi e le innumerevol i udienze collettive con fotogra­f ia di g ruppo) presero un r i tmo precipitoso.

La solitudine fu una delle caratteristiche fondamental i di Mussolini, e si accentuò con il t rascorrere degli anni . I suoi

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incontr i a Palazzo Venezia con collaboratori abituali o con visitatori saltuari e rano di solito brevi, bruschi, spesso senza n e p p u r e un minimo di convenevoli («Tenete, queste sono le prat iche in sospeso» disse un giorno a un tale che era stato posto a capo di un g rande ente economico, e il dialogo finì lì). Con i c o m p a g n i della p r i m a ora n o n si i n t r a t t eneva a lungo, né forse volentieri, sopra t tu t to con quelli che, come Balbo, Grandi o Farinacci, si ostinavano a rivolgerglisi con il tu. A Villa Torlonia si concedeva r a ramen te un m o m e n t o di abbandono , e il figlio Vittorio ha scritto che «non appar te ­neva alla famiglia» e t an tomeno agli amici, pe rché «avendo conosciuto da vicino gli uomin i e la loro miseria ne aveva n o n solo un ' in to l l e ranza psichica, ma anche f i s i ca» . N o n amava i ricevimenti, e nella sua residenza ne offrì pochissi­mi (a uno di essi il Maha tma Gandhi arrivò t enendo al guin­zaglio una capretta) . Non teneva salotto, come Hitler, che in questo senso era molto più socievole e invitava la sera i fe­delissimi, con i quali discorreva a lungo, o piuttosto mono­logava, ma almeno in tono confidenziale e amichevole.

Questo a t teggiamento psicologico istintivo, sommandosi al calcolo, rese più facile, pe r Mussolini, l 'accettazione e in­s ieme la regia del suo mito. Proiet tava la sua persona l i t à molto al di là del cont ingente , nella storia, vedeva in se stes­so il forgiatore di un nuovo tipo di italiano (in questa veste, sopra t tu t to , descrisse se stesso a Emil Ludwig , nei famosi colloqui), e ra il demiurgo che, raccolta la povera «Italietta» prefascista, la stava t r a s fo rmando in u n a po ten t e nazione: «Ecco - disse in un discorso del 1929 - io ho dinanzi al mio spirito la nos t ra Italia nella sua configurazione geografica: mare , montagne , f iumi, città, campagne , popolo. Seguitemi e cominciamo dal ma re . Il m a r e e ra neglet to: il Regime vi ha r isospinto gli italiani. D u r a n t e questi anni sono scesi in m a r e colossi potent i . I por t i e r ano impoverit i . Il Regime li ha attrezzati.. . Dal mare e t e rnamen te mobile passiamo alle montagne . U n a politica delle mon tagne è in atto, i culmini glabri si r icoprono di alberi che la Milizia forestale pianta e

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pro tegge . . . Tra il m a r e e le m o n t a g n e si e s t e n d o n o valli e piani. La ter ra nostra è bellissima ma angusta: t renta milio­ni di ettari pe r qua ran tadue milioni di uomini . Un impera­tivo assoluto si p o n e : bisogna d a r e la massima fecondità a ogni zolla di terra».

Era lui l'artefice del cambiamento , e ragionava in termi­ni millenaristici. I suoi discorsi assumevano sempre più un taglio lapidario, enunciazioni infallibili, in quan to det te dal Duce, che n o n avevano b isogno d i essere so r re t t e da u n a a rgomentaz ione; alcuni tra essi sembravano un mosaico di slogans s ommar i ma efficacissimi, p e r c h é della sensibilità delle masse Mussolini ebbe sempre un intuito sicuro. Ripe­teva spesso di amare il popo lo , anche se la sua concezione della vita e della politica era elitaria. Quel popolo lo blandi­va e trasfigurava in metafore audaci fino al grottesco: «Tut­to i l popo lo , vecchi, bambin i , con tad in i , ope ra i a rma t i ed inermi sarà una massa u m a n a e più che una massa umana , un bolide che po t rà essere scagliato cont ro ch iunque e do­vunque». Con quella massa u m a n a egli intrecciava dialoghi a r isposta obbligata. Indossava s e m p r e p iù di r a d o l 'abito borghese - ma sempre e soltanto in borghese si presentò al Re pe r la rituale udienza settimanale - e preferiva le unifor­mi. Nel 1923 aveva dichiarato in un discorso che «io n o n mi ubriaco di grandezza: vorrei , se fosse possibile, ubr iacarmi di umiltà» e in effetti, ancora per qualche anno , aveva sapu­to conservare il senso della misura , d a r e d imos t raz ione a trat t i d i u n a uman i t à senza pennacch i , sfoggiare un cer to f reddo u m o r i s m o («più forte» aveva gr ida to u n a voce du ­r an t e un suo discorso, p e r c h é gli a l topar lan t i s i e r a n o in­ceppati , e p ron to aveva r ibat tuto: «lo leggerete doman i sul giornale»).

Ma poi l 'adulazione altrui e il p ropr io narcisismo lo ave­vano travolto, come accade di solito ai dittatori, soprat tut to a quelli che sono di s tampo demagogico-messianico, i Mus­solini, Hitler, Perón , Fidel Cast ro , Nasser, Mao, m e n o a quelli di s tampo p r e t t a m e n t e militare o burocra t ico , Fran-

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co, Salazar, Metaxas, Pinochet . Sognava di t ras formare gli italiani in una nuova razza, anzi di t rasformare l 'Europa che «entro dieci ann i sarà fascista o fascistizzata». Pronosticava l'«epoca delle camicie nere la quale vedrà i fascisti integrali, cioè nat i , cresciuti e vissuti i n t e r a m e n t e nel nos t ro clima, dotati di quelle virtù che conferiscono ai popoli il privilegio del p r ima to nel mondo» In un 'a l t ra occasione aveva det to : «A volte mi sor r ide l 'idea delle generazioni di laborator io , di creare cioè la classe dei guerr ier i , che è sempre p ron ta a mor i re , la classe degli inventori che persegue il segreto del mis te ro , la classe dei giudici , la classe dei g r a n d i capi tani d ' industr ia , dei g randi esploratori , dei g randi governatori». E rano p iù che altro fantasie da giornalista, ma i l Duce cui venivano dedicat i u n a vetta del Monte Bianco e un nuovo t ipo di rosa scurissimo, quasi n e r o , i l Duce le cui re l iquie e r ano disputa te dagli ammira to r i (essi si con tendevano ad esempio le stoviglie che aveva usato du ran t e una colazione), il Duce che era «tutti noi», generale , milite, cavallerizzo, ten­nista, mina to re , t rebbia tore , aviatore, ciclista, spadaccino, scri t tore, automobil is ta , commediografo : i l Duce che emi­nent i uomini di governo stranieri, come Churchill , ammira­vano: questo Duce la cui figura si proiettava ormai nella sto­r ia già d iventava , p r i m a che r icor ressero dieci a n n i dalla Marcia su Roma, la statua di se stesso.

Per un f e n o m e n o tan to i n c o n g r u o q u a n t o f r equen te Mussolini, che era il solerte regista del mito del Duce, ne su­biva poi la suggestione. L'uomo e l'idolo convivevano in un r appor to che rendeva sempre più difficile il contat to con la realtà. Mussolini, che sapeva essere - e lo fu soprat tut to nei p r imi a n n i del la sua ascesa polit ica - un calcolatore e un giuocatore abile e freddo, non trovava più modelli cui con­frontarsi nell 'Italia o nel l 'Europa con temporanea . Il suo al­bero genealogico di statista andava a cercarselo molto lonta­no, e molto in alto. Rivelò le sue preferenze nei tre d r a m m i che t ra il 1928 e il 1931 scrisse in col laborazione con Gio-vacchino Forzano, che aveva conosciuto pe r mezzo di D'An-

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nunzio. I tre lavori teatrali furono: Campo di Maggio (ispira­to a Napoleone) , Villa/ranca (ispirato a Cavour) , Cesare. Di essi Mussolini d i ede la traccia («è u n a sintesi s u p e r b a pe r chiarezza ed efficacia... ella ha martellato una serie di basso­rilievi» scriveva Forzano senza lesinare gli elogi dopo avere ricevuto la traccia del Cesare), lasciando il compito del dialo­go al col laboratore. In Italia i l n o m e del Duce n o n figurò, accanto a quello di Forzano, anche se il suo appor to creati­vo fu presto r isaputo. Da Campo di Maggio e Villafranca furo­no tratti anche i soggetti di d u e film. E significativa la scelta delle t r ame e dei protagonist i . In Cavour, Mussolini ammi­rava il tessitore politico; in Napoleone e in Cesare i condot­tieri che tuttavia e rano stati anche legislatori, maestr i di ci­viltà. Fino a quel m o m e n t o il Duce poteva vantare successi come tessitore e magar i come politico: ma gli mancava l'al­loro del guer r ie ro .

Nella t r iade dei model l i storici cui amava ispirarsi u n o solo fu p e r m a n e n t e m e n t e utilizzato nella liturgia del Regi­me: la romani tà . E si spiega. In tan to , la simbologia e il lin­guaggio della romani tà e rano stati present i nel fascismo fin dalle origini, anzi fin dai movimenti precursori , i fasci futu­risti e il legionarismo fiumano di D'Annunzio. Il saluto (Eja Eja Eja Alala), i gradi e i nomi dei repar t i nella Milizia e rano stati mutua t i dalla fabbrica cesarea. Ma a queste ragioni se ne aggiunsero, q u a n d o il suo potere fu consolidato, e parve p o t e r r egge re ad ogni p rova , al t re m e n o occasionali: u n a scelta di model lo storico. Mussolini e ra un a m m i r a t o r e di Napoleone, lesse sempre i libri italiani che venivano pubbli­cati sulla vita del corso («Per evitarne gli errori», spiegava). Ma la storia di Napoleone era storia di Francia, e la sua epo­pea era finita a Sant 'Elena. D'altro canto Cavour era il p ro­tagonista del Risorgimento, p a d r e a sua volta della «Italiet-ta» liberale che il fascismo ripudiava, pe r l 'angustia dei suoi disegni politici e la mediocri tà dei suoi notabili. Si aggiunga che il Conte, t empe ramen to impetuoso e a suo modo anche autori tario, aveva però sempre rispettato la meccanica par-

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l amen ta re , era anzi stato un grandiss imo debater, di livello br i tannico . Anche ques ta n o n e ra u n a quali tà che potesse mol to p iacere a Mussolini , insofferente delle opposiz ioni p ropr io perché , nel suo profondo disprezzo pe r gli uomini , r i teneva - e s e m p r e più r i t enne , p e r l 'anchilosi men ta le e psicologica che la d i t t a tu ra g e n e r a - di essere, lui solo, in g rado di valutare e di dec idere . Non pe r caso alla Camera era stato eret to un apposito podio, per i suoi discorsi.

Così la romani tà , vista in chiave carducciana e d a n n u n ­ziana, d ivenne alla fine il sot tofondo e la cornice p e r e n n e dei riti fascisti, con pun te di grottesco che e rano di origine, più che romana , romagnola . Anche i coltivatori di f rumento apprese ro d ' improvviso, con s tupore , di essere i «veliti del grano». La romani tà aveva avuto confini ideali e geografici abbastanza capaci pe r con tenere tut te le ambizioni fasciste, e sembrava legitt imare l ' intento di r ipor tare il popolo italia­no a virtù r emote , ma n o n spente . Mussolini ebbe qualche incertezza nello scegliere, tra i romani , il suo personale pre­decessore, oscillò t ra Cesare e Augusto , ma poi preferì Ce­sare, probabi lmente perché più «condottiero»: dove riaffio­ra il desiderio della gloria militare.

Un altro avvenimento , in quello scorcio di t empo , segnò il trapasso dal Mussolini u o m o al Mussolini mito: le dimissio­ni di Augus to Tura t i dalla carica di segre tar io del par t i to . Turati , p u r fedele esecutore, vi aveva por ta to t roppa perso­nalità e t r oppe idee. Nelle intenzioni di Mussolini, il P N F do­veva ancor più abdicare ad u n a reale funzione politica, sia p u r e inserita negli ingranaggi del po te re personale , e sem­p r e più d iventare , anch 'esso, un e lemento coreografico: i l coro di un ' ope ra che aveva un solo protagonista , i l tenore . Per un part i to siffatto Augusto Turati non era più il segreta­rio adat to , e infatti d o p o u n a parentes i affidata a Giovanni Giuriati , che lasciò pe r questo la pres idenza della Camera , le redini del P N F passarono, nel 1931, al maestro di cerimo­nie Achille Starace. Turati , l 'abbiamo già osservato, e ra stato

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un disciplinato in terpre te della volontà di Mussolini, aveva e p u r a t o le teste calde del vecchio fascismo, a m m a n s i t o le squadre d 'azione, isolato Farinacci, messo a p u n t o la mac­china organizzativa, moralizzato o tenta to di moralizzare il compor tamento dei grossi gerarchi («il fascismo - aveva det­to - è una casa di vetro, nella quale tutti debbono e possono gua rda re . Guai a chi profitta della tessera e indossa la cami­cia ne ra pe r concludere affari che al tr imenti n o n gli riusci­rebbe di condur r e a termine».)

Mussolini e ra d 'accordo: ma più sulle enunciazioni gene­riche che sui p rovvediment i singoli. Ma sopra t tu t to Turat i aveva u n a testa p e n s a n t e , ed esp r imeva u n a sua politica. U n a p r ima volta, nel marzo del 1929, aveva offerto a Mus­solini le sue dimissioni con u n a lettera nobile («è necessario, Duce , che qua lcuno dia questo esempio , a n d a r s e n e senza chiedere nessun'altra pol t rona e nessuna pensione - andar­sene met tendos i sull 'at tenti e d icendovi grazie pe r avermi consentito di servire e pe r avermi dato più di quello che io meritassi pe r le mie qualità»). Mussolini, che prefer iva di­met tere la gente nel m o m e n t o scelto da lui piuttosto che la­sciare che si dimettesse, rifiutò, gratificando anzi il segreta­rio del par t i to di inusitati elogi. Ma nel se t tembre del 1930 le dimissioni, r ipresenta te , furono accolte. Il dimissionario v e n n e tut tavia n o m i n a t o , a titolo pe r sona le , m e m b r o del Gran Consiglio, e più tardi assunse la di rezione del quoti­diano La Stampa, a Torino. Ma questo onorevole r i torno alla profess ione giornalistica d u r ò poco. Negli stessi ambien t i fascisti, dove covavano r isent iment i cont ro di lui, fu scate­nata u n a campagna scandalistica di es t rema violenza. Pare che al sorgere di essa n o n fosse stato es t raneo, p r ima della mor t e , ne l l ' imminenza del Natale 1931, n e p p u r e Arna ldo Mussolini, probabi lmente insufflato da altri. Arnaldo era un moralizzatore, e un moralista. Non mancava di esercitare la sua influenza pe r r imuovere da posti di responsabilità i col­pevoli di scorrettezze amministrat ive o di indegni tà moral i (part ì da lui il siluro che colpì il federale di Milano Mario

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Giampaol i , un ex fat torino che esibiva la sua po tenza e la sua ingiustificabile ricchezza, e che proteggeva a Milano una corte di manutengol i e di ragazze allegre). A Turati non po­teva essere imputa to alcun ar r icchimento illecito. Ma sem­bra avesse a Torino abi tudini di vita d isordinate , si par lò a mezza voce, o più che a mezza voce, di certi suoi morbos i compiaciment i sessuali, si accennò a propens ioni pe r i gio­vanetti o a orge nelle quali si esibiva come sadico flagellato­re. Q u a n t o ci fosse di fondato in questo, e quanto le dicerie appar tenessero soltanto ad una manovra e ad una vendet ta politica, è difficile dire. Certo è che l 'uomo - p r ima cacciato dalla direzione della Stampa, quindi espulso dal part i to, mi­nacciato di i n t e rnamen to in clinica come squilibrato, e infi­ne inviato nel 1932 in dora to confino a Rodi - si compor tò con dignità esemplare . Non recr iminò, non implorò i l per­dono. Solo q u a n d o il suo nemico Starace lasciò la segreteria del P N F ot tenne u n a riabilitazione, e la reiscrizione.

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CAPITOLO SESTO

IL DECENNALE

L'Italia si stava a p p e n a r i p r e n d e n d o dal t r a u m a della «quo­ta novanta» q u a n d o sulla sua economia si abbatté l 'uragano provocato dal «giovedì nero» di Wall Street. Con la fine d'ot­tobre del 1929 gli Stati Uniti, che credevano d'essere - sono parole del p res idente Hoover - «più vicini al trionfo finale sulla miseria che in qua lunque altro m o m e n t o o paese della storia», e n t r a r o n o invece in un catastrofico p e r i o d o di r e ­cessione. I l m o n d o ne fu sconvolto. In quel 1929 l 'I talia, l 'abbiamo accennato, aveva cominciato a respirare . L'indice della p roduz ione industriale, che da 100 nel 1927 era sceso a 93 nel 1929, aveva avuto l 'anno d o p o u n a impenna ta fino a 120. Mussolini poteva illudersi d 'avere «girato la boa». Ma si trovò di fronte u n o scoglio ancor più insidioso della «quo­ta novanta», e pe r di più del tut to estraneo alla sua volontà e alle sue decisioni.

Il riflesso del disastro di Wall Street sulla economia italia­na n o n fu immediato . LItalia n o n si trovava in u n a posizio­ne chiave nella s t ru t tura dei mercati finanziari e valutari in­ternazionali . Le borse nazionali quotavano quasi esclusiva­m e n t e titoli in terni , e i titoli italiani e r ano pressoché inesi­stenti nelle borse estere. Così, il 20 maggio 1930, Bottai, mi­nistro delle Corporazioni , si azzardava ad affermare che la crisi, p e r q u a n t o grave, lo era m e n o di quella del '20: dia­gnosi che i fatti s ' incaricarono pres to di sment i re . Duran t e gli anni della recessione - che si protrasse, sia p u r e con an­damen to da ultimo decrescente, fino a tut to il 1936 - il nu­m e r o dei disoccupati risultò più che triplicato, da m e n o di 400 mila fino a una p u n t a di oltre un milione e trecentomi-

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la; esportazioni e importazioni furono ridotte a circa un ter­zo; i prezzi all ' ingrosso crol larono senza che si riscontrasse u n a tendenza eguale, o di eguale misura - pe r un fenome­no consueto - nei prezzi al minu to . Industr ia l i e agrar i in­voca rono , d i concer to , u n a u l t e r io re r i duz ione dei salari, d o p o quel le che già e r a n o state impos te , come sapp iamo, con l 'adozione della «quota novanta».

Era questa u n a occasione ideale pe r met tere alla prova la neonata s t ru t tura corporativa, che avrebbe dovuto a p p u n t o c o n t e m p e r a r e , nelle emergenze , gli egoismi oppost i , e far prevalere il s u p r e m o interesse del Paese in u n a visione equi­librata. Ma il meccanismo corporativo n o n funzionò. I sacri­fici maggior i toccarono, ancora u n a volta, ai lavoratori di­pendent i , che furono assoggettati a successive drastiche de­curtazioni dei salari. Furono tartassati gli operai delle indu­strie, che si videro applicare nel 1930 un taglio dell 'otto pe r cento (ne e ra esonerato solo chi guadagnasse m e n o di 12 li­re al g io rno nelle città maggior i , m e n o di 8 l ire negli altri centri , e chi lavorasse t re o m e n o giorni la sett imana), e poi nel '34 un taglio del sette pe r cento. La scure si abbatté an­cora più p e s a n t e m e n t e sui bracciant i agricoli, che pe r se ro dal 20 al 25 pe r cento del salario. Al di là e al di sotto degli accordi intersindacali si verificò poi, specialmente nelle pic­cole imprese e nelle campagne , una serie di taglieggiamenti spiccioli e, pe r usare il te rmine adeguato , strozzineschi, che e rano resi possibili dalla disperata caccia ad u n a occupazio­ne purchessia. La s tampa fascista n o n mancò di sottolineare ed enfatizzare i l carat tere mondia le della crisi, p e r r ende r ­ne gli effetti p iù digeribili agli italiani. Non v'è dubbio che il Regime avesse eccellenti ragioni, nel r ivendicare questo ali­bi: ma non v'è dubbio anche che i sacrifici n o n furono, u n a volta di più, ripartit i equamente , tanto che Bottai, in un ap­p u n t o al Duce de l l ' au tunno 1931, gli chiedeva un or ienta­men to preciso: «Al p u n t o in cui si è giunti è necessario ave­re innanzi a sé u n a scelta sicura e chiara, da po te r seguire senza esitazioni: devesi p e r m e t t e r e che la t r incea dei mini-

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mi salariali prevista dai contra t t i - la quale , si noti , è stata già rot ta in più p u n t i - sia def ini t ivamente travolta, o la si deve difendere?».

Bottai interpretava la risposta del fascismo alla recessione come u n a sfida lanciata, in n o m e del corporat ivismo, sia al «liberal-capitalismo anarchico», sia al «comunismo colletti-vizzatore». «Il massimo responsabile della crisi - sostenne - è i l r e g i m e individualis t ico l iberale della p r o d u z i o n e . . . In questo grandioso e d rammat ico cimento di istituzioni il re­g ime corpora t ivo , che n o n assorbe alla m a n i e r a d i Marx l ' individuo nella classe, né, alla man ie ra di Smith, la classe nel l ' individuo, r a p p r e s e n t a u n a necessità storica. Ha in sé gli elementi atti a supera re e fronteggiare la crisi.» Giusep­pe Bottai, na to a Roma nel 1895, ma di p a d r e toscano e di m a d r e ligure, aveva nel fascismo u n a collocazione particola­re. Vi era arrivato, giovanissimo, pe r reazione di reduce dal­la gue r ra - aveva valorosamente combat tuto negli arditi - e a t t raverso la s t rada del vitalismo futurista. Era stato poe ta d ' a v a n g u a r d i a e an t imona rch i co accani to . La sua fede in Mussolini - che raggiungeva i toni del l 'adorazione, e anche quelli dell 'adulazione - e ra messa costantemente alla prova da un intellettualismo lucido e a volte to rmenta to , n o n c h é da una coscienza rigorosa.

Anche Bottai auspicava u n a «seconda ondata» . Ma n o n alla maniera degli intransigenti farinacciani, che aspettava­no sempre , dalla «rivoluzione», la tabula rasa dei valori tra­dizionali. Dopo gli slanci estremistici dei vent 'anni Bottai si e ra placato. Preconizzava invece un assetto dello Stato che, t enendo fede alle enunciazioni del Duce, realizzasse un ve­ro corporativismo, una mediazione perfetta dei contrasti so­ciali. Arbi t ro s u p r e m o sarebbe r imas to Mussolini p e r c h é «soltanto il Capo p u ò avere la visione unitaria della vita del­la Naz ione , sol tanto i l C a p o p u ò p r o c e d e r e nel coord ina­men to delle forze produt t ive , spartire i compiti, contempe­r a r e le esigenze, assicurare la giustizia t ra le classi, pe rché Egli soltanto p u ò calcolare tutti gli effetti, tut te le r ipercus-

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sioni, i contraccolpi che ogni atto p roduce nel sistema gene­rale della produzione». Ma, sotto la guida del Duce, il mini­stero delle Corporazioni avrebbe dovuto essere il motore di questa t rasformazione e la bilancia di questi equilibri. Così Bottai po tè a p p a r i r e nello stesso t e m p o il p iù or todosso e insieme il p iù i r requie to t ra i capi fascisti. In Critica fascista aveva svolto temi polemici, s empre più annacquandol i con il t r a scor re re degli anni . At torno a sé aveva raccolto molti giovani ingegni - la «covata Bottai» - che e r ano potenzial­mente dissidenti, e che grazie a lui r imasero convogliati nel f iume del fascismo. Ma Bottai, gerarca ar r ivato giovane ai r anghi più alti del potere , r imase saldamente inserito nel si­stema anche q u a n d o capì che il r appor to di Mussolini con il corporativismo era assai simile al r appor to di Mussolini con il par t i to: magnificava l 'uno e l 'altro, ma en t rambi doveva­no essere assoggettat i alle mutevol i decisioni ta t t iche del Duce , n o n condiz ionar le . Bottai constatava, a l la rmato , la «mitizzazione» del Duce («non è più un uomo, è una statua» c o m m e n t ò d o p o un 'ud ienza ) , ma n o n se ne staccò, f ino a l 25 luglio 1943.

Su u n a illusione si fondava d u n q u e l ' interrogativo d ram­matico che Bottai rivolse a Mussolini, q u a n d o la crisi econo­mica si delineò in tutta la sua gravità e la erosione dei reddi ­ti fissi d ivenne insostenibile, pe rché si decidesse a scegliere. Il Duce non scelse, ma procedet te con colpi di t imone sug­geriti dalle oppor tun i tà che via via si presentavano. La voce degli indus t r ia l i lo r agg iungeva a t t raverso canali d i re t t i - Giovanni Agnelli sostava nello studio di Bottai «come se il ministro fosse lui» -, il ma lumore degli operai preoccupava, quello dei contadini molto meno . Per questo i contadini , che accettavano la crisi con la stessa rassegnazione con cui accet­tavano le calamità naturali , soffrirono più di tutti. Si p u ò di­scutere, a questo pun to , se il prezzo che gli italiani pagaro­no alla crisi sia stato maggiore o minore di quello che paga­rono altri paesi, e altri lavoratori . Secondo i calcoli più im­parziali esso fu press 'a poco uguale . Resta il fatto che il te-

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n o r e di vita dei m e n o abbienti , che aveva avuto una spinta notevole nel «biennio rosso» '20- '22, restò bloccato o si con­trasse suppergiù du ran t e dieci anni , p r ima pe r effetto della «quota novanta», poi p e r la inc idenza della recess ione: e ques to avvenne in un paese dove esistevano sacche impo­nen t i d i sot tosvi luppo. N o n p u ò tut tavia essere del tu t to ignora to l 'e lemento cor re t tore e in tegra tore r appresen ta to dai «benefici sociali» che le istituzioni fasciste pe r la mater ­nità, la famiglia, l'infanzia, il dopolavoro, e così via, garanti­vano agli italiani.

Se pe r i lavoratori il m o m e n t o era nero , per gli imprendi to­ri e ra buio. Dal '29 al '30 i fallimenti e r ano aumenta t i del 17 pe r cento, i protest i cambiar i dell '11 pe r cento . Cadevano soprat tut to i piccoli, perché le aziende important i po te rono con ta re sull 'aiuto dello Stato, che r a r a m e n t e fu nega to . I l Duce se ne fece anzi vanto . Ha r icorda to Franco Cata lano che il 30 gennaio 1930 egli disse, pa r l ando ai podestà , che «se imprese di navigazione, bancar ie , industr ia l i , agricole h a n n o s u p e r a t o i l p u n t o m o r t o , lo d e v o n o al governo», e che nell 'ottobre dello stesso anno , i naugurando l 'assemblea del Consiglio nazionale delle Corporazioni , elencò le società salvate: la Cosulich, «fattore essenziale del l 'economia della Venezia Giulia», le co ton ie re mer id iona l i che occupavano diecimila operai , l ' industria del m a r m o , i cotonifici del Ve­neto, banche del Veneto, delle Marche, di Novara.

Ma n o n solo aziende o istituti minor i , appar t enen t i p re ­va l en t emen te al l 'area economica cattolica, e r a n o in diffi­coltà. Anche le g rand i banche - Commercia le , Credi to Ita­l iano, Banco di Roma - avevano l 'acqua alla gola p e r c h é , come ha spiegato Angelo Conigliaro, «si e rano legate a nu­merose imprese indust r ia l i decot te di cui possedevano i l controllo dei capitali sociali, ma alle quali avevano fornito fi­nanz i amen t i che a p p a r i v a n o o rma i i r recuperabi l i» . Dieci anni p r ima la Banca Italiana di Sconto era stata manda t a al­lo sfascio. Ma l'ottica fascista e ra ben diversa da quella gio-

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lituana. Lo Stato in t raprese subito il salvataggio degli Istitu­ti di c redi to , affidando inizialmente i loro capitali e il loro portafoglio azionario alla Banca d'Italia, quindi a u n a serie di società costituite ad hoc.

La politica del l ' in tervento pubblico trovò un suo p r i m o sbocco istituzionale nella creazione (novembre 1931) dell 'I­stituto Mobiliare Italiano (IMI) , cui era affidato il compito di «accordare prestiti contro garanzie reali di na tu ra mobiliare ad imprese pr ivate italiane» e di a s sumere even tua lmen te partecipazioni nelle imprese stesse. Il m o n d o della finanza fu messo in al larme da questa iniziativa che sembrava da re il via alla esautorazione delle imprese private . Mussolini si affrettò a prec isare che sarebbe stato a s su rdo cons ide ra re I ' I M I come «uno s t r u m e n t o creato o n d e p r o m u o v e r e cata­strofiche trasformazioni nella s t ru t tura economica della so­cietà italiana», in q u a n t o si t ra t tava sol tanto di «un mezzo pe r avviare energicamente l 'economia italiana verso la fase corporat iva», ossia verso un sistema che «rispetta fonda­m e n t a l m e n t e la p rop r i e t à pr ivata e l'iniziativa privata, ma le vuole anch'esse den t ro lo Stato». Il Duce rassicurava, con queste parole , gli industriali , che Bottai allarmava: salvo di­ventare , in al tra occasione, davant i a un pubbl ico diverso, più bot ta iano di Bottai nel da re alla teoria corporat iva u n a impron t a populis ta: «Nel l 'apparato economico del m o n d o c o n t e m p o r a n e o c'è qualche cosa che si è incagliato e forse spezzato?... La parola d 'ord ine è questa: anda re decisamen­te verso il popolo, realizzare concre tamente la nostra civiltà economica.. . Non abbiamo nulla da temere . Le plutocrazie degli altri paesi h a n n o t roppe difficoltà in casa loro pe r oc­cuparsi delle nos t re questioni e del l 'u l ter iore svi luppo che vogliamo da re alla nostra rivoluzione».

In realtà gl ' interventi dello Stato nella economia n o n fu­rono visti da Mussolini - lo ha osservato acutamente De Fe­lice - come u n a delle s t rade da pe r co r r e r e pe r comple ta re l'edificio corpora t ivo , ma come misure tecniche, d ivenu te indispensabili pe r necessità contingenti . A questi criteri ob-

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bedì (23 gennaio 1933) la creazione dell'iRi, che fu affidato ad Alberto Beneduce , un esperto e n o n un fascista di pr imo piano. C I R I aveva scopi «riparatori», era cioè (e res terà nei decenni , p r ima e d o p o la caduta del fascismo) un ospedale o un ospizio pe r imprese in collasso, o malate, o senescenti. Varando T I R I , Mussolini si diceva certo che esso avrebbe to­nificato po ten temente il mercato italiano. Nessuna intenzio­ne di collettivizzare l 'economia, anche se lo Stato si trovò in g r a d o di cont ro l la re , come scriveva Gerarchia, i t re quar t i del meccanismo produ t t ivo industr ia le e agricolo, a lmeno pe r le g rand i imprese. La ri luttanza del Duce a pe rco r r e r e fino in fondo questa s t rada è attestata dalla cessione ai pri­vati delle azioni della Italgas caduta in braccio allo Stato pe r u n o dei tanti collassi di quegli anni .

Esisteva il rischio, q u a n d o la nascita dell'iRi fu annuncia­ta, che i r i sparmia tor i r i t i rassero i loro deposi t i dalle Ban­che che in prat ica e r a n o già del lo Stato, ma che a ques to p u n t o lo divenivano anche formalmente. Beneduce e l'allo-ra suo giovane collaboratore Donato Menichella avevano di­sposto che fosse s tampato in segreto, in vista di quella even­tualità, qualche miliardo di lire di banconote , e che le ban­che ne fossero provviste pe r far fronte alla temuta corsa agli sportel l i . «Per a lcuni g iorni - r accontò Menichel la a t r en t ' ann i di distanza - Beneduce e io r e s t ammo rinchiusi in un albergo di Milano en t ro u n a camera dove e rano stati installati diversi telefoni. Que i telefoni squi l larono spesso, ma d o p o a lcune ore convulse del p r i m o g io rno , t o r n ò la quiete. I ritiri dei depositi non furono più di qualche centi­naio di milioni.»

Bottai perse la pol t rona di ministro delle Corporazioni il 20 luglio del 1932, in occasione di un r impasto che interes­sò vari dicasteri: ma, significativamente, solo di d u e Musso­lini riassunse persona lmente la responsabilità; gli Esteri (si­l u rando Grandi) e le Corporazioni . Circa i motivi dell'allon­tanamento di Grandi d i remo più avanti, t ra t tando della po­litica es tera . Q u a n t o a Bottai , ci p a r e che la sua disgrazia

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- n o n definitiva, p e r c h é d o p o essere r imas to ne l l ' a rea di parcheggio di cariche minori , come la pres idenza dell'iNPS e il gove rna to ra to di Roma, sarà n o m i n a t o min is t ro della Educaz ione naz iona le - trovi sufficiente spiegazione in quan to già si è det to . Il corporat ivismo sempre «sperimen­tale» e «in fieri» di Mussolini, che r imandava alle generazio­ni successive il consol idamento del sistema, diventava nella visione di Bottai u n a s t ru t tu ra organica, da realizzare p r e ­sto. Ma forse la goccia che fece traboccare il vaso fu un con­vegno di studi corporativi, indet to a p p u n t o da Bottai a Fer­ra ra dal 5 all '8 maggio 1932, d u e mesi e mezzo p r i m a del «cambio della guardia».

Tra i tanti discorsi di routine ve ne fu, nel convegno, u n o che fece scandalo. Lo p ronunc iò il filosofo Ugo Spirito, già allievo di Gent i le e poi in dissenso con il maes t ro . Spir i to par lò di « Ind iv iduo e Stato nella concezione corporat iva» sostenendo che il corporativismo doveva segnare la fine del­la lotta di classe, ma nel senso che capitale e lavoro si sareb­bero fusi, e che si sarebbe dovuto arr ivare alla «corporazio­ne proprietar ia». Coeren temen te con questa impostazione, che faceva del corporativismo «il liberalismo assoluto e il co­m u n i s m o assoluto», Spir i to p r o p o n e v a che , come pr imi p rovvediment i , dovesse essere inseri to un r a p p r e s e n t a n t e dello Stato nei consigli di amminis t raz ione delle maggior i az iende, e dovesse inol t re essere assicurata u n a cointeres­senza, oltre al salario, ai d ipenden t i . Quasi n o n bastasse, il filosofo disse che fascismo e comunismo non dovevano esse­re contrappost i in manie ra antitetica.

Le proposizioni di Spirito fecero scalpore, ma furono se­r i amen te discusse. Bottai stesso, t i r ando le somme, esordì r ipe tendo che era sua aspirazione por t a re gli istituti corpo­rativi «verso forme, n o r m e e funzioni più vaste, più profon­de , p iù o rgan iche e più impegnat ive» , ma che Spir i to e ra andato fuori da l l 'o rd inamento corporativo con «costruzioni a rb i t ra r ie e ipotesi personal i» . La re lazione di Spir i to era stata prevent ivamente sottoposta da Bottai a Mussolini, che

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ne aveva autorizzata la discussione. Il che i l lumina la or to­dossia del giovane ministro, ma non esclude che il Duce, vi­ste le dimensioni che il p roblema andava assumendo, e l'in­teresse che suscitava, abbia voluto togliere di mezzo, con il p r o m o t o r e di ques te per icolose manifestazioni , anche la possibilità di nuovi «scandali». La let tera che Bottai inviò a Mussolini , congedandos i dalla carica, fu un carat ter is t ico miscuglio di digni tà e di adulazione: «Accolgo il tuo invito con animo sereno. Mi assalirà solo, talvolta, la nostalgia del Capo, della tua presenza, del tuo ordine».

In u n a Italia che tentava faticosamente - come tutto il mon­do occidentale, del resto - di r imarg inare le ferite infertele dalla crisi economica mondia le , il fascismo festeggiò il de­cenna le della Marcia su Roma . Ques ta r i co r renza e r a in­d u b b i a m e n t e i m p o r t a n t e , p e r c h é at testava la solidità del Regime a t to rno al quale, nonostante le difficoltà e gli scon­tenti , s i andava agg lu t inando un consenso s e m p r e più va­sto: e fu celebrata con la solennità ton i t ruan te che i t empi esigevano. La liturgia del l 'anniversar io ebbe il suo t empio maggiore nella Mostra della Rivoluzione, allestita a Roma nel Palazzo delle esposizioni in via Nazionale, con la regia di Dino Alfieri.

Gli organizzator i avevano dovu to s u p e r a r e , talvolta in­terpel lando il Duce, dubbi e problemi di non facile soluzio­ne ; come quello posto dalla impossibilità di t rovare, p u r con i p iù generosi calcoli, t remila caduti fascisti il cui n o m e po­tesse essere apposto ad al tret tante lastre di vetro tappezzan­ti i m u r i di un locale della Mostra, t rasformato in sacrario. Quella cifra di tremila mort i , r ipetuta infinite volte, e ra en­t ra ta nella storiografia ufficiale. Ma a m a l a p e n a e r a stato possibile r e p e r i r e c inquecen to vit t ime n o n solo di scontri a rmat i , ma anche di malat t ie «per cause di servizio». Min-passe fu superata , ha raccontato Enrico Mattei in una diver­tente rievocazione, collocando su ogni tessera del mosaico funebre la scritta «Presente!», gener ica e suggestiva. Alla

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Mostra della Rivoluzione m o n t a r o n o la guard ia a t u r n o gli esponent i di ogni classe sociale e di ogni categoria profes­sionale: compresi i professori universitari, che nel 1931 era­no stati costretti a pres tare un g iuramento di fedeltà al fasci­smo, p r o m e t t e n d o di «formare ci t tadini operos i , p rob i , e devoti alla Patria e al Regime». Su quasi duemila docenti ne­gli Atenei italiani, solo 14 avevano rifiutato ques to at to di sottomissione.

Ma negl i stessi mesi in cui assordava gli i taliani con un'orgia di retorica, il Regime offriva loro una serie di rea­lizzazioni concre te , e indiscutibili . Dieci anni d o p o la con­quista del potere , Mussolini si diceva certo di avere il futuro dalla sua par te , e di essere il por ta tore di u n a missione sto­rica. Davanti alla folla milanese, il 25 ot tobre del 1932, p ro ­clamò che «il secolo ven tes imo sarà il secolo del fascismo, sarà il secolo della potenza italiana, sarà il secolo d u r a n t e il quale l'Italia to rnerà pe r la terza volta ad essere la direttrice della civiltà umana , perché fuori dei nostri princìpi n o n c'è salvezza né pe r gli individui né tanto m e n o pe r i popoli». La profezia sfociò in un f inale t ravolgente : «Tra un decenn io l 'Europa sarà fascista o fascistizzata. L'antitesi in cui si divin­cola la civiltà con temporanea non si supera che in un modo , con la dot t r ina e con la saggezza di Roma».

Ques t a t emera r i a futurologia sembrava t rovare fonda­mento nelle acclamazioni delle molt i tudini cui il Duce si ri­volgeva e nelle affermazioni che l'Italia fascista poteva van­tare , ne l l ' ambi to naz iona le e ne l l ' ambi to in te rnaz iona le . S e m p r e n e l l ' a u t u n n o del '32 Mussolini aveva i n a u g u r a t o Littoria, la p r ima delle cittadine dell 'agro r o m a n o bonifica­to, dove già si insediavano i coloni: nel giro di altri t re anni sarebbero sorte Sabaudia e Pontinia. Grandi navi scendeva­no dagli scali e nell 'agosto del 1933 il Rex conquistò il nastro azzurro, r iconoscimento spettante alla più veloce traversata atlantica, cong iungendo l 'Europa agli Stati Uniti in quat t ro giorni e mezzo. Entrava in funzione l 'autostrada Milano-To­rino. Tra il dicembre del '30 e il gennaio del 1931 Italo Bal-

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bo, ministro dell 'Aeronautica, aveva guidato la crociera ae­rea nel l 'America mer id iona le , compiu ta da dodici idrovo­lanti. Poi, nell 'estate del 1933, volò con 22 idrovolanti , pilo­tati da ufficiali che sotto la uniforme azzurra indossavano la camicia n e r a , da Orbe te l lo a Chicago. Per r i compensa il Q u a d r u m v i r o , che e r a gene ra l e d i b r iga ta aerea , fu p r o ­mosso marescial lo del l 'ar ia , con g r a n d e stizza del l 'a l t ro e p iù anz iano Q u a d r u m v i r o De Bono , che r imase genera le dell 'esercito. A Roma fu aperta , il 28 ot tobre del 1932, la via dei Trionfi, e il Duce ribadì, rivolgendosi ai decorati al valo­re - presente il Re che n o n era atteso, e che era giunto ina­spet ta tamente - che «l'Italia fascista deve t ende re al pr ima­to sulla terra , sul mare , nei cieli, nella mater ia e negli spiri­ti». La crisi economica , che di p e r se stessa i m p o n e v a un p r o g r a m m a di ope re pubbliche che alleviasse la disoccupa­zione, facilitò nell 'arco dei d u e anni fra il '32 e il '33 lo sfor­zo del Regime pe r offrire al m o n d o u n a vetrina convincente della sua efficienza e della sua vitalità, m e n t r e en t rava nel secondo decennio dell 'Era fascista. Protagonista pr imar io di questa immensa p a r a t a fu ovviamente Mussolini. Ma altri d u e uomin i , con ruoli c o m p l e t a m e n t e diversi , fu rono an­ch'essi protagonisti , accanto a lui: Achille Starace, segretario del part i to, e g rande cer imoniere del Regime, e Balbo.

Ad Augusto Turat i e ra seguito nella carica di segretario del P N F , l 'abbiamo già accenna to in p recedenza , Giovanni Giuriat i , che d u r ò a p p e n a 14 mesi (dal l 'o t tobre del '30 al d icembre del '31) e fu un personaggio di transizione. I r r e ­dentista, capo di gabinetto di D'Annunzio a Fiume, Giuriati n o n era stato squadrista, e al fascismo era arr ivato relativa­m e n t e tardi , nel ' 2 1 . Era un notabile, piut tosto che u n a f i ­g u r a di reale spicco e influenza. In sed iando lo , il Duce gli aveva affidato, con accenti peren tor i , il compito di epu ra r e il pa r t i to , di sn ida re la zavorra , p e r c h é «il fascismo è un esercito in cammino e deve essere garant i to con le più ele­mentar i misure di sicurezza». Giuriati prese molto sul serio la consegna, t r oppo sul serio: come stava accadendo anche

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a Bottai pe r il corporat ivismo. Centoventimila iscritti furo­no radiati , quasi altrettanti n o n chiesero il r innovo della tes­sera t emendo di incorrere nella purga , le anzianità re t roda­tate furono sottoposte a un vaglio. Ma a cose fatte Mussolini rivelò a Giuriati che secondo lui i reprobi n o n dovevano es­sere più di diecimila, e che insomma il segretario del part i to aveva esagerato . Ques to abbaglio, e anche la s empre mag­giore p ropens ione di Mussolini a circondarsi di collaborato­ri docili e duttili, gli yesmen, provocò la sostituzione di Giu­riati con il ge ra rca che , nella in te ra storia del fascismo, fu p e r p iù l u n g o t e m p o alla testa del pa r t i to , dal d i cembre 1931 all 'ottobre 1939: Achille Starace, già a lungo vicesegre­tario, e p romotore , insieme a molti altri, della indegna cam­pagna cont ro Augusto Turati .

Starace, nato a Gallipoli, in Puglia, da famiglia borghese, di­p lomato in ragioneria, aveva allora 42 anni . In gue r r a si era bat tuto valorosamente come ufficiale dei bersaglieri, nel fa­scismo era en t ra to sin dalla p r ima ora, «distinguendosi» in azioni squadr is te nella sua reg ione d 'or igine , e nel Trent i ­no. Di fisico asciutto, capelli impomatat i , salutista, maniaco delle uniformi, n o n aveva u n a collocazione politica autono­ma né un seguito persona le . P ropr io i suoi difetti p iù evi­denti , la superficialità, la limitatezza di orizzonti culturali, la p r o p e n s i o n e p e r u n a p o m p a p s e ù d o gue r r i e r a e in effetti piuttosto sudamericana, la docilità agli ordini , fecero cadere su di lui la scelta di Mussolini. I contatti tra il Duce e i suoi collaboratori si e r ano r idott i a brevi e secchi scambi di do­m a n d e e risposte, senza mai un reale approfondimento dei p rob lemi . Per d a r e magg io r solenni tà alle sue decisioni Mussolini non usava n e p p u r più il sì, q u a n d o si dichiarava favorevole a un provvedimento . «Approvo» sentenziava gra­vemente . Questa sbrigatività a volte paralizzante metteva in imbarazzo i gerarchi più intelligenti e sensibili, che avrebbe­ro voluto d iscutere , capire , far capire . Ma p e r Starace era l'ideale.

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Egli spiegò ogni sforzo - ed e r a capace di impensabi l i astuzie, a volte - per monumenta l izzare ancor più Mussoli­ni, che di spinte in quel senso non aveva molto bisogno. Eb­be il suo p r imo colpo d'ala quando coniò la formula del «sa­luto al Duce!» che apriva e chiudeva ogni cerimonia, conferì alla coreografia fascista una impron ta sempre più magnilo­quente , volle con maniacale tenacia regolare costumi, atteg­giamenti , frasario, luci, musiche, entra te , uscite, nelle recite in divisa che non si stancava mai di allestire. Fu sua l'inizia­tiva di far scrivere DUCE in tutte lettere maiuscole in gior­nali e libri (anche RE godeva di analogo privilegio, ma con un uso assai p iù parco) . F u r o n o sue le t rovate grazie alle quali, in omaggio al principio della diarchia, si cercava di ci­tare il Re senza pera l t ro an tepor lo a Mussolini. «Per volere del DUCE, nel nome augusto del RE, viene inaugurata» etc. etc. A volte eccedeva in zelo adulatorio e servile: e venne re­darguito. Così quando promosse u n a campagna di abbona­ment i al Popolo d'Italia che in pratica aveva carat tere di im­posizione e Mussolini gli ingiunse di smettere; così q u a n d o esagerò nel l ' imporre il nome di Mussolini o di altri appar te­nent i alla sua famiglia a stadi, scuole, ospedali, pont i e così via. Tan to che i l Duce , nel 1934, o r d i n ò ai Prefett i di p o r te rmine al malvezzo. Starace aveva anche disposto che ogni lettera d'ufficio dovesse concludersi con un «Viva il Duce!» analogo allo «Heil Hitler!» prescri t to in Germania . Pur mi­t r idat izzato con t ro gli eccessi adu la to r i , Mussolini questa volta subodorò il rischio del ridicolo e, convocato Starace, che lo ascoltava pate t icamente contri to, cominciò a passeg­giare dec lamando ipotetiche lettere: «vi annunc io che siete licenziato. Viva il Duce!», «vi comunico che vostro figlio è deceduto . Viva il Duce!». Starace r inunciò da allora ad imi­tare i saluti nazisti.

Maschilista («la missione delle d o n n e è fare figli»), nega­to al pens ie ro (anche se u n a volta si azzardò a cri t icare le poesie d i Montale) , Starace n o n era un esaltato re della m o r t e come lo spagnolo Millan Astray («Viva la m u e r t e ,

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abajo la inteligencia!»), ma piut tos to della ginnastica e del muscolo , anch 'ess i da p re fe r i re al l ' intel l igenza. Obbl igò i suoi camera t i p iù in vista a sal tare a t t raverso il cerchio di fuoco o sulla siepe di baionet te , li i m p e g n ò in corse bersa­glieresche (delle quali del resto si compiaceva anche l 'altro bersagliere, Mussolini), una volta pre tese dal diret tor io del par t i to che provasse p iù volte, come se i suoi c o m p o n e n t i fossero comparse d 'opera , il «saluto al Duce» p r ima di esse­re introdott i nella sala del M a p p a m o n d o . Trascorreva ore a disegnare nuove divise (una volta ebbe accanto a sé, in que­sta seria incombenza, il Duce in persona) . I suoi detti furo­no, a loro modo , memorabil i . Leo Longanesi sintetizzò l'era staraciana in una disposizione che faceva perentor io divieto ai camera t i fascisti di po r t a r e il colletto della camicia ne ra inamidato. Starace stabilì che «chi è dedito alla stretta di ma­no è sospetto», che «la cravat ta n e r a svolazzante significa anarchia e socialismo», che la parola «insediare» doveva es­sere evitata pe rché connessa alla sedia «o peggio alla poltro­na», che «le cure d imagrant i sono polit icamente sospette».

In queste sue connotazioni il nuovo segretario del part i­to fu senza dubbio un personaggio comico. Nessuno più di lui d iede spun to alle barzellette. Ma svolse la funzione che da Mussolini gli era stata assegnata, fu l 'esecutore di un p ro ­get to che n o n era suo, ma di Mussolini. Arpina t i , sottose­gretario agli In terni , era sbottato, q u a n d o il Duce gli aveva accennato ad u n a possibile nomina di Starace alla Segrete­ria: «Ma è un cretino!». «Certo - aveva ribattuto Mussolini -ma è un cretino obbediente.»

Con l 'orbace, il voi al posto del lei (letterati illustri si in­dussero a giustificare, con argomentazioni culturali, la nor­ma), il passo romano, il fascismo diventò, per colpa di Stara­ce, più grottesco del solito: ma era farina del sacco del Duce.

La forma era s t ret tamente legata alla sostanza. Mussolini voleva completare l'azione di svuotamento del P N F , toglien­dogli ogn i c o n t e n u t o polit ico, e perc iò ogni possibile fer­mento di discussione o di elaborazione dottr inale e cultura-

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le. Non più epuraz ione degli iscritti ma - con l'occasione del Decennale - r iaper tura delle iscrizioni, cosicché gli appar te ­nent i al part i to passarono nel volgere di un anno da un mi­lione a un milione e mezzo. Ma poi, attraverso le organizza­zioni scolastiche, giovanili, paramil i tar i , femminili , Starace volle met tere l 'uniforme a tutti gli italiani, ciascuno irreggi­menta to , ciascuno con i suoi distintivi, i suoi contrassegni, i suoi fez, i suoi fiocchi, il suo orbace di ca tegor ia , u n a im­mensa caserma nella quale movimenti , orari , aduna te , can­ti, d iver t iment i , l inguaggio , av rebbero dovu to obbed i re a un 'un ica onn ipo ten te regia. Il par t i to si confondeva con il paese. Diventava tut to e perciò, poli t icamente, n o n era più nul la . Gonf iandolo a d ismisura , Starace lo uccideva, p e r espresso desiderio di Mussolini.

Le organizzazioni fasciste p o t e r o n o van ta re mil ioni di aderent i , le aduna te furono sempre più oceaniche, le sfilate sempre più marziali, i rituali sempre più solenni soprat tut to q u a n d o era di scena L U I .

Achille Starace - che seppe poi m o r i r e b r a v a m e n t e , in piazzale Loreto, - devitalizzò e narcotizzò il P N F applicando pun tua lmen te la volontà di Mussolini. Questa fu, se voglia­mo usare u n a pa ro la grossa, la sua funzione storica. I l di­scredito che i suoi a t teggiament i gaglioffi ge t t a rono sul fa­scismo - «Starace è un cafone» riconobbe più tardi Mussoli­ni - potevano essere in larga par te riconducibili al Duce, che aveva scelto, come filtro delle sue istruzioni, questo perso­naggio mediocre e impopo la re . Lo volle, lo difese, lo con­fermò fino al 1939, pe r nomina r lo poi Capo di stato mag­giore della Milizia.

L'avvento di Starace alla Segreteria del par t i to fu deter­minante pe r la fine politica di Arpinati , il gerarca bolognese che e ra stato u n o dei maggior i e sponen t i del «rassismo» squadristico: un durissimo manganel la tore , ma che spiccava tra gli altri, se n o n p e r intel l igenza, cer to p e r i l cara t tere , pe r la franchezza, pe r la spregiudicatezza. Come sottosegre­tario agli In te rn i Arpinat i aveva avuto più di un motivo di

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attrito con Mussolini. In tan to perché , tenacemente anticor­pora t ivo , commet teva l ' e r ro re d i e s p r i m e r e ad alta voce questa sua convinzione; poi perché - anche sotto l'influenza di Mario Missiroli - e ra passato dalla in t rans igenza di un t e m p o ad a t t egg iament i l iberaleggiant i , d i s p o n e n d o ad esempio che nei concorsi pe r assunzione nel parastato e ne­gli enti locali la tessera del P N F n o n costituisse un titolo pre­ferenziale. Ma più ancora perché n o n misurava le parole e n o n praticava l 'adulazione con l'assiduità dei suoi «camera­ti». «L'Italia non è un feudo della famiglia Mussolini» aveva risposto seccamente al prefet to di Forlì, che gli aveva chie­sto come dovesse compor tars i nei r iguardi di un aspi rante alla concessione delle T e r m e di Cas t rocaro r a c c o m a n d a t o da d o n n a Rachele.

Per a t taccare Arpina t i i l segre tar io del pa r t i to p re se lo spunto da u n a circostanza marginale, ossia p ropr io dalla in­sistenza con cui il sottosegretario agli In te rn i appoggiava la d o m a n d a di Missiroli pe r l'iscrizione al P N F . In un r appor to al Duce, Starace p resen tò questo fatto come un pericoloso s intomo di ced imento del ras bolognese ad equivoche sug­gestioni l iberal -democrat iche. Avendogli Mussolini rinfac­ciato gli addebi t i staraciani, Arpinat i n o n si limitò a difen­dersi: in un biglietto al suo accusatore Starace lo trattò di vi­le e di ment i tore . Uno dei due , a quel p u n t o , doveva paga­re, e Mussolini n o n ebbe esitazioni, sacrificò Arpinati , che fu dimesso il p r imo maggio 1933 e che aggravò la sua disgra­zia indir izzando al Duce una lettera di commiato che in luo­go delle piaggerie di rito suggellava poche frasi asciutte con un sobrio «con immutata devozione». Forte di questa enne­sima impudenza , Starace r ipart ì all'offensiva d u e giorni do­po con un lungo memoriale nel quale, velenosamente, insi­nuava che Arpinati fosse stato implicato - come sùbito si era m o r m o r a t o - nel l 'a t tentato Zamboni a Bologna. A Starace non bastò che Arpinati fosse polit icamente fuori giuoco. Lo volle come Augusto Turat i (e peggio di lui) pe r sona lmente d is t ru t to . Ci riuscì infatti. Nel luglio del 1934 il gera rca

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sconfitto fu espulso dal part i to, arres ta to con u n a quindici­na di suoi amici «per avere assunto e m a n t e n u t o atteggia­m e n t o pa lesemente cont ra r io alle dirett ive e alla uni tà del Regime», inviato al confino per c inque anni , cui ne furono aggiunti altri cinque perché non aveva dato «segni di ravve­dimento». Solo a g u e r r a iniziata fu liberato, ma non riabili­tato, e si ar ruolò volontario.

Q u a n d o compì la seconda crociera atlantica Balbo aveva 37 anni. L'esperienza e la responsabilità del potere lo aveva­no maturato , p u r senza a p p a n n a r e i l suo piglio da moschet­tiere. Dell 'aeronautica era stato non soltanto il ministro ma, come ha scritto Federzoni , il «padrone», e vi aveva por ta to molto slancio e, insieme, molta in tol leranza verso chi n o n condividesse le sue impostazioni tecniche. Voleva fare le cose in fretta, e o t t ene re subito ì risultati. Le trasvolate d iedero una indubbia conferma delle sue grandi qualità di trascina­tore, anche se dal p u n t o di vista tecnico va p u r det to , oggi, che le direttrici fondamentali di Balbo, per lo sviluppo della aviazione, e rano errate . Egli pun tò sull 'idrovolante e sul tri­motore : formule, en t r ambe , che si d imos t ra rono pe rden t i , in confronto a quelle dell 'aereo terres t re e - a lmeno finché sopravvisse la propulsione a elica - a pari n u m e r o di motori. Fu, quella di Balbo, u n a aeronautica da Regime dittatoriale, ansioso di affermazioni risonanti, e capace di realizzarle, an­che se priva di un adegua to fondamento industr iale e p ro ­duttivo (un fenomeno analogo fu quello dei voli spaziali so­vietici, e dei primati che in questo campo I 'URSS inizialmente o t tenne) . Così p u r e si p u ò discutere sulla effettiva validità dello s t rumento bellico che Balbo consegnò al suo successo­re nel ministero, il sottosegretario Valle (titolare era ridiven­tato Mussolini), alla fine del 1933. Ne fa fede una lettera che lo stesso Mussolini, piuttosto malignamente, gli aveva scritto, d o p o il passaggio delle consegne: «Nella tua visita di conge­do mi dicesti che mi lasciavi un totale di 3.125 apparecchi..-Ho proceduto alla necessaria discriminazione e ne consegue che tale n u m e r o si r iduce a quello di 911 apparecchi , effi-

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dent i dal pun to di vista bellico, alla data odierna». Balbo re­plicò confermando la giustezza della sua valutazione.

Pur con tutte queste precisazioni, la figura di Balbo resta notevole, nel p a n o r a m a fascista: e la sua popolar i tà diven­ne, a l l ' indomani delle trasvolate, immensa , n o n solo in Ita­lia ma in tut to il m o n d o . L'uomo era stato capace di accatti­varsi le folle, al di qua e al di là dell 'Oceano, aveva ot tenuto un trionfo senza p receden t i a Chicago, che aveva dedicato al suo n o m e la Settima Strada, offriva l ' immagine di un fa­scismo giovane, a rd imentoso , efficiente, u m a n o . I trascorsi violenti e rano dimenticati , perché e rano cambiati i tempi , e perché era cambiato lui. Mussolini, che si fregiava del titolo di «primo aviatore d'Italia», capiva l ' importanza p ropagan­distica dei voli di Balbo ma tollerava male che il meri to an­dasse, pe r u n a n i m e riconoscimento, al giovane Quadrumvi ­ro , piut tosto che a lui. Balbo, che si ostinava a s t r ingere la mano e che aveva subito assunto atteggiamenti antistaracia-ni, sembrava un potenziale «delfino», e quindi un potenzia­le rivale, più che un corifeo obbediente .

I sospetti e la gelosia del Duce furono alimentati dai sug­gerimenti che gli e rano pervenut i pe r la nomina di Balbo a Capo d i stato m a g g i o r e gene ra l e del le Forze Arma te , ma con poteri rafforzati rispetto a quelli che la carica fino ad al­lora comportava. L'idea era stata già espressa dal segretario del part i to Giuriati: «Balbo, con la crociera atlantica (la pri­ma), ha provato di essere un organizzatore formidabile e si è conquistato u n a fama mondiale . Poi Balbo è fascista, men­tre Badoglio n o n lo è: tu hai bisogno di p r e p a r a r e le Forze Armate della rivoluzione fascista, n o n quelle di un qualun­que stato liberale». Mussolini n o n se ne d iede pe r inteso, e si limitò, nel luglio del 1933, a r i p r ende re il ministero della Guerra . Poco dopo , r ientrato dalla seconda trasvolata atlan­tica, Balbo gli fece perveni re un elaborato proget to che pre­vedeva la riunificazione dei dicasteri militari in u n o solo, da affidare al Duce, un rafforzamento della aeronautica, e u n a modifica dei po te r i del C a p o di stato magg io re genera le ,

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che avrebbe dovuto acquistare più autorità, e dir igere effet­t ivamente gli ingranaggi delle Forze Armate (con Badoglio la supervisione del Capo di stato maggiore generale era as­sai b landa) . Balbo si au tocandidava , ev iden temente , all 'in­carico. Ques ta volta la reaz ione di Mussolini fu a t a m b u r bat tente. Nel novembre r iprese pe r sé anche Aeronautica e Marina, e relegò Balbo nel do ra to esilio del governa tora to libico. Balbo seppe del s i lu ramento il 5 n o v e m b r e , u n ' o r a p r ima del ricevimento inaugura le per l ' aper tura del nuovo circolo degli aviatori, e, secondo Federzoni, ne fu «tramorti­to». Poi si ada t tò al n u o v o ruo lo p o r t a n d o v i la vitalità di sempre .

Tra il 1933 e il 1934, men t r e Balbo t ramontava, come «del­fino» del Duce, un nuovo astro si affacciava sul firmamento fascista: Galeazzo Ciano, t r e n t e n n e (era na to nel 1903), fi­glio della medaglia d 'oro Costanzo, fascista della p r ima ora e «notabile» tra i maggiori del Regime, mari to di Edda Mus­solini. Anche se il P N F gli r i conobbe a posteriori i titoli di «sciarpa littoria», e di par tecipante alla Marcia su Roma, Ga­leazzo Ciano si era sostanzialmente disinteressato, da ragaz­zo, di politica. Era stato fascista, ma passivamente, da giova­no t to che prefer iva la m o n d a n i t à salott iera e frivola alle contese di uomin i e di pr inc ìp i . Le sue ambizioni e r a n o piuttosto letterarie e giornalistiche. Mussolini n o n aveva co­nosciuto a fondo il p r e t enden t e p r ima di concedergli la ma­no della sua intel l igente e i r requ ie ta p r imogen i t a . Le riu­nioni di amici non e rano u n a sua consuetudine , e anche se Costanzo Ciano appar teneva al g r u p p o dei gerarchi che più gli e r ano fedeli, e vicini, Galeazzo, diplomatico all'inizio del­la carriera, e ra u n a incognita, pe r il Duce, q u a n d o il fidan­zamen to fu consol ida to , e finalmente co rona to (24 apri le 1930) da un mat r imonio sfarzoso: sposa in bianco con uno strascico di alcuni metr i , sposo in tuba e tight, Xestablishment del Regime tut to mobil i tato p e r queste nozze d'eccezione. Semmai , nel r e n d e r e più in t ima la conoscenza t ra Edda e

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Galeazzo, aveva avuto u n a pa r t e attiva Arnaldo Mussolini, bonar io zio. Nei te legrammi che Mussolini inviava alla figlia (in Cina assieme al mar i to n o m i n a t o Console gene ra l e a Shanghai) Galeazzo è sempre nomina to di sfuggita, alla fi­ne , senza un r i fe r imento che lo r i gua rd i p e r s o n a l m e n t e , t r a n n e u n a volta: «Mi sono sentito perf ino commosso agli elogi che Galeazzo fa di te e Rachele. Bene approvo».

Tornato in Italia, Ciano fu aggregato nel '33 alla missio­ne pol i t ico-diplomatica inviata alla conferenza economi-co-mone ta r i a di L o n d r a , e n o n sfigurò. I n fo rma to della buona prova che il genero aveva dato, il Duce decise di con­cedere la luce verde pe r un suo rap ido «cursus honorum» . In agosto - Balbo r ientrava dalla crociera aerea negli Stati Unit i - il g iovane conte Ciano d ivenne capo dell'ufficio s tampa della Presidenza: assunse cioè u n a funzione di pri­mo p iano nel meccanismo at traverso il quale i giornali ita­liani a p p r e n d e v a n o quali fossero le notizie da valorizzare e quelle da censura re , quale impostazione o tono dovessero avere le informazioni o i servizi speciali su determinat i avve­nimenti , a volte anche quale collocazione, quali titoli, e qua­le d imensione , andassero riservati ad alcuni fatti. Un a n n o dopo questa centrale delle veline, sempre diret ta da Galeaz­zo Ciano - che poi era l 'esecutore di disposizioni di Mussoli­ni, mai dimentico di essere il p r imo giornalista d'Italia - fu elevata alla digni tà di sot tosegretar ia to p e r la S tampa e la p ropaganda , e poi di ministero.

Questa ascesa fece intuire ai gerarchi , i cui sent imenti al r iguardo furono divisi, che il «generissimo», o il «ducellino», p r e n d e v a quota , e poteva pres to d iven ta re i l n u m e r o d u e del Regime. Come in effetti fu d u r a n t e gli anni in cui resse il ministero degli Esteri. Lì difetti e qualità di Ciano appar ­vero in p i ena luce: e possono essere p i e n a m e n t e valutat i dallo storico grazie anche a quel documento impareggiabil-mente prezioso che è il suo Diario. Ma, p u r sospendendo un giudizio finale, si p u ò dire che fin dai pr imi passi Ciano ge­rarca si rivelò pe r quello che era: intelligente ma superficia-

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le, velleitario più che virile, fatuo più che brillante, smanio­so di imi ta re Mussolini - anche nella os ten ta ta r inunc ia a ogni pr incipio di moral i tà in ternaz ionale - ma pr ivo della testa, della grinta, dell ' intuito di lui. Si atteggiava a rude , e riusciva ad essere soltanto goffo. Bel ragazzo, un po ' del ge­ne re tango, aveva però , nel m o d o di muoversi , alcunché di i ngua r ib i lmen te molle . «Camminava - ha scritto Renzo Tr ionferà - d iva r icando i p ied i come, p e r de fo rmaz ione professionale , capi ta ai vecchi camer ie r i di t rat toria .» Le male l ingue gli l anceranno , q u a n d o firmerà il pa t to con la Germania , u n a bat tu ta al c ianuro: «piede-piatto d'acciaio». Aveva anche delle qualità. Capiva i problemi, era coraggio­so - ne fa fede il m o d o in cui affrontò la fucilazione nel poli­gono di Verona, nel 1944 - aspirò alla cultura, anche se non la raggiunse . I suoi vizi furono ingiganti t i dalla fulmineità del successo, dalla facilità con cui diventava sempre più po­tente , i l ludendosi di diventarlo pe r suo meri to , e non per­ché era issato a quei vertici dal Duce.

In quelli che sono stati chiamati, e con ragione, gli anni del consenso al Regime, l 'antifascismo fu costretto in u n o spa­zio polit ico e p ropagand i s t i co s e m p r e più angus to , sia in Italia sia all 'estero. All ' interno la sorveglianza e le persecu­zioni poliziesche furono senza dubbio de te rminant i nel ren­de re fievole, e dai più inascoltata, la voce di chi denunciava la grossolanità, la involuzione burocrat ica e coreografica, gli e r ror i della dit tatura. Ma anche se il bavaglio fosse stato me­no stret to le approvazioni avrebbero avuto la meglio sulle cr i t iche. S u p e r a t a la «quest ione morale» posta da l deli t to Matteotti, restavano sui piatti della bilancia, in u n a soluzio­ne magari semplicistica ma convincente, le realizzazioni e la tranquill i tà dell 'Italia fascista da u n a par te , le lacerazioni e il disordine degli anni prefascisti dall 'altra. Il mito dei treni in orar io sarà irrazionale, ma funziona, e non si p u ò non te­n e r n e conto.

L'antifascismo ebbe molte sfaccettature, t r o p p e anzi. Ma

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occorre dist inguere subito d u e tendenze: quella di chi pen­sava che ogni forma di opposizione potesse da re frutti solo se svolta all ' interno, in stretto contatto con la realtà del pae­se e gli umor i della gente; e quella di chi dava p r e m i n e n t e i m p o r t a n z a al l 'azione in te rnaz iona le , la sola che potesse avere un 'adegua ta cassa di r isonanza in altre forze politiche, in organi di s tampa a g r a n d e diffusione, in g r u p p i di opi­n ione . La scelta fra le d u e strategie fu a volte obbligata, a volte del iberata. E rano restati in Italia, p e r esercitarvi u n a opposizione anche netta, o u n a f ronda cauta, gli esponent i del part i to popolare - con la insigne eccezione di Don Stur­zo - e la maggioranza degli esponent i liberali ( t ranne alcuni amendo l i an i ) . B e n e d e t t o Croce , che fu i l p u n t o di riferi­m e n t o della magg io ranza di questi dissenzienti mode ra t i , scrisse poi che «di g ran lunga più impor tan te e più feconda, [in confronto a quella al l 'estero, N.d.A.] e ra l 'opposizione italiana dal l ' interno, dove si tastava quot id ianamente il pol­so al popolo , dove ogni g iorno qualcosa, ancorché piccola, veniva fatta cont ro l 'oppressione, dove ogni giorno si pote­va lavorare a conservare quan to più era possibile della tra­dizione, della civiltà e della cul tura italiana, p r e p a r a n d o la riscossa e, p iù o m e n o vicino che fosse, un avvenire miglio­re». Il sospetto che questo giudizio del filosofo sia stato in­fluenzato dalla sua p e r m a n e n z a in Italia, e che la sua pe r ­manenza in Italia sia stata suggeri ta anche dal desiderio di n o n a b b a n d o n a r e gli amat i s tudi , la confortevole casa, gli affetti e le amicizie, è legittimo. Detto questo, bisogna rico­noscere che oltre frontiera a Croce n o n sarebbe riuscito di essere, come fu, simbolo di u n a società liberale, aperta , raf­finata, l'antitesi della stupidità staraciana.

Per l 'opposizione in t e rna e r a n o , in l inea di pr inc ip io , i comunisti , anche se già nel 1927 Togliatti iniziò in Svizzera il lungo esilio che l 'avrebbe por t a to a Mosca. «Noi lavoria­mo in Italia - scrisse Togliatti - p e r c h é noi n e g h i a m o che l 'abbat t imento del fascismo possa verificarsi all 'infuori del­l ' intervento delle grandi masse lavoratrici.» I comunisti era-

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no del resto gli unici ad aver p r e p a r a t o pe r t e m p o u n a or­ganizzazione clandestina efficiente: e gli unici che potessero ancora contare, tra gli operai e i contadini , un certo n u m e ­ro di aderent i , sia p u r e valutabile in poche migliaia. Inoltre i comunist i avevano u n a p ro fonda sfiducia nella «Concen­trazione democratica» che era stata formata a Parigi, e che n o n ebbe perc iò la loro app rovaz ione incondiz ionata , ma anzi subì i loro attacchi. La repress ione dell'ovRA e del Tri­bunale speciale infierì con particolare durezza contro il P C I , p o r t a t o r e di u n a ideologia che - n o n o s t a n t e t e m p o r a n e i riavvicinamenti in campo internazionale - era r i tenuta l'an­titesi del fascismo, cui p u r e la collegavano molti connota t i totalitari. Roma era cont rapposta a Mosca. Abbiamo già ac­cenna to alle c o n d a n n e pesantissime che furono inflitte ad esponent i del P C I e che sostanzialmente lo decapi tarono al­l ' interno. Ma coloro che ne p rosegu i rono tra mille pericoli l'attività dovettero constatare che la «base» n o n rispondeva, o r i spondeva s e m p r e m e n o : tanto che, d o p o la vit toria in Etiopia, la d i r igenza comunis ta in Italia dovet te compie re una conversione propagandist ica, e implicitamente politica, p e r cercare di far p r o p r i o , a lmeno in pa r t e , lo slancio pa­tr iot t ico che pe rvadeva o rma i ogni classe sociale, e che si t raduceva in appoggio al fascismo.

Emigra rono anche a Parigi quasi tutti gli esponent i p iù in vista del socialismo e del part i to repubblicano: Nenni , Sa-ragat , Pacciardi , Labriola , Treves, Tura t i , Buozzi, Cianca, Facchinetti e altri. La presenza di queste personalità di rilie­vo della vita politica italiana, molte delle quali si ostinavano a considerare l'Aventino un m o m e n t o esemplarmente fulgi­do della lotta alla di t tatura, e non un imperdonabi le e r rore , consentì alla Concentraz ione antifascista di nascere presto, con disegni ambiziosi. Essa fu varata nel 1926 e incluse ini­zialmente i d u e tronconi del part i to socialista, il riformista e il massimalista, il par t i to repubbl icano , la Confederaz ione generale del lavoro. Nell 'aprile del 1927 uscì La Libertà, un sett imanale che arr ivò, nel suo m o m e n t o migliore, a t i rare

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20 mila copie. I l «fronte unico antifascista» sembrava u n a realtà, anche se Amendo la espr imeva su di esso p r o f o n d o scetticismo g iudicando coloro che ne facevano pa r t e «stac­cati dalle loro basi, incapaci di c o m p r e n d e r e il corso degli avvenimenti in Italia, ve ramente dei fuorusciti, degli usciti fuori dalla real tà italiana». Filippo Turat i , in un manifesto che recava, tra le altre le firme di Nenni , di Salvemini, di De Ambris, di Cianca, della Balabanoff, scrisse che quello della lotta al fascismo era un problema comune «a tutti i proleta­riati e a tut t i i popol i civili» e che la d i t t a tu ra di Mussolini «non era u n a semplice malattia, u n a transitoria intossicazio­ne di cui l 'organismo sociale si sarebbe spon taneamen te li­berato», ma piuttosto il tentativo della «plutocrazia di tutti i paesi» di conservare i privilegi acquisiti. Turat i si mostrava più chiaroveggente - p u r nel suo schematismo ideologico -di quegli esuli che aspet tavano il vicino crollo del fascismo «sotto il peso delle p ropr i e vergogne».

Il fuoruscitismo ricevette nuova linfa q u a n d o si aggiun­sero ad esso Car lo Rosselli ed Emilio Lussu. M a n d a t o al confino di Lipar i p e r la p a r t e avuta nella fuga di Tura t i , Carlo Rosselli ne era fuggito, a p p u n t o con Lussu, nel luglio del 1929, e p roponeva all'antifascismo una formula dinami­ca e attiva che voleva p u n t a r e , q u a n d o u n a crisi si fosse aperta, «sugli obbiettivi decisivi: le armi, le masse, il potere». Molti, nella Concentrazione, furono impensieriti da un pro­g r a m m a che p resupponeva un lavoro di penetrazione poli­tica in Italia.

Nell 'ot tobre di quello stesso '29 Rosselli aveva fondato il movimento rivoluzionario «Giustizia e Libertà» che p r o p u ­gnava a p p u n t o il passaggio al l 'azione p e r c h é «in Italia la gen te è stufa dello spezzat ino antifascista che g ius tamente considera u n a delle massime cause della nos t ra sconfitta». In quel per iodo si ebbe una recrudescenza di gesti spettaco­la rmente dimostrativi e di attentati: recrudescenza che n o n riuscì n e p p u r e a scalfire la saldezza del Reg ime , ma che por tò alla ribalta un antifascismo diverso da quello dei poli-

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tici, più audace, a volte guerr igl iero e terroristico. La fiam­mata non appiccò alcun incendio, ma Turati ne fu conforta­to: «Propaganda, aeroplani , bombe? Tutto meglio di nulla».

U n a impre sa d i n a m i t a r d a , i nu t i lmen te c rude le , aveva già funestato il 12 aprile 1928 l ' inaugurazione della Fiera di Milano, dove era atteso il Re. Pochi minut i p r ima che Vitto­rio Emanue le I I I vi giungesse era esploso un ord igno , che aveva causato venti mort i e quaran ta feriti. I suoi autor i ri­masero ignoti, né se ne conobbe mai la matrice politica. Più d i re t tamente ispirata dalla ribellione di «Giustizia e Libertà» furono l 'a t tentato di F e r n a n d o De Rosa che sparò - senza colpirlo - cont ro il pr inc ipe eredi tar io Umber to , a Bruxel­les, il 24 o t tobre 1929, e il volo di Giovanni Bassanesi, nel luglio del '30. Bassanesi era un valdostano chiuso e tacitur­no - forse sintomi della malattia mentale che più tardi lo co­strinse al manicomio - e, entra to a Parigi nell 'orbita di «Giu­stizia e Libertà», aveva p reso il b reve t to di pilota. Con un monomoto re Farman, il cui acquisto era stato finanziato da Carlo Rosselli, decollò da un campo di for tuna in Svizzera ITI luglio 1930 e lanciò su Milano 150 mila manifestini an­tifascisti. Mussolini, furioso e insieme ammira to , se la prese con Bocchini, che faticò ad acquetar lo . Riuscito fortunosa­mente ad a t te r rare in Svizzera, Bassanesi vi fu processato, e condanna to a u n a lieve pena .

Lauro De Bosis, au tore di un altro «beau geste» di stam­po d a n n u n z i a n o , e r a i l p r o d o t t o d i un c e p p o ideologico molto diverso. T r e n t e n n e era stato tra i fondator i della Al­leanza Nazionale, che ebbe vita breve, e che avrebbe voluto un 'azione antifascista favorita e approva ta dalla Monarchia e dalla Chiesa. Tra coloro che inco ragg ia rono la Alleanza Nazionale fu rono B e n e d e t t o Croce , Mario Vinc iguer ra , Giovanni Antonio Co lonna d i Cesarò , U m b e r t o Zanott i Bianco, p a d r e Rosa della Civiltà Cattolica (Vinciguerra fu arrestato e la formazione si dissolse poco dopo) . Il p a d r e di De Bosis era un manager di alto livello e un letterato assai fi­ne , la m a d r e un 'amer icana . A Parigi il ragazzo non riscosse

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simpatie tra i veterani del fuoruscitismo. Campava facendo il por t i e re d 'a lbergo e in tan to p r e p a r a v a cocciutamente la sua impresa («il mio tecnico dice che ho u n a probabili tà su dieci di riuscire, ma questo è molto più di quanto mi occor­ra»). Si alzò in volo da Marsiglia, con un piccolo monomoto ­re, il 3 ot tobre 1931, giunse in vista di Roma sull ' imbrunire, lanciò qualche migliaio di manifesti m i r a n d o sopra t tu t to a Palazzo Venezia dove già e rano accese, nella sala del Map­p a m o n d o , le luci dell ' insonne. Non aveva sufficiente carbu­rante per a t te r rare in Corsica, come progettava, e si inabis­sò in mare . L'indifferente città e terna non si accorse dell'ac­caduto.

Un mese p r ima , a Genova, un d inami t a rdo , Domenico Bovone , e r a stato g r a v e m e n t e ferito da un «incidente sul lavoro» m e n t r e p reparava un o rd igno a orologeria. La ma­dre , che viveva con lui, mor ì nello scoppio. Bovone confes­sò di avere compiuto in precedenza alcuni gesti terroristici, e il Tr ibunale speciale lo c o n d a n n ò a mor te . Fu giustiziato. Così p u r e furono condannat i a mor te , e fucilati, t ra il '31 e il '32 , Michele Sch i r ru e Ange lo Sbarde l lo t to , accusati di aver p r e p a r a t o attentati alla vita del Duce. Il t e r ror i smo fu in quei mesi p reoccupan te , pe r la polizia del Regime (due d i p e n d e n t i del le ferrovie e r a n o stati sfracellati, a Roma , dalla esplosione di un o r d i g n o allo scalo T ibur t ino) . Mus­solini sentì la necessità di p ronunc ia re un d u r o moni to . «La Rivoluzione che r i sparmiò i suoi nemici nel 1922 li m a n d a oggi, l i m a n d e r à d o m a n i al m u r o , t r anqu i l l amen te . E più forte, quindi , oggi di allora. Quan t i fra i nostri nemici opi­nano n o n esservi rivoluzione sino a q u a n d o n o n funziona­no i plotoni di esecuzione, possono p r e n d e r n e atto.» Qual­che anno più tardi (aprile 1938) il Duce doveva to rna re sul­l ' a rgomen to : «In tu t to t re fucilati pe r aver a t t en ta to alla mia vita o pe r aver commesso atti di ter ror ismo. Avrei usa­to clemenza a Sbardellotto e Schirru. Ma Sbardellotto, ven­t i d u e n n e , che r i spose all ' invito a f i rmare la d o m a n d a di grazia d ichiarando di r impiangere di non aver po tu to com-

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piere l 'at tentato; ma Schirru, anarchico, ot t imo combat ten­te della g r a n d e guer ra , che grida la sua fede davanti al plo­tone d 'esecuzione, sono ve ramente uomini degni d i un de­stino migl iore di quel lo che la m o r t e ha loro r iservato. Io n o n potevo impedi re alla legge di funzionare, non potevo, pe r debolezza o pe r sent imental ismo, garant i re l ' impuni tà ai miei nemici o p p u r e , p e r far piacere alle libertà democra­tiche, t ras formarmi in un bersaglio a disposizione del pr i ­mo venuto».

Carlo Rosselli e «Giustizia e Libertà», con la loro strategia d'attacco, n o n davano fastidio soltanto a Mussolini. Davano fastidio anche ad esponent i t ra i più autorevol i della Con­cen t raz ione antifascista che dissent ivano da loro sia p e r scrupoli legalitari, sia pe rché temevano la reazione del Re­gime. Bocchini n o n era un poliziotto che volesse asprezze superflue: ma, di fronte a precise minacce, era p ron to a da­re un giro d i vite. La Concen t r az ione sembrava in t an to rafforzarsi , a lmeno dal p u n t o di vista s t ru t tu ra l e , in tan to pe rché i d u e t ronconi del par t i to socialista esiliato si e rano ricongiunti , e poi perché alla fine del 1931 Rosselli, che ave­va a lungo diffidato della «atmosfera nebulosa e messianica» in cui i fuorusciti vivevano «alla g iorna ta , a t t e n d e n d o l'e­vento risolutivo», accettò di immet te re «Giustizia e Libertà» nella coalizione antifascista.

Questa intesa n o n d u r ò a lungo, la vampata dell 'azione si esauriva, e i suoi effetti e r ano nulli. Le sconfitte disgregaro­no la alleanza. Tanto era sicuro il Regime che, celebrando il Decennale, aveva concesso u n a amnistia e un indul to estesi, a lmeno parzialmente, anche ai reati politici. Secondo le no­tizie ufficiali furono liberati 639 de tenu t i (su 1.059) e 595 confinati . Diversi fuorusciti , cui e ra stata inflitta la revoca della cittadinanza, la r io t tennero: tra gli altri Salvemini e De Ambris.

Nel g iugno del 1934 la Concen t r az ione antifascista fu sciolta, e ne diede atto Modigliani in una relazione che ave­va il tono e l 'amarezza di u n a orazione funebre. Contempo-

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r ancamen te La Libertà cessò le pubblicazioni. Modigliani ri­conobbe che l'ascesa di Hitler aveva «aiutato il Regime mus-soliniano sia a rafforzare la sua manomissione all ' interno sia ad a t tenuare le ostilità e le antipatie all 'esterno». Queste dif­f icoltà dell 'antifascismo avevano accentua to la d ivergenza tra «Giustizia e Libertà» che voleva - così la definiva Modi­gliani - «una rivoluzione individualista» e coloro che soste­nevano non esservi possibilità di riuscire «se non nel g iorno in cui le masse a v r a n n o r io t t enu to la loro capacità di azio­ne». «Dopo le esperienze fatte mili tando nei g rupp i di "Giu­stizia e Libertà" creati ne l l ' in te rno del paese pe r lo più da socialisti - continuava la relazione - alcuni compagni in Ita­lia sono giunti alla conclusione che era tempo di r inunciare alle illusioni di un rivoluzionarismo a lquanto primitivo, in­capace di t rascinare le masse.» (Nella terminologia at tuale l'accusa è di «avventurismo».) In effetti il p iù serio colpo a «Giustizia e Libertà» era stato por ta to dalla infiltrazione nel­le sue f i le di u n a spia, dal che e ra der iva to l ' a r res to (con condanne da sei a venti anni di reclusione) pe r Bauer, Par-ri, Ernesto Rossi e altri rimasti in patria. Umber to Ceva, an­gosciato dal t r ad imento , si uccise in carcere. Lo stesso Mo­digliani citava, p r i m a di a r r iva re al l 'ul t ima e più p e n o s a pa r t e del suo r a p p o r t o , «la sorte del nos t ro eroico Pert ini arrestato a Pisa e condanna to a dieci anni di reclusione».

Si con t rapponevano d u n q u e , nella diagnosi di Modiglia­ni, d u e tattiche, quella di «Giustizia e Libertà» e quella dei socialisti. Il dissidio non era sanabile. «I dir igenti all 'estero di "Giustizia e Libertà" p re tendevano di riservarsi non si sa quale p r e m i n e n z a di azione a l l ' in te rno del paese e n o n si scostarono dal loro p i ano di voler impadron i r s i del movi­men to socialista italiano. E q u a n d o ogni tentativo di un ac­cordo si manifestò inutile, n o n ci fu più nessuno che potesse c redere che la Concentrazione avrebbe po tu to sopravvivere a questa scossa mortale.» Tre anni d o p o lo scioglimento del­la Concent raz ione , Carlo Rosselli e il fratello Nello furono assassinati nei d in torni di Bagnoles-sur-l 'Orne da cagoulards

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francesi, istigati da Galeazzo Ciano, divenuto ministro degli Esteri, attraverso i servizi segreti italiani.

Il collasso della emigrazione antifascista, o a lmeno della sua organizzazione, aveva seguito di poco, e probabi lmente non senza motivo, un nuovo plebiscito indetto dal Regime a cinque anni di distanza dal precedente . Si votò il 25 marzo. I comunist i , anche con un appello lanciato da Giuseppe Di Vittorio, che si trovava a Parigi, avevano invitato i lavoratori a non astenersi («Votate no!»), men t re i socialisti avevano la­sciato ai loro simpatizzanti la scelta t ra il no e l 'astensione. «Giustizia e Libertà» aveva tentato di diffondere francobolli raff igurant i antifascisti processat i dal Tr ibuna le speciale. Andò alle u r n e il 96,25 p e r cento degli iscritti e i sì furono ol tre dieci milioni con t ro 15 mila no . Dobbiamo r ipe t e re , anche pe r questo plebiscito, che la int imidazione, la costri­zione psicologica, il t ambureggiamento propagandist ico as­sicuravano in par tenza al fascismo una valanga di approva­zioni: ma l 'esiguo n u m e r o dei no r a p p r e s e n t ò n o n solo i l frutto della dit tatura, e dei suoi meccanismi, ma anche il sin­tomo di u n a autentica adesione di massa al fascismo. Si fos­se votato in tut ta libertà, Mussolini avrebbe ancora trionfa­to, s eppure in modo meno schiacciante. Lelio Basso dovette riconoscere, scrivendo a Parigi su Politica socialista, che «il fa­scismo è o rma i un ' ab i tud ine , u n a real tà magar i anche im­por tuna , della quale si p u ò brontolare o r idere volta a volta, ma che nessuno penserebbe ser iamente a met tere in discus­sione». Perciò, secondo Basso, era ormai inutile par la re agli italiani di «difesa delle libertà democratiche», ma si doveva par lare loro «di cose che conoscono, delle esperienze che vi­vono, dei p rob lemi che l i angus t iano ogni g iorno , di tut to quan to in somma forma da ann i o rma i e formerà p e r anni ancora la sostanza della loro attività».

In questa atmosfera deve essere inquadra to un tentativo di r iavvic inamento al fascismo - dai fuorusciti g iudicato «grave cedimento» e poco m e n o che t rad imento - compiuto dall 'ex sindaco socialista di Milano avvocato Emilio Caldara.

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Trami te un e s p o n e n t e socialista che e ra r imasto in b u o n i termini con il Duce, Caldara chiese un colloquio a Mussoli­ni, e l 'o t tenne . In u n a let tera a Missiroli aveva spiegato le sue intenzioni. «Vi sono n o n pochi cittadini che da anni so­no d o v e r o s a m e n t e in d i spar te , m a n t e n e n d o equi l ibr io d i pens ie ro e di condo t t a e fede alle loro ideali tà socialiste. Ora , di fronte agli sviluppi che il Regime in tende da re allo Stato corpora t ivo , o r i e n t a n o rea l i s t icamente verso questi sviluppi il loro pensiero politico. Direbbero volentieri ai la­voratori una parola di fede e di persuasione.» Mussolini ri­cevette Ca ldara il 18 apr i le 1934, lo ascoltò cor tesemente , affermò che le Corporazioni e rano «un p u n t o di partenza», ebbe un unico scatto q u a n d o i l suo in te r locu tore accennò alla necessità di da re maggiore libertà ai cittadini, e ai lavo­ratori in particolare. «Libertà al g r u p p o , n o n all 'individuo» sentenziò. Ca ldara se ne a n d ò , senza aver o t t enu to a lcuna promessa , e in sostanza l ' approccio finì lì. La veri tà è che Caldara non aveva nulla da offrire, pe rché la presa dei par­titi antifascisti sulle masse era minima, e il Duce d'altro can­to n o n voleva concedere n e p p u r e la più piccola fetta del po­tere che il Regime aveva conquistato. In questo vide giusto, dal suo p u n t o di vista. Dopo la g u e r r a d 'Et iopia , in cui la popolari tà del fascismo raggiunse il suo apice, lo scoraggia­mento degli antifascisti, e le diserzioni dalle loro file, si fece­ro ancora p iù f requent i , f ino ad as sumere in qua lche m o ­mento un carat tere di frana.

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PARTE S E C O N D A

L'IMPERO

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C A P I T O L O S E T T I M O

L'ODIATO PUPILLO

Anche dopo il discorso del 3 gennaio 1925, e le pr ime misu­re per la instaurazione della dit tatura, Mussolini si era mos­so, in politica estera, con p rudenza . Messa agli archivi l'av­ventura di Corfù del 1923, aveva parlato di «politica di rac­coglimento e di fermezza». Ogni tanto si concedeva, soprat­tutto pe r la vetrina, qualche gesto o dichiarazione gladiato­ria, più ad uso in te rno che es terno. Ma n o n esagerava. Gli ambasciatori delle g rand i potenze a Roma, o gli statisti che vi giungevano in visita, si t rovarono di fronte un interlocuto­re assai meno imprevedibile e bizzoso di quanto temessero.

Nella pr imavera del 1925 il ministero degli Esteri era sta­to «fascistizzato» affiancando al titolare, Mussolini stesso, un sottosegretario. Lo avevano chiesto alcuni ambient i del fa­scismo in t rans igente , i quali t emevano che il loro capo po­tesse essere impr ig ionato e irret i to dalla «carriera», ancora domina ta da uomin i t iepidi o agnostici verso il r eg ime , di cui essi vedevano l 'esecrata incarnazione nel segretario ge­nerale Contarmi . Alla carica di sottosegretario fu nomina to Dino Grandi . La scelta era stata oculata. Come fascista della p r ima ora cui e rano stati pe rdona t i i t en tennament i dell'ot­tobre 1922, G r a n d i dava p i ena garanz ia a l pa r t i to ; come modera to piaceva al Re e ai conservatori . Per di più era in­telligente, dotato di fascino personale e di comunicativa, an­sioso di acquistare prestigio sul p iano internazionale.

In politica estera Mussolini era, come in quella in terna , un pragmat ico . Non aveva un p r o g r a m m a a lunga gittata: mai egli formulò qualcosa che potesse essere pa ragona to al millenarist ico Metri Kampf di Hitler. Ma e ra sollecitato da

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una serie di motivazioni p e r m a n e n t i , e la più p e r m a n e n t e di tutte era il prestigio. Voleva affermare il principio di u n a Italia «uguale» alle al tre g rand i po tenze eu ropee , r iecheg­g iando in ques to i l p e r e n n e t ema dell '«iniquo» t ra t ta to di Versailles e della pace «mutilata». Uguaglianza dell 'Italia si­gnificava, in part icolare, avversione ai disegni di egemonia continentale della Francia.

Il r a p p o r t o , psicologico e polit ico, di Mussolini con la Francia ebbe s e m p r e le cara t ter is t iche del l '«amore-odio». La sua d i sord ina ta cu l tu ra e ra in larga p a r t e francese, le glorie e i personaggi della storia di Francia - la rivoluzione, Napoleone - lo affascinavano. Ma la Francia era anche una tipica democrazia pa r l amen ta re , i l model lo di quel regime che sarebbe poi stato r iassunto , dalla p r o p a g a n d a fascista più becera, nella formula «demo-pluto-giudo-liberal-masso-nico». Parigi e ra il cen t ro di raccolta degli antifascisti emi­grati o fuggiti, che vi avevano insediato le loro organizzazio­ni e le loro pubblicazioni, e che vi trovavano appoggi e soli­darietà. E pe r di più aveva, agli occhi di Mussolini, un difet­to di cui non bisogna sottovalutare l ' importanza psicologica: lasciava mano libera ai caricaturisti e agli chansonniers che lo p r e n d e v a n o a bersagl io. Di ques ta Francia che sotto sotto ammirava , e a cui si sentiva legato, Mussolini volle tenace­men te ostacolare, in quegli anni , i disegni eu rope i e balca­nici, p u r senza tendere la corda oltre un certo limite. «Litigi spesso, ro t tu ra mai» aveva det to nel 1926 al ministro degli Esteri inglese Austen Chamberlain .

Ma se temeva la Francia pe r quello che era, Mussolini te­meva la Germania pe r quello che poteva diventare. HAnsch-luss - cioè l 'unione con l'Austria - era la sua ossessione, ogni accenno dei tedeschi, anche i tedeschi ben intenzionati della Repubblica di Weimar, all'Alto Adige e alla sorte dei suoi cit­tadini alloglotti, lo faceva a n d a r e sulle furie. «Quella gente - dichiarò in u n a intervista del febbraio 1926 - n o n ha di­ment icato n iente , non si è rassegnata a niente ed è ancora attaccata ai suoi sogni di ieri. Il pericolo germanico dovreb-

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be avvicinare sempre di più l'Italia e la Francia.» Ma la diffi­denza pe r la Ge rman ia n o n gl ' impediva di essere, in linea generale , favorevole a u n a qualche revisione dei trattat i di pace, intanto perché l'Italia si considerava più tra le vittime che t ra i beneficiari di essi, poi perché la cancellazione delle r iparazioni di gue r ra , dovute dai Paesi vinti, avrebbe com­por t a to anche la cancellazione dei debit i di gue r r a , di cui e r a v a m o obera t i ; infine p e r c h é questa politica, pra t ica ta verso l 'Ungher ia e l'Austria, disturbava i piani francesi nel bacino danub iano e nei Balcani.

I l p u n t o fermo della d ip lomazia mussol in iana era , p e r allora, l'amicizia del l ' Inghi l terra , preziosa pe r bilanciare la potenza francese e la minaccia tedesca, e indispensabile pe r o t tenere via libera ad un qualche tipo di espansione nel Me­di te r raneo e in Africa: espansione politica ed economica che «non comportava obbligatoriamente», in questa p r ima fase, «guer re p e r la conquista di t e r r i to r i di colonizzazione». E infatti p r o p r i o a L o n d r a la politica estera fascista raccolse, inizialmente, i migliori successi. Essi furono propiziat i an­che dal complesso di superiori tà degli inglesi, che conside­ravano i l fascismo un regime rozzo, ma a p p u n t o pe r questo adatto a un popolo di scarsa coscienza democrat ica come l'i­taliano, e un r imedio brutale ma efficace contro il «dragone rosso».

II ministro degli Esteri Austen Chamberla in , classico con­servatore di stile vittoriano, strinse con il Duce rappor t i an­che pe r sona lmen te cordiali . Ed è noto che Winston Chur ­chill, cancell iere dello scacchiere in quel lo stesso gove rno Baldwin, ebbe molta ammiraz ione p e r Mussolini. Gli fece visita a Palazzo Chigi nel 1927, a ccompagna to dalla sua guardia del corpo, l ' ispettore di polizia Walter T h o m p s o n . Poiché Churchil l , m e n t r e si appres tava a en t ra re nello stu­dio di Mussolini, aveva il sigaro in bocca, un agente di servi­zio lo invitò a but tar lo. Churchill lo fece. Ma quando , varca­ta la soglia, si accorse che Mussolini restava seduto , trasse dal por tas igar i d 'o ro un al tro Avana, lo accese con cura

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t r aendone densi sbuffi, qu indi si avviò con aria provocante verso la scrivania del Duce. Ma questi , che q u a n d o ur tava con t ro qua lcuno capace di tenergl i testa sapeva d iven ta re malleabile e accattivante, trovò pe r Churchil l il tono giusto. Lo statista inglese ne fu conquistato. Dichiarò, dopo il collo­quio, alla stampa: «Fossi stato italiano, cer tamente sarei sta­to con voi di cuore , dal pr incipio alla fine della lotta vitto­riosa contro gli appetit i bestiali e le passioni del leninismo».

Pur nella sua iniziale cautela, la politica estera mussolinia-na conteneva tuttavia, e rivelava a tratti, le component i dina­miche che avrebbero por ta to il fascismo al suo massimo trionfo, la guerra di Etiopia: e alla sua rovina, la guer ra mon­diale. Le dit tature debbono sempre muoversi , e se possibile divorare qualcosa pe r dimostrare di essere vive. Questo vale per la politica interna come per la politica estera. Il grido di dolore della g rande proletaria, che si era mossa con Giolitti per conquistare lo «scatolone di sabbia» che solo c inquan tan­ni più tardi avrebbe rivelato d'essere un forziere di oro nero, riecheggiava nei discorsi di Mussolini. «Ci sono at torno all'I­talia paesi che h a n n o una popolazione inferiore alla nostra ed un terr i tor io dopp io del nostro. Ed allora si c o m p r e n d e come il problema della espansione italiana nel m o n d o sia un problema di vita o di morte per la razza italiana. Dico espan­sione: espansione in ogni senso, morale, politico, economico, demografico.» Mussolini in quel m o m e n t o non pensava ad un conflitto eu ropeo e n o n aveva, concretamente , dei piani pe r u n a g u e r r a coloniale. Ma n o n poteva appa r i r e come i l conservatore dello status quo. E pe r questo aveva creato - com'è tipico dei di t tatori - u n a «diplomazia parallela» di suoi fiduciari politici o ideologici che spesso ostacolò e con­traddisse quella ufficiale e tradizionale, ma di cui non si deve sopravvalutare l ' importanza. Qualche missione speciale, un compito vago di appoggio all'azione diplomatica affidato ai fasci all'estero, poco d'altro, pe r lungo tempo.

Il fascismo-dittatura esordì, in politica estera, con la par­tecipazione a un pat to (quello di Locamo) che avrebbe do-

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vuto i n a u g u r a r e in Europa , secondo le speranze di molti , un nuovo p e r i o d o di col laborazione e di pace . Con quel trat tato la Francia e la Germania si impegnavano a n o n ag­gredirs i a g g i u n g e n d o con ciò alle garanzie già statuite nel trat tato di Versailles u n a ul ter iore garanzia pe r le frontiere tedesche con Francia e Belgio, men t r e Gran Bretagna e Ita­lia garant ivano a loro volta questo accordo.

L'iniziativa di L o c a m o e ra stata vista con sospet to da Mussolini, soprat tut to per una ragione: essa «raddoppiava» la difesa della Francia, ma lasciava senza garanzie la frontie­ra del Brennero . Per poter vantare u n a par i tà internaziona­le con l ' Inghil terra, l'altra garante , e anche pe r n o n restare isolato, Mussolini si rassegnò a f i rmare. Ma n o n perse più occasione di d ichiarare che lo spirito di L o c a m o si andava «decolorando», che le illusioni da esso suscitate e r a n o mal riposte, e che la corsa agli a rmament i non ne era stata mini­mamen te frenata: il che era vero.

Per sottoscrivere il 16 ot tobre 1925 il t rat tato, Mussolini tornò, da Capo del governo, in Svizzera. A questo suo viag­gio oltre frontiera n o n ne seguirono altri pe r 12 anni . Forse un inc idente con i giornalist i con t r ibu ì a l l 'avvers ione di Mussolini pe r gli ambienti esteri nei quali n o n fosse protet­to - come sarebbe accaduto in Germania d o p o l 'avvento di Hit ler - dallo scudo di u n a p r o p a g a n d a amica, e nei quali non gli venisse garant i ta u n a «passerella» tappezzata di ap­plausi ed elogi. Duecento corr ispondent i incaricati di segui­re i lavori della conferenza si e r ano impegnat i a boicottare un 'even tua le conferenza s tampa del Duce che, informato­ne, affrontò nel salone del Palace Hote l l ' inviato del Daily Herald, George Slocombe, por tavoce dei c o r r i s p o n d e n t i esteri. «Ebbene, va sempre avanti il comunismo?» d o m a n d ò Mussolini , cor ruccia to , a Slocombe. «Non sapre i dirvelo, n o n sono comunis ta» fu la r isposta. «Bene, al lora mi sba­glio» borbot tò Mussolini al lontanandosi . Al che George Ny-ples, un olandese, gli lanciò alle spalle un «già, a lei capita spesso».

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I frutti di L o c a m o furono effìmeri, anche perché in Ger­mania , eletto il vecchio maresciallo H i n d e n b u r g alla presi­denza della Repubblica, già si profilava il revanscismo; e la Francia reagiva alla minaccia r iarmandosi . Cont ro la Fran­cia si accaniva di p iù la s tampa fascista: e alla Francia Mus­solini p resen tava , con a r r o g a n z a verbale , un «Cahier de doléances» che andava dalla spart izione ingiusta dei m a n ­dati coloniali allo statuto degl ' italiani di Tunisi, da u n a p iù favorevole sistemazione dei confini meridionali della Tripo-litania alla m a n o libera nei Balcani, e alla situazione dei fuo­rusciti antifascisti. Propr io nei Balcani, in quello scorcio di anni , l'Italia raggiungeva, con re Zog di Albania, un accor­do che inseriva saldamente il piccolo Stato nell 'orbita italia­na , s tabi lendo un r a p p o r t o di al leanza e p ro tez ione che i l De Felice ha paragonato a quello tra l ' Inghi l terra e il Porto­gallo e che impensieriva, na tura lmente , la Jugoslavia.

Fu in questa fase più ringhiosa che minacciosa che la politi­ca estera italiana passò, nel set tembre del 1929, da Mussoli­ni a Dino Grand i , p romosso minis t ro . N o n si t ra t tò , è evi­den t e , di u n a delega totale. I l d i t ta tore , a l cui f i l t ro e r ano sottoposte anche le nomine minor i di funzionari e dispacci giornalistici insignificanti, avocava a sé le g rand i decisioni. Ma queste e rano , in quel momento , più insistite e peren to­rie in altri settori che in quello dei r appor t i internazionali , dove n o n e rano tanto in discussione i singoli at teggiamenti quan to u n a «linea».

G r a n d i aveva ricevuto la carica in occasione del g r ande r impasto ministeriale grazie al quale, come abbiamo già vi­sto, Mussolini si era spogliato di quasi tutti i ministeri che via via era andato accentrando nella sua persona. Probabilmen­te, alla r inunc ia agli affari esteri , aveva cont r ibui to anche l ' impedimento dei viaggi. Sia pe r motivi di sicurezza, sia per la già accennata r i lut tanza ad affrontare ambient i stranieri freddi o ostili, il Duce mal si adattava, come sarebbe stato uti­le, agli scambi di visite e di incontri : e l'invio di un sottose-

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gretario era a volte inadeguato e male accetto. Ma l'avvento di Grand i compor tava qualcosa di sostanziale. Grand i , che nei quat t ro anni del suo sottosegretariato si era scrupolosa­mente p repa ra to al compito (aveva anche impara to ottima­mente l'inglese) e vi si era dimostrato perfet tamente tagliato, aveva u n a sua linea, o meglio u n a sua interpretazione della l inea mussol iniana. Anche lui voleva ostacolare i tentativi francesi di egemonia continentale e p o r r e l'Italia, su un pia­no di totale uguaglianza, nel «direttorio europeo»; anche lui appoggiava mode ra t amen te la tendenza alla revisione delle nazioni sconfitte; anche lui invocava per l'Italia il diritto alla espansione verso l'Africa. Ma per ot tenere questi scopi p u n ­tava su u n a politica di solidarietà e d'intesa con le democra­zie, specialmente con l ' Inghi l terra di cui fu sempre g r ande ammira to re , e su u n o s t rumen to verso il quale il fascismo, nella sua ideologia e nei suoi uomini , nutr iva u n a profonda diffidenza: la Società delle Nazioni.

Il r ag ionamento di Grandi era semplice e, in astratto, ra­zionale. L'Italia era t r o p p o debole e sopra t tu t to t r o p p o po­vera pe r potersi pe rmet t e re u n a politica competitiva sul pia­no degli a rmament i . Doveva d u n q u e sostenere la tesi della parità, ma su un livello che gliela rendesse accessibile. Nello stesso t e m p o l 'Italia doveva evi tare d i d a r e u n ' i m p r o n t a ideologica alla sua politica estera, pe r poter giuocare su più scacchieri (tipico il caso degli approcci con l 'Unione Sovieti­ca, che il governo fascista era stato del resto tra i pr imi a ri­conoscere) . Q u a n t o a un ' even tua l e - mol to even tua le -espansione in Africa, solo col consenso della Francia e del­l ' Inghi l te r ra l 'Italia poteva perseguir la . E il t e r r e n o ideale pe r questo tipo di diplomazia era la Società delle Nazioni.

Questa impostazione n o n impedì a Grandi di p romuove­re contatt i coi moviment i fi lofascisti dei vari Paesi. Ma mai fino al p u n t o di tu rbare i rappor t i coi governi. La sua diplo­mazia morbida offriva del fascismo - che già si era conciliato con la Chiesa - una immagine rassicurante. Questo me todo diede inizialmente buon i frutti: come nella conferenza na-

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vale di L o n d r a del 1930 dove la Francia, che n o n intendeva essere legata da u n a par i tà degli a r m a m e n t i con l'Italia, si trovò in posizione di disagio, e quasi costretta a sconfessare, dal suo pulp i to democra t ico , i buon i proposi t i che verbal­men te andava enunc iando . Ma a lungo anda re rivelò le sue contraddizioni .

La situazione cambiava infatti più r ap idamente di quan­to G r a n d i avesse previs to . La Ge rman ia , cessata prat ica­men te la sua condizione di nazione sorvegliata e giuridica­men te «minorata», si riaffacciava alla ribalta, mor to Strese-m a n n , con il volto cat tol ico-conservatore di B r ù n i n g e di Von Papen; e infine con i baffetti inquietanti di Hitler; Fran­cia e Inghi l te r ra si riavvicinavano in tanto pe r po te r conte­n e r e la r ipresa politica e mili tare tedesca. All'Italia, con la m a n o v r a che G r a n d i aveva ideata , res tava poco spazio, e Mussolini ne voleva molto , pe r sfruttare le sue doti di op­portunis ta .

Il 20 luglio 1932 Grandi fu destituito, e inviato ambasciato­re a Londra . In u n o sfogo all 'ambasciatore Canta lupo il Du­ce motivò così la sua decisione: «In t re anni Grandi ha sba­gliato tut to. Si è lasciato impr ig ionare dalla Lega delle Na­zioni, ha praticato una politica pacifista e societaria, ha fatto l 'u l t rademocra t ico e i l supe r g inevr ino , ha po r t a to l 'Italia fuori dal binario rigido di u n a politica, ha compromesso al­c u n e ambizioni della n u o v a generaz ione , è a n d a t o a letto con l ' Inghi l terra e con la Francia, e siccome i maschi e rano quelli , l 'Italia e r a r imasta gravida di d isarmo». Con previ­sione azzeccata Mussolini aggiunse che probabi lmente una g u e r r a andava p r e p a r a n d o s i s p o n t a n e a m e n t e , e forse in­to rno al 1940 sarebbe scoccata pe r l 'Italia «l'ora cruciale». Secondo Canta lupo , Mussolini «non attr ibuiva all 'America un ruolo di g rande importanza: la considerava disinteressa­ta all 'evoluzione del m o n d o m o d e r n o (sic)». Insieme a intui­zioni quasi profetiche, il Duce dimostrava così la limitatezza provinciale del suo orizzonte internazionale.

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La caduta di Grandi provocò esultanza in molti ambienti fascisti. Italo Balbo se ne fece in terpre te con un articolo sul Popolo d'Italia (approvato nel suo complesso, e censurato in alcuni passaggi cons idera t i t r o p p o aspr i , da Mussolini) a l quale l'ex ministro degli Esteri reagì l amentandone , in una lettera al Duce, il tono «canagliesco e vigliacco». Ma anche Mussolini n o n po t è far mol to - t r a n n e u n a m a g g i o r e ag­gressività della p ropaganda , e una più accentuata ideologiz-zazione dei temi di politica estera - pe r modificare subito la l inea di G r a n d i . Le svolte gli e r a n o impos te dal l ' es tero , e l'edificio eu ropeo era squassato dal vento di Berlino.

Mussolini n o n aveva capi to, all 'inizio, l ' impor tanza del movimento nazional-socialista, né la forza politica che, sotto l 'apparenza di un uomo «un po ' risibile e un po ' invasato che aveva scritto un 'opera , il Mein Kampf, illeggibile» - sono pa­role sue - si nascondeva in Hitler. Il fallimento del putsch di Monaco del 1923 l 'aveva convinto della goffaggine m a n o ­vriera del leader nazista. Il vivacchiare del suo mov imen to nelle frange della destra revanscista per alcuni anni gli fece r i tenere che mai potesse arr ivare al potere , e che semmai si dovesse pun ta re sullo Stahlhelm, la formidabile organizzazio­ne degli ex-combattent i . Non mancarono , anche nel per io­do tra la Marcia su Roma e gli anni Trenta, contatti di espo­nenti fascisti con esponenti nazisti. Ma solo a basso livello.

Esisteva t ra i d u e moviment i , o meglio ancora t ra i d u e uomini , un amore a senso unico, n o n contraccambiato. Hi­tler nutriva pe r Mussolini un 'ammirazione sconfinata, lo con­siderava un maes t ro , impossibilitato ad e sp r imere la sua grandezza dalla qualità deteriore del materiale umano di cui doveva servirsi. La debolezza di Mussolini insomma era l'Ita­lia. Al Duce insediato nella sala del M a p p a m o n d o di Palazzo Venezia, Hitler, golpista fallito ma indomabi le , si rivolgeva con umiltà: n o n d i re t tamente - avrebbe trovato ogni por ta sbarrata - ma attraverso intermediari : e soprattutto attraver­so il maggiore Giuseppe Renzett i che dal 1927 al 1929 era stato Console generale a Lipsia, quindi fondatore e presiden-

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te della Camera di commercio italo-tedesca a Berlino. In ef­fetti, al di là di queste cariche ufficiali, il Renzetti fu un anello di congiunzione tra il fascismo e Hitler, il più i m p o r t a n t e esempio forse della «diplomazia parallela» di Mussolini.

All 'incirca q u a n d o Mussolini s i in t ra t t eneva con C h u r ­chill, Hitler gli aveva fatto pervenire la richiesta di u n a foto­grafia con autografo. Il Fùh re r aveva allora t rentaset te an­ni, e il suo part i to contava quarantanovemila iscritti. Musso­lini scrisse di t raverso sul m e m o r a n d u m che gli e ra perve­n u t o : «richiesta respinta». Ma l ' indifferenza, quasi i l di­sprezzo che il Duce dimostrava pe r Hitler non poteva dura­re dopo che le elezioni politiche del 14 set tembre 1930 por­t a r o n o il nazional-socialismo al secondo pos to t ra i part i t i tedeschi e Hit ler t ra i protagonis t i della nuova German ia . Da meno di un milione di voti, il nazismo passò a sei milioni e mezzo. Le attese dello stesso Hitler furono largamente su­pe ra te . Aveva pronost ica to u n a c inquan t ina di depu ta t i a l Reichstag, da dodici che ne aveva, e si trovò a contarne 107.

Anche Mussolini fu colto di sorpresa da questa irruzione sulla scena tedesca, ed europea , delle camicie b rune . Non se l 'era aspet ta ta , e l'accolse con u n a soddisfazione di circo­stanza («un altro g r a n d e paese d ' E u r o p a si ribella con mi­lioni di voti al crollante mito democratico») alla quale si me­scolavano, n e p p u r e t r o p p o mascherat i , l ' imbarazzo e il ti­more . Certo l'idea fascista, gener icamente intesa, faceva un e n o r m e passo avant i , ma p e r iniziativa d i un popo lo che , d o v u n q u e met tesse p iede , sul c a m p o di bat taglia come in quello della ideologia, tendeva a diventare pad rone ; e Mus­solini se ne r e n d e v a pe r f e t t amen te conto . Si agg iunga a questo che Hitler non aveva mai nascosto, ma anzi ostenta­to, insieme al disprezzo razzista pe r i «meridionali», le sue mire pangermanis t iche. Esse escludevano, pe r u n o speciale r iguardo a Mussolini, l'Alto Adige (rinuncia che tra gli stessi compagn i di fede del F ù h r e r aveva suscitato vivo malcon­tento). Ma includevano YAnschluss, in una fatale rotta di col­lisione con gli interessi italiani.

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I r appor t i fra il fascismo e il nazismo diventarono da quel m o m e n t o più stretti e frequenti , e tenut i a più alto livello. Le delegazioni fasciste ai congressi nazisti di N o r i m b e r g a comprese ro esponent i di p r i m o p iano , come Bottai, e Gò-r ing fu ricevuto in udienza da Mussolini. Ma verso Hitler il Duce ebbe s e m p r e un a t t egg iamen to c i rcospet to , dilazio­n a n d o fino ai limiti del possibile un incontro personale che da l l ' emulo tedesco con t inuava a venirgli chiesto con insi­stenza e con deferenza. Nell 'ottobre del 1931 Renzetti, rife­r e n d o di un colloquio (il p r imo) t ra Hi t le r e il p r e s i d e n t e maresciallo H indenburg , r innovava la proposta di u n a visi­ta a Roma. «Hitler ha aggiunto che i capi del partito socialista hanno fatto le loro visite a Londra e a Parigi: che egli voleva farla p r ima a Roma per la simpatia pe r l'Italia, l 'ammirazio­ne pe r il Duce, e per riaffermare la sua volontà di giungere a strette relazioni italo-tedesche, da completare poi con quelle tedesco-inglesi. Cosa debbo rispondergli?» Per il m o m e n t o Mussolini si limitò a concedere a Hit ler - finalmente - u n a fotografia con dedica. Q u a n t o al proget to di un viaggio del Fùh re r a Roma, si dichiarava in linea di massima favorevo­le, ma con i più vari pretesti lo dilazionava.

II 30 genna io del ' 3 3 , il maresciallo H i n d e n b u r g fu co­s t re t to ad affidare a Hitler, sos tenuto da t redici milioni e mezzo di voti, la carica di Cancelliere. II discepolo, che nel suo ufficio della Casa b r u n a a Monaco teneva un ri tratto di Federico II di Prussia e un bus to del Duce , e ra cresciuto. Poteva o rma i rivolgersi al maes t ro da pa r i a par i . Ma n o n pe r questo a t t enuò i suoi toni di ammiraz ione e di r ispetto verso Mussolini. Anzi, convocò subito Renzetti, e lo invitò a far sapere al Duce che «dal mio posto persegui rò con tut te le mie forze quella politica di amicizia verso l 'Italia che ho f in ora cos tantemente caldeggiato». Qu ind i to rnò sul tema ormai cronico della visita in Italia: «Ora posso anda re dove voglio. Eventualmente potrei recarmi in aeroplano a Roma, se occorre anche in via privata. Sono arrivato a questo pun ­to pe r il fascismo».

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La volontà di r e n d e r e omaggio a Mussolini t rovava di­mostrazioni perfino toccanti nel c o m p o r t a m e n t o protocol­lare di Hitler. La sera del 7 febbraio 1933, d u r a n t e un so­l e n n e r icevimento offerto da H i n d e n b u r g , i l Cancel l iere diede il braccio a Elisabetta Cerrut i , moglie dell 'ambasciato­re italiano che, ult imo arrivato in sede, era anche in coda al­le p r e c e d e n z e , e la scortò fino alla tavola imband i t a . Poi, conversando con lei d u r a n t e il p ranzo , le disse, r iferendosi a Mussolini: «Avevo t roppo rispetto verso quel g r a n d ' u o m o pe r d is turbar lo p r i m a di avere r agg iun to risultati positivi, ma ora le cose sono cambiate. Sono ansioso di conoscerlo». Fece u n a pausa , m e d i t a b o n d o , qu ind i concluse: «Sarà i l g io rno più bello della mia vita». Mussolini con t inuò a nic­chiare , e Hi t ler a comple t a r e la conquis ta del p o t e r e . Il 5 m a r z o aveva avuto , in n u o v e elezioni pol i t iche, i l 44 p e r cento dei voti, il 24 marzo si e ra fatto riconoscere dal Reich-stag i pieni poteri e il 12 dicembre, in un plebiscito trionfa­le, o t tenne il 92 pe r cento di sì.

Mussolini di lazionava l ' incont ro con Hi t ler anche pe r ché e ra i m p e g n a t o nelle t ra t ta t ive p e r quel «Patto a qua t t ro» , del quale aveva but ta to giù u n a bozza d u r a n t e un soggior­no alla Rocca delle Camina t e , e che poteva , a suo avviso, consolidare e razionalizzare la situazione europea . Con esso sperava di da r avvio a u n a sorta di diret torio comprenden te l 'Italia, la Francia, la Ge rman ia e la Gran Bre tagna , legate da accordi di rec iproca consul tazione e di col laborazione. La s tesura originale del Patto dava notevole soddisfazione alle t endenze revisionistiche della German ia . Riconosceva tra l 'altro che se la conferenza del d i sa rmo prevista p e r la pr imavera del 1934 n o n avesse app roda to a risultati defini­tivi (e n o n li ebbe, in effetti), la German ia avrebbe comun­que o t tenuto dalle altre t re potenze il r iconoscimento della sua parità. Secondo la concezione mussoliniana, e ra meglio avere un r ia rmo tedesco controllato, piuttosto che un disar­mo fittizio a coper tura di un effettivo r ia rmo selvaggio.

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Il pat to fu presenta to come un comple tamento di quello di L o c a m o e u n a integrazione del sistema societario. Mus­solini si professava ancora , se n o n un pati to della Lega, al­m e n o un suo cor re t to sosteni tore. P rop r io pe r ché quel si­s tema era malato, n o n era possibile a b b a n d o n a r e i l suo ca­pezzale, disse. In realtà il Patto a quat t ro tendeva a diventa­re n o n il tonico, ma il sur rogato di u n a Società delle Nazio­ni ormai in stato agonico: i giapponesi se n 'e rano ritirati ri­fiutando il suo arbi trato nel loro conflitto con la Cina, e il 19 ot tobre 1933 la Germania imitò il loro esempio.

Al proget to del Patto a quat t ro , benissimo presenta to e il­lustrato dall 'ambasciatore Grandi , gli inglesi d iedero un ' ap ­provazione dapp r ima fervida, quindi m e n o calorosa pe rché le mosse ravvicinate e brutal i di Hitler lo r endevano sospet­to e poco credibile come cont raente . L 'Inghil terra aveva in quel momen to un governo di coalizione, definito «naziona­le», capeggiato da Ramsay Mac Donald , laburista di antica osservanza cui tut tavia la magg io ranza del par t i to negava ormai ogni fiducia. Mac Donald aveva perso la sua fede nel­la democraz ia . «Noi s iamo vecchi - doveva conf idare ad amici francesi in un m o m e n t o d i a b b a n d o n o - , u n a nuova energia si è impadroni ta del m o n d o . Adesso ha conquistato anche la German ia . Chi ne p u ò calcolare le conseguenze? Temo pe r voi e p e r noi che ci batterà.» Pur scettico sui suoi benefici, Mac Donald accettò, nella sua concezione genera­le, il Patto, e confermò questa p ropens ione d u r a n t e u n a vi­sita a Roma insieme al ministro degli Esteri Simon, che poi d ichiarò ai C o m u n i : «L'Europa in te ra deve essere g ra ta al Capo del governo italiano pe r l 'opera da lui svolta in queste sett imane difficili».

Anche Hi t ler s i mos t rò favorevole al Pat to che r a p p r e ­sentava p e r lui un marchio di rispettabilità e una consacra­zione di eguaglianza. I più ostili furono i francesi benché il loro ambasciatore a Roma, De Jouvenel , g r ande ammira to­re di Mussolini, ne avesse caldeggiato il p roge t to . Il «diret­torio europeo», o «Club della pace» secondo la definizione

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ammorb id i t a di Mac Donald, e ra inviso agli stati minor i , e di conseguenza alla Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Jugosla­via e Romania) , della quale la Francia era protet tr ice. Her-riot era stato sferzante. Per la Francia il Patto o era inutile o e ra d a n n o s o . Daladier e Paul Boncou r in ogni m o d o n o n dissero di no , ma condiz ionarono il loro sì a molte modifi­che, e Io si capisce. Parigi tendeva più a formare un fronte unico contro il revanscismo tedesco che a sottoscrivere inte­se cui lo stesso Hitler partecipasse. Ma nella visuale di Mus­solini, Italia e Ingh i l t e r ra - come a L o c a m o , e ancora me­glio che a L o c a m o - avrebbero dovuto essere i gendarmi , o i giudici conciliatori, di u n a E u r o p a avvelenata dal cronico dissidio franco-tedesco.

Alla riuscita del Patto a quat t ro , sua creatura, e dimostra­zione - d o p o il s i luramento di Grandi - che nelle sue mani la politica estera acquistava ben al tro vigore, Mussolini te­neva moltissimo. Pur di varar lo accettò varianti , aggiunte , soppressioni di frasi che in effetti ne stravolgevano il signifi­cato originario. Basterà un esempio. Nella stesura del Duce, l'articolo 3 suonava: «La Francia, la Gran Bretagna e l'Italia dichiarano che, ove la conferenza del disarmo non conduca che a risultati parzial i , la par i t à di dirit t i r iconosciuta alla Germania deve avere u n a porta ta effettiva, e la Germania si impegna a realizzare tale pari tà di diritti con una gradazio­ne che r i su l terà da accordi successivi da p r e n d e r e fra le quat t ro potenze, pe r la normale via diplomatica. Uguali ac­cordi le qua t t r o p o t e n z e si i m p e g n a n o a p r e n d e r e pe r quan to r iguarda la par i tà pe r l'Austria, l 'Ungher ia , la Bul­garia». Ed eccone il testo definitivo: «Le alte par t i contraen­ti si impegnano a fare tutti i loro sforzi pe r assicurare il suc­cesso della conferenza del d isarmo, e si r iservano, nel caso in cui la conferenza lasciasse in sospeso questioni in cui esse siano specia lmente interessate , di r i p r e n d e r n e l 'esame tra loro m e d i a n t e l 'appl icazione del p r e sen t e pa t to , a l f ine di assicurarne la soluzione nei modi appropriat i».

Così r iveduto e corret to, il Patto diventava una delle soli-

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te «lettere d ' intenti» che p revedeva concer tazioni rec ipro­che p e r real izzare , s e m p r e ne l l ' ambi to della Società delle Nazioni, u n a politica di collaborazione di re t ta al man ten i ­mento della pace. In più, c'era una promessa di cooperazio­ne economica, e un accenno alla revisione dei trattati, che è con tenu to nell 'articolo t re da noi trascritto. L'entrata in vi­gore del Patto era subord ina ta alla ratifica dei Par lament i . Esso doveva d u r a r e dieci anni .

Prima di par tec ipare alla cerimonia della sigla del Patto, a Roma, il 7 g iugno 1933, Mussolini aveva spiegato , quel giorno stesso, in un discorso al Senato, che «la posizione d'e­quil ibrio che , p e r la loro posiz ione e p e r i fattori na tu ra l i che le cara t te r izzano, Italia e I ngh i l t e r r a sono ch iamate a r appresen ta re in Europa. . . trova nel Patto a qua t t ro nuova espress ione e nuove possibilità di fecondi e costruttivi svi­luppi». E più avanti: «La Germania esiste nel cuore dell 'Eu­ropa con la sua massa imponen te di sessantacinque milioni di abitanti; con la sua storia, la sua cultura, le sue necessità: u n a politica ve ramente eu ropea e diret ta al man ten imen to della pace non si p u ò fare senza la Germania o, peggio an­cora, contro la Germania». Ma alla resa dei conti, il Patto fu ratificato soltanto dall 'Italia e dalla Germania . In effetti n o n entrò mai in vigore.

Alla vigilia della firma del Patto a quat t ro il Cancelliere au­striaco Engelbert Dollfuss era a Roma, pe r u n a visita a Mus­solini che ne aveva avuto , in occasione del loro p r i m o in­cont ro in apri le , una impress ione positiva: «Malgrado (sic) la sua minuscola statura, è un uomo di ingegno, dotato an­che di volontà». Dollfuss aveva una radice politica cristiano-sociale, ma si stava i ncamminando verso un regime autori­tario più pe r la forza delle circostanze che pe r sua volontà. La sua posizione era precaria . Era attaccato violentemente da sinistra, ad ope ra dei socialdemocratici, assai forti, e dei comunist i ; ed era insidiato con azioni palesi o so t te r ranee , organizzate oltre frontiera dai nazional-socialisti. In quelle

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condizioni, non gli restava che sperare in una garanzia del­le maggiori potenze europee . Ma ebbe p ron to ascolto solo a Roma, dove tuttavia Mussolini gli chiedeva in cambio di «fa­scistizzare» l 'Austria, e di d a r e u n a posiz ione di magg io r spicco alle Heimwehren del pr incipe Stahremberg.

Erano queste u n a organizzazione paramil i tare di destra, che si poneva come c o n c o r r e n t e del nazismo e nemica deiYAnschluss. Le Heimwehren recavano l ' impronta del loro capo, conserva tore e fi lo-autoritario, che tuttavia nella se­conda g u e r r a mondia le combat té con l'aviazione alleata. II piccolo Cancel l iere , che aveva agg io rna to sine die il par la­m e n t o e messo fuori legge il par t i to comunis ta , si risolse a fine g iugno 1933 al g r a n passo di d ich iarare illegale il na-zional-socialismo. Motivazioni pe r il p rovvedimento ne ave­va a iosa. La vita politica dell 'Austria era punteggia ta da at­tentat i terroris t ici , sconf inament i , lanci di volant ini che esor tavano alla rivolta con t ro il governo , sorvoli arbi t rar i . Ma ne fu attizzato l 'odio di Hitler che considerava il gover­no di Dollfuss una «mostruosità» e un impaccio ai suoi dise­gni: anche pe rché adesso n o n gli po tevano essere r impro ­verati eccessivi peccati di democrazia e di par lamentar ismo.

Il 19 e 20 agosto il Duce e Dollfuss ebbero l u n g h e con­versazioni a Riccione, nella villa Mussolini . Il Cancel l iere austr iaco era accompagna to dalla graziosa moglie Alwine, che aveva t rovato l 'Adriatico di suo gusto , e p r omesso di tornarvi anche l 'anno successivo, pe r le vacanze. Mussolini r iconfermò il suo appoggio all'Austria, e r innovò al Cancel­liere la richiesta di accentuare il carat tere filofascista del suo governo, d a n d o maggiore spazio al pr incipe Stahremberg e ai suoi uomini . Il Duce suggeriva inoltre che Dollfuss faces­se u n a dichiarazione di amicizia verso tutte le nazioni com­presa la Germania , ma che ribadisse «le storiche e inaliena­bili funzioni di un 'Austr ia ind ipendente» nonché «le parti­colari relazioni con l 'Ungheria e l'Italia».

Dollfuss si adeguò. L'11 settembre, in un discorso a Vien­na, annunciò la nascita dello «Stato tedesco cristiano-sociale

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dell'Austria a base corporativa». Decretò anche limitazioni al­la libertà di stampa e di r iunione. Ma esitava a trasformare il suo regime in dittatura. La spinta decisiva gli fu data dai mo­ti di Vienna e di Linz del febbraio 1934, duran te i quali la fol­la operaia, in massima parte raccolta sotto le bandiere social­democratiche (ma invano i capi tentarono di placarne il furo­re), manifestò violentemente contro il governo. In tervenne la t ruppa, e in tre giorni di scontri 300 morti r imasero sul terre­no. Dollfuss sciolse il par t i to socialista, e nel maggio p r o ­mulgò u n a nuova Costituzione che aveva ancora qualche ri­verbero cattolico (si richiamava alle encicliche Rerum novarum e Quadragesimo anno) ma che in pratica istituiva u n o Stato au­toritario, federale, corporativo, con assemblee esclusivamen­te consultive. La mossa esasperò Hitler che voleva, sì, la «fa­scistizzazione» dell'Austria, ma sotto il segno della unità ger­manica, di cui l'Austria doveva diventare la «marca» meridio­nale. Il suo at teggiamento si fece così minaccioso che Italia, Francia e Inghi l ter ra decisero di f renarne l'aggressività con una nota congiunta, che sottolineava la «necessità di mante­nere la indipendenza e la integrità territoriale dell'Austria».

L'atmosfera italo-tedesca era d u n q u e tut t 'a l t ro che idil­liaca quando , nel g iugno del 1934, si arrivò a quell ' incontro col Duce, che Hit ler aveva tanto agogna to . Ques ta volta i l «contatto personale» p remeva anche a Mussolini che spera­va di p o t e r m e t t e r e in ch ia ro , in m o d o conforme alle sue speranze, la questione austriaca: e fu facilitato da u n a visita a Roma di Von Papen che Hitler aveva inserito nel suo go­ve rno con la carica di vice-cancelliere. Von Papen aveva maggior considerazione pe r il Duce che pe r il Fùhrer : «Hi­tler aveva s e m p r e u n a leggera aria d ' incer tezza, come se cercasse la sua via, men t r e Mussolini era calmo, dignitoso, e s i d imos t rava s e m p r e p a d r o n e di qualsiasi a rgomento» . Mussolini e Von Papen si videro t re volte, e nell 'ultima con­versazione fu stabilito che il 14 giugno Hitler sarebbe venu­to a Venezia, ma che si sarebbe trattato di un contat to per­sonale tra i d u e Capi di governo, non di u n a visita di Stato.

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Il 14 giugno 1934 era un giovedì soleggiato di tarda pri­mavera . Mussolini aspettava, in divisa di caporale d ' onore della Milizia, lo Junker che a t terrò sulla pista del l 'aeroporto di San Niccolò di Lido. Q u a n d o Hitler si affacciò al portello dell 'aereo, il Duce sussurrò al genero Galeazzo Ciano, allo­ra capo del suo ufficio stampa: «Non mi piace», e la frase fu udita da un giornalista americano, Gerald Strina. I l Fi ihrer indossava un impermeab i l e cachi con c intura , su un abito grigio, aveva scarpe di vernice, copriva il famoso ciuffo con un cappello di feltro. Era pallido, e il contrasto tra quel suo dimesso abbig l iamento borghese e lo sch ie ramen to di uni formi fasciste lo i rr i tò. «Perché non mi avete det to che dovevo vestire l 'uniforme?» r improve rò all 'ambasciatore a Roma Von Hassel.

L ' incontro fu a p p a r e n t e m e n t e cordiale , con u n a no ta protettiva e di superiori tà nel Duce, che batté familiarmen­te u n a mano sulle spalle di Hitler. («Adolfo davanti a Cesa­re» titolò un suo famoso articolo il giornalista francese Bé-raud) . Quel pomeriggio i due dittatori ebbero il loro pr imo colloquio nella Villa Pisani, a Stra. Fu un tète-à-tète senza te­stimoni e senza in terpre te , perché Mussolini, che si piccava di conoscere bene il tedesco, aveva voluto così. In effetti egli par lava tedesco meglio d i q u a n t o alcuni p r e t e n d a n o , ma non abbastanza per poter cogliere tutto ciò che veniva detto torrent iz iamente da Hitler nei suoi sfoghi politico-profetici («Un furore di logica all'infinito, e all'infinita ricerca di un corpo, di un sangue originario e feroce, di qua dalla ragio­ne» confiderà poi Mussolini alla sorella).

L'incontro, questo è certo, fu piuttosto u n o scontro, per­ché il Duce pose immedia tamen te sul t appe to la questione austriaca. Non si sa quan to fossero fondate le informazioni diffuse dalla s t ampa in te rnaz iona le (e rano 400 gli inviati speciali o corr ispondent i presenti) che accennò a pugn i bat­tuti sul tavolo e a scoppi di voci accalorate nei quali spiccava la parola Òsterreìch, Austria. Ma di un idillio non si trattò si­curamente . Hitler si disse comunque disposto a fissare, per

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l 'Austria, alcuni p u n t i fermi, i l p r i m o dei quali e ra u n a ri­nuncia dlVAnschluss «che n o n era realizzabile internazional­mente» (dove è facile scorgere u n a t r a spa ren te arrière pen­sée). Voleva pe ra l t ro la sosti tuzione di Dollfuss, nuove ele­zioni, e d o p o di esse l ' inclusione nel governo di e sponen t i nazisti. Mussolini prese nota.

L'indomani il Duce e il Fi ihrer discussero nuovamente al Lido, passegg iando sul l 'erba, e a f f ron ta rono temi m e n o scottanti . Il d i sa rmo, la Società delle Nazioni , l 'antisemiti­smo, i r appor t i con la Chiesa. Hitler r ibadì che nella Società delle Nazioni n o n sarebbe r ient ra to , pe rché la considerava inut i le . Q u a n t o a l d i sa rmo , c o n c o r d a r o n o che e r a fallito: Mussolini spiegò che avrebbe fatto costruire, visto il naufra­gio delle trattative con la Francia sul naviglio da guer ra , d u e corazzate da 35 mila tonnel late . Ma nessuna vera intesa fu r agg iun ta , anche se in un discorso in piazza San Marco - dove la folla r iservò a lui tut t i gli app laus i - Mussolini spiegò che «Hitler ed io ci siamo incontrati n o n già pe r rifa­re e n e m m e n o modificare la carta politica del l 'Europa e del mondo . . . ma pe r t en ta re di d i spe rde re le nuvole che offu­scano l'orizzonte». La par te protocollare della visita n o n eb­be smalto, u n a passeggiata in motoscafo pe r i canali fu gua­stata a Mussolini da un ennesimo monologo di Hitler, la co­lazione al Golf club del Lido era stata noiosa (un cameriere aveva versato sale, anziché zucchero, nel caffè del Fùhrer ) .

Q u a n d o , la ma t t ina del 16 g iugno , lo Junker decol lò, Mussolini sembrò l iberato da un peso. Quel la «scimmietta chiacchierona» l'aveva indispett i to. «Merita u n a lezione» si sfogò con un ufficiale. E a Badoglio: «Hitler è un semplice fonografo a sette voci».

Tutt 'al tra impressione ricavò invece Hitler. Renzetti , che aveva pa r t ec ipa to subito d o p o i l r i t o r n o del F ù h r e r a un pranzo ristretto da lui offerto, riferì queste sue parole: «So­no felice che l ' incontro mi abbia dato la possibilità n o n solo di confermare la mia opinione ma altresì di ampliarla. Uo­mini come Mussolini nascono u n a volta ogni mille anni , e la

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Germania p u ò essere lieta che egli sia italiano e n o n france­se. Io , ed è na tu ra le , mi sono t rovato a lquan to impacciato con i l Duce , ma sono felice di aver p o t u t o p a r l a r e lunga­m e n t e con lui». Anche fatta un po ' di tara, pe r i l sottinteso adulator io verso Mussolini che Renzetti p u ò avere posto nel suo rappor to , resta in esso, a nostro avviso, u n a larga par te di verità. Hi t ler n o n cessò mai di a m m i r a r e Mussolini. Ma questo sent imento personale n o n poteva modificare un cor­so politico che gli e ra det ta to da un fanatismo lucido e im­placabile.

Di che pasta fosse fatto l 'ometto cui aveva riserbato la sua al­tezzosa cond i scendenza a Venezia, Mussolini po t è consta­tarlo d u e volte, nel volgere di poche sett imane. Il 30 giugno 1934, nella «notte dei lungh i coltelli», Hit ler aveva stermi­nato il capo delle SA Rohm, i suoi uomini più fidati, il gene­rale Schleicher, oppositori della più varia estrazione, in tut­to un migliaio di p e r s o n e . Il Duce ne fu impress iona to , e con Rachele si sfogò contro quel l 'uomo «spiritato e feroce», che aveva ucciso «i camera t i che lo avevano aiuta to a con­quis ta re il po te re» . «Sarebbe - agg iunse - come se io am­mazzassi o facessi a m m a z z a r e Dino G r a n d i , I ta lo Balbo, Giuseppe Bottai», senza m i n i m a m e n t e sospet tare che quel g iorno sarebbe arrivato, anche pe r lui.

Il sangue della «notte dei lunghi coltelli» n o n si era anco­ra seccato, che a l t ro ne corse, e in c i rcostanze anco ra più d rammat iche . Il 25 luglio i nazisti austriaci vollero accelera­re i tempi, e realizzare subito YAnschluss. Il putsch fu sventa­to dalle forze del l 'ordine; ma i rivoltosi che avevano assalito la Cancelleria uccisero Dollfuss: aveva qua ran tuno anni . Hi­tler sconfessò pubbl icamente l 'azione: ed è possibile che es­sa fosse dovuta all'iniziativa dei nazisti locali. Ma è certo che il p iano insurrezionale, anche se pe r avventura non concor­dato e p r e m a t u r o , si inquadrava perfe t tamente in una poli­tica che dell1'Anschluss faceva u n o dei suoi maggior i e irri­nunciabili obbiettivi. La t ragedia poneva a Mussolini, insie^

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me al p rob lema politico, che era t r e m e n d o , anche un p r o ­b lema u m a n o . L'agonia di Dollfuss e r a d u r a t a t re o re . Gli scheran i nazisti , che indossavano un i formi aus t r iache , lo avevano in t rappola to nella Cancelleria, la stessa dove d o p o il Congresso di Vienna del 1815 era stata firmata la pace po­st-napoleonica. Nove tra gli assalitori avevano quindi forza­to le por te e sparato alla gola del Cancelliere, che s'era dis­sanguato len tamente , m o r m o r a n d o ad alcuni tra i suoi che lo assistevano: «Volevo solo la pace, Dio li perdoni» e racco­m a n d a n d o poi che il suo amico Mussolini si p rendesse cura della moglie e dei figli.

Alwine Dollfuss e ra da 11 g iorn i a Riccione ospi te dei Mussolini insieme ai suoi bimbi. Per la famiglia del Cancel­liere e ra stata affittata u n a villa poco lontana da quella del Duce . Dollfuss doveva ragg iunger l i : anzi i l g io rno p rece ­den te si e ra consultato con il cor r i spondente del Popolo d'I­talia a Vienna, Eugenio Morreale , pe r la scelta del regalo da p o r t a r e al Duce. Morrea le stesso, a putsch avvenuto , aveva messo in a l l a rme il so t tosegre tar io agli Esteri Suvich che n o n riusciva a t rovare Mussolini , anche lui sull 'Adriatico. Suvich si e ra allora rivolto al sottosegretario alla Guer ra , il generale Federico Baistrocchi, e finalmente il Duce era sta­to raggiunto , e sommar iamente ragguagliato. Negato forse alla vera amicizia, Mussolini provava tuttavia pe r Dollfuss il sen t imento p iù vicino all 'amicizia di cui si sentisse capace. Solo a sera, a ccompagna to da Rachele , si decise a recarsi , sotto la pioggia, alla villa dei Dollfuss, p e r d a r e ad Alwine - che era già coricata e li accolse in vestaglia - la notizia. Le disse esitante, in tedesco, che il mari to era «gravemente fe­rito». Ma l 'espressione di en t rambi e la solennità della visita lasciavano chiaramente t rapelare la verità.

In quelle stesse ore i l Duce o rd inò che qua t t ro divisioni di stanza al confine nord-or ienta le fossero messe in allarme, e che alcuni repar t i si attestassero sulla linea di frontiera. La sera, r i en t ra to a Roma, ch iamò a r a p p o r t o Baistrocchi e il so t tosegretar io a l l 'Aeronaut ica Valle. I n t a n t o a Vienna il

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pres idente della Repubblica Miklas aveva affidato la carica di Cancell iere a un al tro cattolico, Kur t von Schuschnigg, evitando ogni vuoto istituzionale e di potere . I golpisti, che dalla radio di cui si e r ano impadron i t i avevano già procla­mato che il governo sarebbe passato al loro capo, von Rinte-len, e rano stati t emporaneamen te sconfitti. I «volontari» na­zisti che e rano pron t i al confine austro-bavarese non si mos­sero. Non solo l ' Inghi l te r ra , ma anche la Francia d i ede ro piena approvazione all'iniziativa di Mussolini.

Non accadde nulla di i rreparabile. Chi aveva evocato per l'occasione l 'ombra di Sarajevo fu smentito dai fatti. Se l'Eu­r o p a aveva s u p e r a t o un m o m e n t o d i tens ione per icoloso - al tre t r egue dello stesso tipo si sarebbero succedute , pr i ­ma della catastrofe - gran par te del meri to doveva essere ri­conosciuto alla risolutezza di Mussolini, la cui azione era sta­ta accompagnata da una violenta campagna antitedesca del­la s tampa italiana: e nulla su di essa veniva pubblicato che n o n fosse stato prevent ivamente approva to nelle g rand i li­nee, e controllato a posteriori dal Duce in persona. Gli artico­li dedicat i alla G e r m a n i a sot tol ineavano piut tos to le diffe­renze che n o n le affinità t ra fascismo e nazismo, me t t endo in rilievo di quest 'ul t imo quelle caratteristiche - il razzismo, l 'ant isemit ismo - che più lo r e n d e v a n o odioso. Mussolini contr ibuì all'offensiva giornalistica con corsivi anon imi ma dovut i alla sua p e n n a , sul Popolo d'Italia, e anche con qual­che inequivocabile accenno nei discorsi: «Trenta secoli di storia ci p e r m e t t o n o di g u a r d a r e con sovrana pietà ta lune dot t r ine di oltr 'Alpe, sostenute dalla p rogenie di gente che ignorava la scrit tura, con la quale t r a m a n d a r e i document i della p ropr ia vita, nel t empo in cui Roma aveva Cesare, Vir­gilio e Augusto».

Fu quello il m o m e n t o peggiore dei rappor t i tra i d u e dit­tatori ( intanto ai p r imi di agosto del 1934, mor to Hinden­burg, Hitler diveniva Capo dello Stato) e l 'ambasciatore von Hassel n o n mancò di fare le sue r imostranze pe r la virulen­za degli attacchi. Tuttavia il dialogo diplomatico e le relazio-

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ni tra i d u e parti t i e r ano m e n o deter iorat i di quan to appa­risse in superficie. La polemica antitedesca, che risvegliava negli italiani sent imenti p ro fondamen te radicati , e trovava un largo consenso nell 'opinione pubblica, r ispondeva anche a un preciso fine politico. Il Duce voleva un riavvicinamen­to alla Francia; e lo voleva p e r o t t e n e r e la luce ve rde alla conquista dell 'Etiopia. S'era convinto che se con la Germa­nia si fosse di nuovo arrivati alle strette pe r YAnschluss, In­gh i l t e r ra e Francia n o n si sa rebbero i m p e g n a t e a fondo. «Avremo la disgrazia della G e r m a n i a al B r e n n e r o - aveva det to a Dino Grandi - la sola alternativa che ci r imane è l'A­frica.»

Forse quel l ' idea del l 'Et iopia Mussolini la m a t u r a v a da un pezzo. Ma la spinta risolutiva gliel 'avevano data gli avveni­menti austriaci. Nella sua concezione dei blocchi, delle aree di influenza e anche delle iniziative di prestigio, ogni mossa di un avversario o anche di un alleato, se non si poteva im­pedir la , doveva essere r ipagata con u n a mossa analoga al­trove. Su ques to pr inc ip io si baserà anche la sc iagurata guer ra di Grecia.

Cer tamente anche altri motivi vi influirono. U n a gue r r a coloniale, d i re t ta verso un Paese a r r e t r a to e schiavista che aveva inflitto all 'Italia la sanguinosa umil iazione di Adua , presentava diversi vantaggi e pochi inconvenient i . Si am­mantava di scopi civilizzatori, dava lavoro alle fabbriche, una sistemazione in divisa ai disoccupati, una soddisfazione all'orgoglio nazionale, possibilità di sfogo demografico, glo­ria al Duce. Nella prospett iva di oggi, d o p o il rap ido crollo dei più po ten t i imper i coloniali, e l 'affermarsi di un'Africa frantumata, ind ipendente e rissosa, quel disegno politico ed economico a p p a r e rozzo, ingenuo , e sopra t tu t to in i r r ime­diabile r i t a rdo sui tempi . Ma tale n o n appar iva allora nep­pure a statisti espert i e smaliziati. Tale sopra t tu t to n o n ap­pariva agli italiani.

Perché il disegno riuscisse senza grossi in toppi ci voleva

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l 'assenso francese e l 'assenso b r i t ann ico . Le d u e po tenze e rano tra l'altro interessate alle vicende etiopiche in forza di un trattato che Italia, Francia e Inghi l ter ra avevano stipula­to nel 1906, q u a n d o Menelik era ammalato, pe r assicurarsi la spar t iz ione delle spoglie se il Paese si fosse d is in tegra to p e r le sp in te cent r i fughe . L ' Inghi l te r ra volle al lora fosse chiaro che non si dovevano toccare le fonti del Nilo, la Fran­cia che la ferrovia Gibuti-Addis Abeba era inviolabile, con la striscia di terri torio che le stava at torno. All'Italia era lascia­ta una zona di influenza al nord , all'est e al sud dell 'Etiopia, con la prospet t iva di un col legamento ter r i tor ia le t ra Eri­trea e Somalia.

Si t rat tava d u n q u e di convincere Francia e Ingh i l t e r ra . Mussolini cominciò dalla Francia anche se con essa non era facile trat tare, non solo pe r le obbiettive divergenze di inte­ressi e di politica, ma anche pe r l'instabilità dei suoi gover­ni, che provocava u n a vertiginosa successione di pr imi mi­nistri e di ministri degli Esteri. In qua t t ro mesi, t ra la fine del '33 e l'inizio del '34, Si e rano avvicendati c inque gover­ni, lo scandalo Stavisky scuoteva il Paese, e u n a manifesta­zione di des t ra si e ra conclusa con un pe san t e bilancio di mort i e feriti. Ma nel frat tempo sulla scena politica acquista­va rilievo un u o m o che e ra assai meglio d ispos to dei suoi p redecessor i verso i r eg imi au tor i t a r i d ' I ta l ia e anche di Germania: Pierre Lavai, ministro degli Esteri p r ima di Dou-m e r g u e , e qu ind i di F landin . I l p r edeces so re di Lavai, Bar thou, era stato assassinato il 9 ot tobre 1934 a Marsiglia, insieme al re Alessandro di Jugoslavia, dai terroris t i «usta-scia». Il fascismo, se n o n la diplomazia ufficiale italiana, ave­va r a p p o r t i stretti con il capo «ustascia» Ante Pavelic, che, fuggito dal suo Paese, d imorava sopra t tu t to in Italia, dove aveva costituito u n a «base» operativa, e in Ungher ia : cosic­ché Mussolini fu addi tato da molti - tra gli altri Sforza e Sal­vemini - come il m a n d a n t e della strage. L'ipotesi non sem­bra abbia f o n d a m e n t o sopra t tu t to p e r i l m o m e n t o in cui i t e r ror i s t i ag i rono . Allora il Duce voleva l ' accordo con la

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Francia, e aspet tava u n a visita di B a r t h o u a Roma. Sta di fatto, pera l t ro , che Pavelic, ar res ta to a Tor ino, n o n fu mai estradato.

Lavai non nutriva, verso Mussolini e quindi verso l'Italia fascista, ostilità ideologiche. Era spregiudicato , ambizioso, amava la diplomazia diretta. Con Mussolini, come ha osser­vato il Baer nel suo libro sulla gue r r a italo-etiopica, era fat­to per intendersi . Aveva la stessa età del Duce, le stesse ori­gini umili, la stessa esperienza socialista. Col suo p u n g e n t e piglio polemico, Leon Blum aveva sottolineato: «I d u e stati­sti si r i conosce ranno a v icenda alla p r i m a occhiata. Tu t to quello che dovranno fare, pe r stabilire un contatto di carat­tere in t imo, sarà di scambiarsi i loro ricordi». A Lavai p re ­meva di o t tenere un successo personale, che consolidasse la sua posizione e lo radicasse nella pol t rona di ministro degli Esteri, assegnatagli for tunosamente . Sapeva di avere contro di sé i l g r a n d e notabile radicale Her r io t , ma sapeva anche che il p r e s iden te del Consiglio F landin , p u r legatissimo a He r r io t , s impatizzava con Mussolini . Nella concezione di Lavai i l ra f forzamento dei legami franco-ital iani avrebbe dovuto bilanciare il minaccioso dinamismo della Germania , che anche dopo il fallito putsch di Vienna perseguiva impla­cabilmente la riconquista di posizioni di forza e di prestigio. La p r o p a g a n d a tedesca pe r la riunificazione della Saar alla Germania , dalla quale il trat tato di Versailles l'aveva stacca­ta, era stata intensa, spettacolare, e coronata da un clamoro­so successo. Il plebiscito del 13 genna io '35 d iede 477.119 voti p e r i l r i t o rno della r eg ione alla Ge rman ia , 2 .124 p e r l 'unione alla Francia.

Ma l 'Italia poteva essere «catturata» solo d a n d o l e il via pe r u n ' e s p a n s i o n e verso l 'Abissinia. N o n esis tevano p iù dubb i in p ropos i to . L'incidente di Ual-Ual, ai p r imi di di­cembre 1934, aveva offerto alla s tampa fascista l 'occasione pe r r e n d e r e palese, come di p iù n o n si sarebbe po tu to de­s iderare , il d isegno mussol iniano di passare all 'azione ver­so l ' impero del Negus Neghesti , il re dei re . Ual-Ual e ra il

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L'Etiopia nel 1935

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n o m e di u n a località dove esistevano dei pozzi di vitale im­por tanza , pe r le popolazioni del confine somalo-etiopico. Il terr i tor io era di appa r t enenza incerta. L'Etiopia lo r ivendi­cava, sos tenendo che esso si trovava alcune decine di chilo­met r i a l l ' in terno della linea (pera l t ro molto contestata) di confine. I somali cons ide ravano quel la zona e que i pozzi s to r icamente legati al loro g r u p p o razziale e alla loro esi­stenza. (La ques t ione è t u t t o r a d iba t tu ta , come ha d i m o ­st ra to i l conflit to somalo-et iopico del 1977.) Dal 1925 un presidio i taliano, formato n o r m a l m e n t e da dubat , vigilava sui pozzi.

Poiché a Roma rullavano sempre più forti i t ambur i del­la g u e r r a cont ro l 'Etiopia, Hailé Selassié pensò di svolgere qualche azione di molestia verso questo avamposto italiano del l 'Ogaden. Non lo fece in p r ima persona , ma servendosi di bande armate , capeggiate da ras minori , che potevano es­sere sconfessati q u a n d o la loro azione avesse p rovoca to complicazioni . Ad aggrovigl iare ancor p iù la confusione crea ta da ques te scor rer ie , e ra sop ravvenu ta la sosta da quelle par t i di u n a commissione anglo-etiopica pe r i confi­ni, che tut tavia levò le t e n d e p r i m a dello scont ro a r m a t o . Accadde comunque che i duba t e gli irregolari abissini (que­sti ultimi anche più di mille in certi moment i ) si fronteggias­sero con il dito sul grilletto. L'ordine alle t r u p p e italo-soma-le era di n o n sparare se n o n provocate. Lo furono. Il pome­riggio del 5 d i cembre ('34) pa r t ì da u n o dei d u e schiera­menti (non si saprà mai quale) il solito colpo di fucile, fu in­gaggiato un comba t t imen to che i d u b a t conclusero a loro favore. Con le luci dell 'alba, il 6, si c o n t a r o n o sul t e r r e n o una t rent ina di mort i e un centinaio di feriti in campo italia­no, oltre cento mort i t ra gli abissini. Si è sempre sospettato che lo scontro di Ual-Ual fosse stato organizzato o a lmeno provoca to dagli i taliani, p e r c r ea re un casus belli s econdo una tecnica antica quan to la storia delle guer re . Ma nessun documento , e nessuna test imonianza lo conferma. Va inol­tre osservato che, in eventualità del genere , la gue r ra segue

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quasi subito l ' incidente, e dopo Ual-Ual vi fu invece un lun­go per iodo di trattative e di preparaz ione .

D i remo più avant i delle conseguenze di Ual-Ual . Lo scont ro n o n ebbe c o m u n q u e riflessi sul l 'accordo con la Francia, se non quello di far capire a Lavai che la campagna cont ro l 'Etiopia era vicina. Palazzo Chigi e il Quai d 'Orsay avevano p r e p a r a t o l abor iosamente , sul finire del 1934, lo schema di un ' intesa generale tra i d u e Paesi. E rano insorte difficoltà, in qualche m o m e n t o si e ra t emuto un naufragio dell ' iniziativa. Q u a n d o Lavai g iunse a Roma il 4 genna io 1935, l 'accordo non era ancora stato perfezionato, e fu com­pleta to solo nel corso di colloqui del minis t ro degl i Esteri francese con Mussolini. La trattativa giunse in por to perché gli obbiettivi dei d u e in ter locutor i si in tegravano perfet ta­mente . Il Duce voleva la luce verde p e r l'Etiopia; Lavai vo­leva l 'appoggio italiano nel braccio di ferro franco-tedesco. Per ent rambi i contraenti il n o d o austriaco era sullo sfondo. Mussolini rifiutava di essere «pietrificato al Brennero» , ma m a n t e n e v a ferma la decisione di oppor s i , fino a che fosse possibile, alf'Anschluss. Lavai sperava che , l iquidata la fac­cenda coloniale, l'Italia r iconcentrasse le sue forze al confi­ne settentrionale e si augurava che pe r questa operazione ci fosse t empo a sufficienza.

A Roma, il 7 gennaio, Italia e Francia add ivennero n o n a un accordo ma a u n a articolata serie di accordi, sette in tut­to, alcuni dei quali r imasero segreti. Conforme alla tradizio­ne diplomatica era la dichiarazione genera le con la quale i d u e Paesi, confe rmata la «tradizionale amicizia», si impe­gnavano a collaborare pe r il m a n t e n i m e n t o della pace, e a risolvere le loro future controversie sia attraverso la Società delle Nazioni, sia at traverso la Corte p e r m a n e n t e di giusti­zia in ternazionale . Italia e Francia p r o m e t t e v a n o anche di consultarsi ove l ' indipendenza e l ' integrità dell 'Austria fos­sero state minacciate «in vista delle misu re da p r e n d e r e » , po tendos i anche ch iedere , in questa azione, i l concorso di altri Stati. Per il d isarmo si stabiliva che, in caso di un accor-

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do sulla limitazione degli a rmament i , i d u e governi coope­rassero affinché ciascuno dei d u e Paesi avesse, in r a p p o r t o alla Germania , «i vantaggi che fossero giustificati da ciascu­no di essi».

Seguiva la par te dedicata alle questioni coloniali. L'Italia, che aveva sempre lamentato l'ingiustizia fattale a Versailles nella suddivisione delle spoglie coloniali nemiche, ot teneva 114 mila chilometri quadra t i di deser to nel sud libico e un t ra t to di costa (ven tun mila chi lometr i quadra t i ) f ronteg-giante, alla f ront iera t ra l 'Er i t rea e la Somalia francese, lo stretto di Bab e l -Mandeb. Per la Tunisia, sulla quale l'Italia rivendicava una ipoteca in base al trat tato del 1896, si stabi­liva che lo speciale statuto previsto pe r i cittadini italiani fos­se p r o r o g a t o secondo le varie situazioni, fino al 1945, o al 1955, o al 1965, fermo res tando che dopo il 1965 la Francia n o n avrebbe più avuto alcun obbligo par t icolare . In com­plesso, Lavai aveva l iquidato le questioni p e n d e n t i a b u o n prezzo. La fetta di sabbia che ci dava p u ò avere ora impor­tanza notevole, o magar i grandissima, pe r i giacimenti pe ­troliferi, ma allora era soltanto una «espressione geografica» senza rilievo politico od economico. In aggiunta, Lavai dava quel che n o n era suo, ossia libertà di ingresso in Etiopia.

Ques to capi tolo degli accordi n o n e ra scritto na tu ra l ­men te in termini espliciti, tanto che il ministro degli Esteri francese po tè in seguito asserire, in malafede, di n o n aver affatto voluto in tendere ciò che Mussolini intese. La formu­la con cui il pat to segreto fu redat to era tortuosa. Mussolini scrisse a Lavai u n a let tera nella quale accusava r icevuta di una let tera dello stesso Lavai t rascrivendola p e r in tero . In essa si leggeva che «il governo francese non avrebbe ricerca­to in Etiopia la soddisfazione di altri suoi interessi che n o n fossero quelli economici relativi al traffico della ferrovia Gi-buti-Addis Abeba». Ma ancora più e loquente era, p u r nella sua evasività, i l secondo paragra fo di un al tro d o c u m e n t o nel quale si precisava che «il governo francese si impegna , pe r quan to r iguarda l'Etiopia - anche nel caso di modifica-

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zioni dello status quo nella regione in oggetto -, a n o n ricer­care alcun vantaggio t r anne etc. etc».

Ot tenu to il placet della Francia, Mussolini mirava ad ave­re quello, possibilmente al tret tanto preciso, ma in mancan­za di meglio anche sottinteso, della Gran Bretagna. Il frene­tico Hi t ler gli d i ede u n a m a n o d e l i b e r a n d o , i l 16 m a r z o 1935, il ripristino del servizio militare obbligatorio, e fissan­do in 36 divisioni gli effettivi dell 'esercito tedesco: livello di po tenza che sarebbe stato ammissibile con poche preoccu­pazioni se la unilateralità e la progressività famelica della ri­vincita tedesca non avessero fatto capire che quella era solo u n a tappa, alla quale il F ù h r e r n o n si sarebbe fermato. Ma la «cattura» de l l ' I ngh i l t e r r a si r ivelò, n o n o s t a n t e il l u n g o flirt con Mussolini degli anni precedent i , assai problemat i ­ca. Il «premier» Mac Donald e ra t r o p p o sensibile alla opi­n ione pubblica pe r po te r accettare, come Lavai, i proget t i di Mussolini; e nello stesso t empo t roppo irresoluto pe r ten­tare di bloccarli con un at teggiamento di ferma ostilità. Non credet te - o anche se lo credeva fu nell'impossibilità di agire in conseguenza - che la alleanza di Mussolini contro il peri­colo tedesco valesse il sacrificio dell 'Etiopia.

La mina di Ual-Ual stava in tanto p r o d u c e n d o i suoi guasti. Italiani ed etiopici si e rano scambiati vibrate note di protesta, ciascuna parte riversando sull'altra la responsabilità dell'acca­du to . L'Italia si fondava sul l 'e lemento, incontestabile, della presenza di bande armate abissine intorno ad Ual-Ual. Prete­se per tan to scuse ufficiali, gli onor i alla bandiera - il che si­gnificava riconoscimento della sovranità italiana sui pozzi - la consegna del ras che aveva guidato l 'attacco, duecentomila talleri di Maria Teresa come indennizzo (il che corrispondeva a un milione e mezzo di lire del tempo). Fu anche inizialmen­te rifiutato, da par te italiana, di sot toporre l 'incidente al giu­dizio di una commissione arbitrale prevista da un trattato del 1928. Hailé Selassié compì allora una mossa che proiettava la questione italo-etiopica sullo scacchiere internazionale mon-

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diale: si rivolse alla Società delle Nazioni, invocando quell'ar­ticolo 11 del Patto societario secondo il quale «ogni guer ra o minaccia di guerra. . . sarà considerata come interessante l'in­tera Società delle Nazioni e questa p r e n d e r à ogni iniziativa che possa risultare oppor tuna ed efficace».

L'iniziativa etiopica non ebbe buona accoglienza da par te della Francia e del l ' Inghil terra, le d u e potenze che normal­m e n t e r iuscivano a p i lo tare le decisioni della Lega. N o n piacque n a t u r a l m e n t e a Lavai, che voleva favorire l 'Italia; ma n o n p iacque n e p p u r e a l suo collega Simon, che aveva visto quanto poco la Società delle Nazioni riuscisse a contra­stare la marc ia cadenza ta della G e r m a n i a nazista sulla via della potenza, e che preferiva agire, verso l'Italia con i me­todi della diplomazia tradizionale. I due ministri t rovarono un alleato nel segretario generale della Società delle Nazio­ni, Joseph Avenol, che non dimenticava di essere francese e si sentiva legato alla politica del g o v e r n o di Parigi . Si ag­g iunga che l 'Etiopia n o n aveva, dal p u n t o di vista del suo regime in terno, le carte così in regola da potersi p resentare come antagonista democratica del dit tatore Mussolini.

Con m a n o v r e laboriose fu evitato che il Consiglio della Lega - pressappoco cor r i spondente al Consiglio di sicurez­za delle Nazioni Unite - esaminasse, nella sua seduta dell '11 gennaio 1935, la richiesta etiopica, e alla fine il ministro de­gli Esteri di Addis Abeba acconsentì di r ipiegare su u n a p ro ­cedura di arbi t rato che ora anche l'Italia accettava. Avenol si i l ludeva forse di essersi l iberato del t izzone acceso di Ual-Ual. Ma a questo pun to , men t r e in Italia cresceva la feb­bre della gue r r a africana, Hailé Selassié allargò il problema, invocando dal Consiglio della Lega un in tervento n o n pe r Ual-Ual , ma p e r l ' a t t egg iamento aggressivo i tal iano nella sua globalità.

Listanza etiopica giaceva sulla scrivania di Avenol quando i Capi di governo italiano, francese e inglese si r iun i rono a Stresa dall 'I 1 al 14 aprile pe r discutere del «revanscismo» te­desco. Ma se questo era il pun to ufficiale all 'ordine del gior-

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no n o n v'è dubbio che l 'occasione era propizia anche p e r trat tare l'affare etiopico. Mussolini, titolare del dicastero de­gli Esteri, era con il sottosegretario Suvich, Mac Donald e Si­m o n e rano gli inglesi, Flandin e Lavai i francesi. Sull 'argo­mento principale il comunicato finale fu abbastanza esplicito anche se il Duce sapeva quante esitazioni e reticenze soprav­vivessero nel fronte antitedesco («Non posso essere sempre io a minacciare di passare la frontiera del Brennero!» aveva commenta to con un collaboratore). Sull'Etiopia invece silen­zio, non solo a livello ufficiale, ma anche tra le quinte.

Un passo della dichiarazione c o m u n e affermava, nel te­sto proposto , che «le tre potenze, l'obbiettivo della cui poli­tica è il man ten imento collettivo della pace nel contesto del­la Società delle Nazioni, si t rovano comple tamente d'accor­do nel l 'opporsi , con tutt i i mezzi possibili, a qualsiasi r ipu­dio unilaterale dei trattati che possa met te re in pericolo la pace ed agi ranno in stretta e cordiale collaborazione a que­sto scopo». Q u a n d o la frase fu posta all 'esame dei t re Capi di governo, Mussolini pretese u n a modifica. Si doveva scri­vere, disse, «che possa met tere in pericolo la pace dell 'Euro­pa». Seguirono lunghi istanti di silenzio. «Mac Donald - ha scritto il Barros - gua rdò Simon, e così fece Sir Robert Van-sittart , i l so t tosegre tar io p e r m a n e n t e del Foreign Office.» Anche Flandin tacque, e Lavai sorrise come assentendo. La variante del Duce, in forza della quale l ' impegno dei tre per la pace escludeva l'Africa, fu accettata.

Mussolini r i tenne che, sia p u r e s torcendo la bocca e mu­gugnando , l ' Inghil terra si sarebbe rassegnata alla manomis­sione italiana dell 'Etiopia. E forse non aveva tutti i torti. Chi tace consente . E secondo Grand i , Mac Donald gli avrebbe det to che l ' Inghil terra, «essendo u n a lady, apprezza la vigo­rosa iniziativa maschile , p u r c h é le cose siano fatte con di­screzione, non in pubblico» (ma la frase ci sembra più di re­per tor io italiano che di marca britannica).

In seguito gl'inglesi sostennero che essi avevano preferi­to non inter loquire pe r agevolare «una soluzione amichevo-

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le t ra Italia ed Etiopia». Ma la spiegazione n o n convince. Ment re i t re e rano a Stresa, già convogli di t r u p p e italiane e r a n o avviati verso l 'Er i t rea e la Somalia, e gl ' inglesi n o n potevano ignorar lo visto lo s tambureggiamento p r o p a g a n ­distico che ne faceva la s tampa italiana.

In realtà il governo «nazionale» di Mac Donald si trova­va, di fronte alla in t r ap rendenza mussoliniana, in imbaraz­zo: e le sue ambigui tà furono segno n o n della «perfidia al-bionica» come poi sos tenne la p r o p a g a n d a fascista, ma di u n a tormentosa indecisione. Negli anni dell'idillio t ra gli in­glesi e Mussolini, quest 'ul t imo era r i tenuto, dal Foreign Of­f ice , un elemento ingombrante ma anche stabilizzante della politica eu ropea . La G r a n Bre tagna aveva u n a visuale im­periale, ossia mondiale , il Duce, nonostante tutto, e ra confi­nato in un ruolo settoriale, e in esso svolgeva u n a funzione utile sia verso la Germania sia verso la Francia. Ora che Hi­tler m e n a v a fendent i con t ro l 'assetto uscito da Versailles, Mussolini e ra riuscito a regolare le questioni penden t i con la Francia, fo rmando con quest 'ul t ima un cont rappeso alla press ione tedesca. Qua lche strizzata d 'occhio del fascismo agli arabi poteva avere infastidito l ' Inghil terra, ma n o n tan­to da guastarne la benevolenza pe r Mussolini.

La faccenda etiopica cambiava radica lmente la situazio­ne. Un r appor to ordinato dal governo di Londra affermò, è vero, che in Etiopia l ' Inghil terra n o n aveva «interessi vitali» tali da impor r e la resistenza ad u n a conquista italiana anche se, dal p u n t o di vista della difesa imperiale, «un'Etiopia in­d ipenden te sarebbe preferibile ad u n a Etiopia italiana». Ma, visto in prospett iva n o n immediata, il cambiamento della si­tuazione appariva più preoccupante : l'Italia avrebbe potu to g u a r d a r e dal l 'Et iopia al l 'Egit to, pe r s ino a un cong iung i ­mento terri toriale con la Libia, i movimenti indipendentis t i avrebbero trovato u n a nuova forza cui appoggiarsi , il filoa­rabismo verbale e p ropagandis t i co del fascismo diventava un campanel lo d 'al larme.

N o n m e n o influenti , p e r sollecitare la oppos iz ione d i

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Mac Donald e del suo successore Baldwin, e rano i motivi di politica in te rna . La opposiz ione laburista, che era s e m p r e stata molto d u r a contro il fascismo, e che ora, affacciatosi il pericolo hitleriano, aveva raddoppia to le sue denunce della minaccia totalitaria, p re tendeva che l ' Inghil terra desse pie­no appoggio alla Società delle Nazioni, ai suoi princìpi, alle sue p rocedure . I l governo non poteva ignorare questo mo­to d 'opinione che aveva trovato imponen te appoggio in un r e f e r e n d u m sui p rob lemi della pace, il famoso «peace bal­lo t». Con esso 11 milioni e mezzo d'inglesi si e rano p r o n u n ­ciati pe r u n a politica pacifista, p r o p u g n a n d o (87 pe r cento) sanzioni economiche contro un aggressore e anche (59 pe r cento) sanzioni militari.

I governan t i inglesi n o n c redevano nella efficacia della Società delle Nazioni come risolutrice di conflitti. Ma n o n po tevano n e p p u r e r innegar la , se non volevano essere cla­m o r o s a m e n t e sconfessati dalle u r n e . E r a n o i n somma alle prese con la quad ra tu ra del circolo. Ogni statista si sarebbe trovato nei guai: ma Mac Donald e Simon si compor ta rono , anche t enu to conto delle circostanze, con part icolare volu­bilità e goffaggine. Riuscirono a il ludere ed esasperare, vol­ta a volta, Mussolini, e a sacrificare l'Etiopia senza farsi ami­ca l'Italia.

Da Stresa Simon, Lavai, e il ba rone Aloisi che alla Confe­renza aveva partecipato come funzionario, e rano partiti di­re t t amente pe r il Consiglio del 15 aprile 1935 della Società delle Nazioni . I l t ema n o n era più sol tanto Ual-Ual ma la preparaz ione italiana della guer ra . Aloisi obiettò che, essen­do stata avviata u n a p rocedura di arbitrato, non c'era moti­vo di di la tare i limiti di un inc idente di frontiera. Lavai si associò. T e d e Hawariate, i l delegato etiopico, era p ron to ad acconsent i re . Ma a questo p u n t o Simon in t e rvenne , d'im­provviso, pe r ch iedere che già a maggio il Consiglio cono­scesse i nomi degli arbitri , e i termini en t ro i quali avrebbe­ro riferito. Era un colpo basso alla manovra italiana, la qua­le mirava a far sì che la trattativa si pro t raesse fino al fatto

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compiu to del l ' invasione. Lavai a iu tò a sventar lo. Ma l'im­pressione a Palazzo Chigi fu enorme . Il silenzio di Stresa era stato sostituito da un atto di aper ta ostilità.

Grandi a L o n d r a chiese udienza a Simon. In precedenza aveva det to chiaro e tondo al sottosegretario Vansittart che l 'Italia chiedeva la col laborazione della G r a n Bre t agna af­finché l ' impresa africana si esaurisse «nel m i n o r t e m p o e con il m i n o r d i spend io di mezzi possibile». Solo così l ' In­ghi l ter ra poteva avere u n a alleata forte in Europa . Vansit­tar t t en tò di e lude re la d o m a n d a tessendo g r a n d i elogi di Mussolini e r improverandogl i , i ncongruen temen te , di n o n avere sollevato a Stresa il p r o b l e m a etiopico. Pregò infine l 'ambasciatore di considerare l ' imbarazzo del suo governo e concluse ch 'era meglio r inunciare a conversazioni bilaterali sul l 'argomento. Era u n a confessione di impotenza . Grand i informò Mussolini che l ' Inghil terra avrebbe strillato un po' , ma senza creare grossi fastidi.

Di Mussolini si p u ò dire tut to il male che si vuole, a p ro ­posi to della g u e r r a d 'Et iopia , ma a l m e n o un mer i t o n o n può essergli contestato: quello di avere agito, verso inglesi e francesi, con sinceri tà assoluta. Spiegò cosa voleva fare, e pe rché lo voleva fare. Non cercò di dissimulare che la p ro ­cedu ra arbi t rale pe r Ual-Ual e ra sol tanto u n a finzione di­plomatica e giuridica, cui l'Italia r icorreva pe r g u a d a g n a r e tempo. Ormai si era tagliato i ponti alle spalle.

Nel l 'u l t ima decade di magg io i l n o d o de l l ' a rb i t ra to italo-etiopico, e della misura in cui la Società delle Nazioni avrebbe po tu to interferirvi, to rnò a Ginevra. Con sorpresa degli inglesi e dei francesi, Mussolini accettò, p e r bocca di Aloisi (che n o n se l 'aspettava n e m m e n o lui), u n a soluzione dilatoria. La p rocedura di riconciliazione e arbi trato doveva essere por ta ta a te rmine en t ro il 25 agosto. Il Consiglio del­la Lega - che fo rma lmen te de l iberò ques to accordo , in realtà messo a p u n t o dai «grandi» - si sarebbe occupato del­la vertenza se i quat t ro arbitri - d u e pe r ciascun contenden­te - che e rano stati designati non fossero riusciti a designar-

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ne un quinto, imparziale, en t ro il 25 luglio, o se en t ro il 25 agosto n o n si fosse arrivati a un componimento . Ancora u n a volta era stato evitato che il Consiglio affrontasse nella sua totalità il problema. Ma non pe r questo Mussolini mode rò il suo tono: anche perché aveva capito, con il suo fiuto pe r gli umor i delle masse, che la trasformazione della contesa con l'Etiopia in u n a contesa italo-inglese aveva risvegliato negli italiani antichi rancori , e li liberava da antiche frustrazioni. Non era più, e n o n era soltanto, quella italiana, l 'azione di un Paese che voleva leg i t t imamente espanders i a spese di u n o stato barbarico pe r dare sfogo alla sua popolazione, la­voro alle sue braccia, gloria ai suoi soldati, e pe r lavare l'on­ta di Adua: era anche il duello tra un popolo giovane, dina­mico, povero , e un popolo egoista, pasciuto, abi tuato a co­m a n d a r e in casa d'altri.

Tra il maggio e il g iugno il «fronte di Stresa», che aveva coalizzato l'Italia, la Francia e l ' Inghi l ter ra cont ro il «ritor­no» tedesco, si sgretolò sempre più. Il Duce compì, sia p u r e cautamente , dei passi pe r stabilire migliori rappor t i con Hi­tler, anche se il reg ime nazista aveva inizialmente adottato, nei r iguardi della quest ione abissina, un a t teggiamento di­staccato, e semmai benevolo, verso Hailé Selassié. L'amba­sciatore a Berlino, Cerru t i , p e r il quale Hit ler aveva matu­rato u n a avversione profonda, fu trasferito a Parigi, e sosti­tuito con Attolico.

A ques to p u n t o ci fu, nel complesso giuoco, un brusco cambiamento di ped ine . L'Inghilterra, già ai ferri corti con l'Italia, si trovò al limite di ro t tura anche con la Francia per via del pa t to navale st ipulato, al l ' insaputa di Parigi, con la Germania , che concedeva alla flotta di superficie di quest 'ul­tima una consistenza pari al 35 pe r cento della flotta britan­nica, e alla flotta sot tomarina un tonnellaggio par i a quello dei Paesi del Commonweal th . Tutto questo era stato combi­na to da Simon che p e r ò n o n po tè f i rmare i l pa t to pe r ché f ra t tanto i l gove rno di L o n d r a e ra cambia to . Al pos to di Mac Donald c'era Baldwin, e a quello di Simon c'era Samuel

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H o a r e . H o a r e s i e ra occupato pe r qua t t ro anni de l l ' India . Arrivava al Foreign Office senza u n a esperienza internazio­nale globale. Era un u o m o sensibile e piut tosto schivo, che si illuse dapp r ima di stabilire migliori r appor t i con Mussoli­ni inviandogl i delle le t te re pe rsona l i a r i co rdo di r emot i contatti d u r a n t e la p r ima gue r r a mondiale . Tenente colon­nello dell 'eserci to inglese sul fronte i tal iano, H o a r e aveva esortato Mussolini, come dire t tore del Popolo d'Italia, a p ro ­digarsi pe r galvanizzare la resistenza in terna dopo Caporet-to. Ma ques te mozioni degli affetti fu rono re sp in te secca­mente dal Duce.

Accanto a H o a r e si e ra insediato negli uffici del Foreign Of­fice, come titolare del neona to dicastero pe r i r appor t i con la Società delle Nazioni, Anthony Eden, t ren to t tenne , consi­dera to u n a stella nascente sull 'orizzonte politico bri tannico. Eden era un «societario» convinto, e la sua stessa carica lo obbligava a u n a sorta di pa t r io t t i smo ginevr ino . Si era di­mostra to cauto, verso l'Italia, in un discorso ai C o m u n i nel quale, r i spondendo alle accuse di debolezza e di acquiescen­za verso la ormai evidente volontà aggressiva italiana, aveva risposto che «per un principio fondamentale del diritto bri­tannico ch iunque è innocente finché non ne sia stata prova­ta la colpevolezza». Ma non fu scelto felicemente come lato­re a Mussolini di u n a p ropos ta di soluzione della ver tenza con l'Etiopia.

Eden era il p rodo t to di un'al ta scuola diplomatica e poli­tica, conosceva gli a rgoment i di cui si occupava, era un ne­goziatore pacato, aveva presenza ed eleganza, era an imato da sinceri sentimenti democratici. Ma era anche t roppo po­co duttile, t roppo poco spregiudicato, forse t roppo poco in­tel l igente ( q u a n d o n o n fu solo l ' esecutore di d i re t t ive di Churchi l l fallì, c o m e u o m o di governo) p e r affrontare un avversario della statura di Mussolini in una situazione dive­nu ta incandescente . I suoi pr incìpi , la sua formazione, gli r endevano difficile capire non soltanto la logica del suo in-

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terlocutore, ma il processo passionale e propagandist ico at­traverso i l quale u n a di t ta tura p u ò trovarsi, su un problema che le procur i ol tretut to un entusiastico consenso popolare , al p u n t o di non r i torno.

Eden giunse a Roma il 23 giugno 1935. Prima di arrivar­vi, aveva fatto sosta a Parigi, ma ai francesi non aveva det to u n a parola della propos ta che si accingeva ad avanzare. La premessa che Eden si sentì in dovere di p o r r e all'inizio del p r imo colloquio con il Duce non era la più adatta a spianare il t e r reno . Egli precisò che il governo inglese era «irrevoca­b i lmente impegna to» verso la Società delle Nazioni , e che n o n avrebbe tollerato senza reag i re iniziative che ne com­promet tesse ro le sorti . Q u i n d i avanzò l'offerta della quale era stato incaricato. La Gran Bretagna avrebbe potuto cede­re agli abissini la baia di Zeila e un piccolo terri torio annesso, nella Somalia britannica, così da dare al Paese u n o sbocco al m a r e . In compenso l 'Italia avrebbe p o t u t o i n c a m e r a r e la provincia de l l 'Ogaden, al confine t ra Etiopia e Somalia ita­liana, e ot tenere concessioni economiche e di altro genere .

La risposta di Mussolini fu un immediato e secco no. Egli ne chiarì quindi le ragioni. Con lo sbocco al mare , sia p u r e a spese degli inglesi, l 'Etiopia si sarebbe rafforzata, avrebbe po tu to rifornirsi di a rmi più facilmente, e avrebbe precluso definitivamente la possibilità di stabilire una continuità ter­ritoriale tra Eri t rea e Somalia italiana. Ques to tipo di solu­zione avrebbe inoltre irrobusti to in Etiopia non la presenza e inf luenza i tal iana, ma quel la de l l ' I ngh i l t e r r a . Secondo Mussolini, restavano aper te solo due soluzioni: l 'una pacifi­ca, in forza della quale passassero all'Italia i terri tori abissini n o n di razza etiopica, con in più il «controllo» i tal iano del nuc leo centra le , che sarebbe r imasto i n d i p e n d e n t e ; l 'altra violenta, che avrebbe significato la cancellazione dell 'Etio­pia, come Stato, dalla carta geografica.

I d u e si lasciarono in una atmosfera di profonda recipro­ca ostilità. Tuttavia Eden chiese, ed ot tenne, un secondo col­loquio, che si svolse nel pomeriggio del 25 giugno. Nel cor-

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so di esso Mussolini indicò specificamente i terri tori che sa­rebbero stati lasciati ad Hailé Selassié (da so t topor re tutta­via a un reg ime «tipo Egitto o Marocco»). Eden ribatté che « p u r t r o p p o il p u n t o di vista italiano non è condiviso dalla Gran Bretagna» ma aggiunse, in un ult imo sforzo di diplo­mazia, che il t empo poteva ancora accomodare le cose.

O r m a i , m e n t r e la macch ina mil i tare i tal iana stava già p r o d u c e n d o u n o sforzo che, in r appo r to ai mezzi del Paese, e ra e n o r m e , l'offerta inglese risultava, peggio che inut i le , p rovoca tor ia . I l d ip lomat ico Raffaele Guarigl ia , che n o n brillava cer to p e r zelo fascista e che sarà il min is t ro degli Esteri di Badogl io , scrisse d o p o la g u e r r a che nella mossa br i tannica «non si poteva più d i re se p redominasse l 'ottu­sità, l ' impront i tudine o il disprezzo assoluto non tanto verso la politica italiana, quanto verso il popolo italiano, fascista o n o n fascista che fosse». Guarigl ia espresse add i r i t t u ra am­mirazione pe r la «calma» e la «pazienza» di Mussolini. In ef­fetti l 'Ogaden n o n era allettante («non sono un collezionista di deserti» aveva osservato il Duce). La radice dello scontro e ra nei fatti. Ma è anche vero che i d u e statisti p r o v a r o n o u n a reciproca repuls ione. Quel «gelido f igurino» indispose il figlio del fabbro; Eden a sua volta sentenziò che il Duce «non è un gentleman».

Con la t racotanza sgarbata che affiorava nel suo caratte­re, quand ' e ra di cattivo umore , Mussolini volle r ende re cla­moroso il contrasto t ra la sua personalità e quella del giova­ne ministro inglese in occasione del ricevimento che, la sera del 24 giugno, fu offerto in onore dell 'ospite all 'albergo Ex-celsior. Dopo essersi r iposato, nel pomeriggio, in u n o chalet che aveva a disposizione nella t enu t a di Castel Porz iano , Mussolini era tornato a Palazzo Venezia in abbigliamento da d o p o spiaggia: panta loncini bianchi , giacca con rinforzi ai gomiti - citiamo da Duce! Duce! di Richard Collier - camicia col colletto ape r to . E fu in quella t enu ta che si p re sen tò al banchet to , dove E d e n era in abbigl iamento formale, igno­rando lo de l ibera tamente d u r a n t e la conversazione. Q u a n -

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do, alla fine, il diplomatico Pansa, sollecitato dall 'ambascia­tore inglese D r u m m o n d (poi Lord Perth), lo aveva invitato ad avvicinarsi a Eden , affinché il disaccordo n o n risultasse evidente, il Duce aveva replicato: «La distanza tra noi è esat­t a m e n t e ugua le . Se vuole p a r l a r e con me , che venga qui lui».

Quasi non bastasse, Mussolini trovò m o d o di infliggere a E d e n un u l te r io re affronto, in occasione d i u n a colazione - ult ima incombenza prevista dal protocollo - a Castelfusa-no . Faceva gli ono r i di casa il so t tosegre tar io Suvich, che aveva scusato il Duce, t ra t tenuto a Roma da «impegni inde­rogabili». Gli invitati - con un Eden garba to e a p p a r e n t e ­mente sereno - e rano alla frutta q u a n d o «il r i tmo rumoroso di un motore a scoppio - ha scritto Federzoni - fece volgere gli occhi verso il mare . Un motoscafo costeggiava lentamen­te la spiaggia alla minima distanza possibile, non credo a più di c inquanta metr i dalla terrazza. Ritto in piedi a p rua , im­mobile, g u a r d a n d o avanti , stava Mussolini». Forse il Duce stesso si accorse, più tardi , di avere ecceduto. Il diplomatico Renato Bova Scoppa ha por ta to una testimonianza che n o n smentisce, ma integra le precedent i . Mussolini, ricevendolo a Palazzo Venezia il 5 genna io del 1936, gli d ich ia rò : «So quali sono le voci che circolano a Ginevra a p ropos i to del viaggio di Eden. Smenti te nella manie ra più categorica che io lo abbia accolto e trattato in m o d o scortese. Io ho accolto Eden nelle forme più cortesi possibili, e sino al te rmine del­la visita i nostri rappor t i personali sono stati di normale cor­dialità. Il dissidio è p u r a m e n t e politico e resta aperto».

Ai pr imi di agosto Eden, Lavai e Aloisi - dove si vede co­me il ministro inglese collaborasse ancora, sia p u r e , proba­bi lmente, a mal incuore, per tenere la controversia al di fuo­ri dal Consiglio della Lega - c o n c o r d a r o n o a Ginevra un ennes imo compromesso . La famosa commissione arbitrale p e r Ual-Ual n o n s i sa rebbe occupa ta del p r o b l e m a delle frontiere, n o n avrebbe cioè stabilito a chi appar tenesse ro 1 pozzi, res t r ingendo invece il suo compito alle responsabilità

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degli scontri . Tuttavia, se n o n si fosse arr ivat i a u n a «sen­tenza» e n t r o i l p r i m o di se t t embre , i l qua t t r o dello stesso mese il Consiglio della Società delle Nazioni avrebbe intra­preso «l'esame generale , nei suoi diversi aspetti, delle rela­zioni t ra Italia ed Etiopia». Aloisi accettò p e r c h é e ra a l t ro t empo guadagna to . Mussolini n o n chiedeva altro. Allo stes­so Aloisi disse I T I agosto: «Dovete agire più da combatten­te che da d ip lomat ico , da fascista p iù che da negozia tore . Anche se mi a c c o r d a n o tu t to , prefer isco vendicare Adua . Sono già pronto».

In ques te condizioni , anche un nuovo p iano che Lavai - divenuto p r imo ministro - ed Eden presen ta rono ad Aloi­si, a Parigi, tra il 16 e il 18 agosto 1935, du ran t e una serie di r iunioni , n o n aveva possibilità di accoglimento. Lavai si ar­rovellava pe r t rovare una formula accettabile dal Duce. Sen­tiva crescere, in Francia, un moto di opinione pubblica che, a l larmato dal revanscismo tedesco e dal nuovo d inamismo fascista, esigeva dal gove rno u n a posizione in t rans igen te . Pur r isoluto a evitare r o t t u r e , e a ostacolare l 'adozione di misure es t reme cont ro l'Italia, Lavai capiva che, senza u n a soluzione di compromesso, si sarebbe trovato nella necessità di ader i re a u n a qualche azione di appoggio alla Lega.

Francesi e inglesi avevano escogitato un espediente inge­gnoso ma tardivo: concedere all'Italia u n a specifica posizio­ne in Etiopia in rappresentanza della Società delle Nazioni. In n o m e della Società delle Nazioni, e fo rmalmente su ri­chiesta dell 'Etiopia, l 'Italia avrebbe svolto u n a missione di civiltà, che pe ra l t ro le avrebbe consent i to u n a sovrainten-denza amminis t ra t iva ed economica assai ampia . I l pa ra ­grafo del proget to relativo alle «misure contro la schiavitù» attestava, di pe r se stesso, la scarsa qualificazione dell 'Etio­pia a collocarsi t ra gli stati civili, e in un certo senso giustifi­cava l ' intervento italiano. L'altro paragrafo secondo il quale «questo p r o g r a m m a n o n esc luderebbe in a lcun m o d o la possibilità di rett ifiche terri torial i» schiudeva la p o r t a ad amputazioni anche vistose de l l ' Impero negussita. Ma anco-

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ra una volta il no di Mussolini fu reciso. Le proposte «pote­vano essere materia di discussione dieci mesi fa, e le avrem­mo egua lmen te respinte; ma oggi che l'Italia ha inviato in Africa 280 mila uomini e speso due miliardi, simili propos te equivalgono a t en ta re di umil iare l 'Italia nel peggiore dei modi». Un appello immediatamente successivo di Roosevelt che esortava a scongiurare la g u e r r a pe rché «sarebbe u n a calamità mondiale , le cui conseguenze influirebbero negati­vamen te sugli interessi di tutte le nazioni» venne analoga­mente accolto da una prevedibile ripulsa.

A fine agosto la commissione arbitrale si p ronunc iò sul­l ' incidente di Ual-Ual. La commissione era stata completata con la nomina del quinto arbitro, in aggiunta ai due di cia­scuna par te , Aldrovandi Marescotti e Montagna per l'Italia, La Pradelle e Potter pe r l'Etiopia. Il quinto voto fu affidato al greco Nicolas Politis, ministro del suo Paese a Parigi, e no to giurista, il cui nome era stato caldeggiato da Lavai, e approvato da diplomatici italiani. Palazzo Chigi sperava che Politis ci facesse ot tenere, a maggioranza, un verdetto larga­mente favorevole. Se ne ebbe invece, all 'unanimità, uno che evadeva il problema della sovranità su Ual-Ual e delle viola­zioni di confine, pe r attenersi s t re t tamente all 'episodio. La responsabilità, affermò la decisione, era di ent rambe le par­ti, ossia di nessuna. «Il pr imo sparo poteva essere stato acci­dentale», le scaramucce precedenti e successive r ientravano nella tradizione locale, non esisteva d u n q u e un problema di r iparazioni, di scuse, di indennizzi. Addis Abeba non fu mal­contenta del lodo. A Roma dissero: «Politis ci ha traditi».

Ora la parola tornava alla Società delle Nazioni. Cont ro l'Italia veniva ventilata l'applicazione di quell'articolo 16 del Patto secondo il quale, se uno dei membr i della Lega ricor­reva alla gue r ra «si considera ipso facto che abbia commesso un at to di g u e r r a cont ro tutti gli altri membri . . . i quali lo so t topor ranno immediatamente alla rot tura di ogni relazio­ne commerciale o finanziaria, al divieto di ogni rappor to fra i p r o p r i ci t tadini e quelli dello Stato che abbia infranto il

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Patto, e a l l ' impedimento di ogni r a p p o r t o fra i cittadini del­lo Stato che viola il pa t to e quelli di ogn i al t ro Stato, sia o non sia m e m b r o della Società delle Nazioni». Erano le san­zioni economiche, ma i r r imediabi lmente svuotate di conte­nu to , a pr ior i , dall 'assenza degli Stati Uniti , che della Lega n o n facevano pa r t e , e di al t re p o t e n z e indust r ia l i come la Germania e il Giappone, uscitene da poco. Il secondo para­grafo dello stesso articolo 16 prevedeva le sanzioni militari: «Sarà in tal caso (quello previsto dal paragrafo precedente) dovere del Consiglio r accomandare ai diversi governi inte­ressati di met tere a disposizione gli effettivi militari, navali e aerei, con cui i membr i della Società cont r ibu i ranno rispet­t ivamente alle Forze Armate destinate a far r ispettare gli im­pegni della Società».

Solo alcuni delegat i m ino r i g i u n s e r o a Ginevra , p e r i l Consiglio che si aprì il quat t ro set tembre, risoluti a far la vo­ce grossa contro l'Italia. Lo e rano gli scandinavi, lo e rano le nazioni della Piccola In tesa . Ma quell i che c o m a n d a v a n o , inglesi e francesi, po r t a rono a Ginevra tut te le loro incertez­ze e contraddizioni . Eden era spinto al l ' intransigenza dalla sua personale p ropens ione , dalle sollecitazioni dell 'opinio­ne pubblica britannica, da un significativo voto degli iscritti alle Trade Unìons che con t re mil ioni di sì con t ro m e n o di duecentomila no avevano chiesto le sanzioni. Ma n o n pote­va d imen t i ca re gli a m m o n i m e n t i de l l 'Ammirag l ia to sulla debolezza militare inglese, i rischi di conflitto con l'Italia, la minaccia tedesca. A sua volta Lavai, p u r avendo comunicato a Mussolini che la Francia n o n avrebbe p o t u t o dissociarsi dalla Lega, voleva salvare l 'accordo di gennaio : anche per­ché, avendo chiesto espl ici tamente a E d e n se l ' Inghi l te r ra sarebbe stata così sollecita nello schierars i a fianco di u n a Francia aggred i ta , q u a n t o sembrava voler lo essere nello schierarsi a fianco dell'Abissinia, si e ra senti to da re u n a ri­sposta evasiva.

Il Duce affettava ormai indifferenza p e r quanto avveniva alla Società delle Nazioni. I diplomatici che e rano incaricati

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di combat tere la battaglia in seno alla Lega furono lasciati, in quest 'ul t ima fase, quasi senza istruzioni. Di loro iniziativa avevano p repara to un memoria le che, pe r legitt imare l'im­med ia t a azione i tal iana, p re sen tava nella luce p iù c ruda , con motivazioni spesso valide, il gove rno abissino, sottoli­neava il disordine in terno, il proliferare di eserciti locali p iù simili a b a n d e a rmate che ad accolite di r epar t i regolari , il sopravvivere di usanze barbare , più r ipugnan te tra tutte la schiavitù. L'Etiopia era indegna di sedere a Ginevra, e l'Ita­lia si appres tava a compiere un 'operaz ione di igiene inter­nazionale (i termini non furono questi, ma il loro significato sì). La tesi italiana, r ibat tuta da T e d e Hawaria te , dal giuri­sta francese Gastone Jèze che r appresen tava anch 'egl i l'E­tiopia, dal de lega to sovietico Litvinov (l 'Urss e ra da poco en t ra ta nella Lega), aveva, dal p u n t o di vista dialettico, un difetto grave: denunciava la situazione abissina non pe r in­vocare un 'azione internazionale, ma pe r fare accettare u n a conquista unilaterale.

Eden e Lavai si espressero, nei loro intervent i al Consi­glio, con cautela, ausp icando al solito u n a soluzione nego­ziata. I l Consiglio n o m i n ò u n a commiss ione - formata da Gran Bretagna, Francia, Polonia, Spagna, Turchia e presie­du ta dallo spagnolo De Madar iaga - che esaminasse i r ap ­port i tra Italia ed Etiopia. I delegati dei due Paesi interessa­ti e r ano esclusi pe r ché Aloisi aveva rifiutato di sedere allo stesso tavolo degli etiopici.

Il 9 settembre 1935 si aprì , sempre a Ginevra, la sedicesi­ma Assemblea della Società delle Nazioni (finora il caso ita-io-etiopico era stato discusso sol tanto dal Consiglio), cui partecipò il ministro degli Esteri inglese Hoare . Questi ebbe u n a serie intensa di colloqui con Lavai. En t rambi decisero che «dovevano, se possibile, evitare di provocare Mussolini a un'osti l i tà aper ta , e che ogni sanzione economica decisa dalla Lega doveva essere applicata con p rudenza e gradata­mente» . Fu rono inol t re concord i «nel l 'escludere sanzioni mili tari , nel n o n ado t t a r e a lcun p r o v v e d i m e n t o di blocco

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navale, nel n o n p revedere neanche la ch iusura del Canale di Suez: nel l ' esc ludere in u n a paro la tu t to quan to potesse por ta re alla guerra».

Ma l 'Hoare realista e rassegnato delle conversazioni con Lavai lasciò il posto, nel discorso all'Assemblea, a un Hoare a p p a r e n t e m e n t e risoluto, il quale proc lamò che «la Società delle Nazioni è l 'alfiere, e il mio Paese lo è con essa, del m a n t e n i m e n t o collettivo del pa t to nella sua interezza e, in particolare, della resistenza tenace e collettiva a tutti gli atti di aggress ione n o n provocata». Il minis t ro degli Esteri in­glese riscosse un e n o r m e successo, che lo lasciò s tupi to . I più avevano dedot to dalle sue parole che l ' Inghil terra stava per fermare Mussolini a qualsiasi costo. Le bastava trancia­re l'esile filo dei r ifornimenti costretti ad at traversare il Ca­nale di Suez. A Palazzo Chigi vi fu un m o m e n t o di viva an­sia. Tut tavia Mussolini n o n d iede segno di r a l l en t amen to nei suoi preparat ivi , anzi li menzionò esplicitamente nel co­munica to seguito a un Consiglio dei ministr i . Com'è nella logica di tu t te le d i t ta ture , quella fascista si servì a meravi­glia dell 'osti l i tà della Lega p e r scaricare con t ro di essa le passioni represse del Paese.

Dopo il discorso di Hoare si ebbe un altro ancor più tan­gibile e temibile segno di i r r igidimento del l ' Inghil terra. Al­la metà di set tembre l 'Ammiragliato trasferì nel Mediterra­neo g ran par te della Home Fleet, in pratica «ogni nave dispo­nibile di cui ci si immaginava di poter fare a meno». Era u n a forza i m p o n e n t e : 144 uni tà p e r un totale di 800 mila ton­nellate.

Il Duce na tu ra lmente non voleva la gue r ra con l 'Inghil­terra. Ma n o n poteva più tornare indietro. Era in giuoco, a quel p u n t o , la sopravvivenza del suo regime. Come imme­diata cont romossa , annunc iò l'invio di d u e divisioni in Li­bia, così da far t emere u n a invasione dell 'Egit to. Ma nello stesso t empo avvertiva che «la politica dell 'Italia n o n ha mi­re immediate o remote che possano ferire gli interessi della Gran Bretagna».

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La situazione era abbastanza paradossale . Gran n u m e r o di osservatori r i teneva imminen te la gue r r a t ra i d u e Paesi europe i , en t rambi imprepara t i a sostenerla, e decisi a n o n farla. Infatti q u a n d o Mussolini, a fine set tembre, d o m a n d ò che gli inglesi d ichiarassero fo rma lmen te di n o n voler in­t r a p r e n d e r e azioni bell iche o bloccare il Cana le di Suez, p r o m e t t e n d o in cambio di r inunc ia re a certe «precauzioni mili tari», L o n d r a gli fornì con sollievo gli aff idament i ri­chiesti. Hoa re fece di più. Scrisse pe rsona lmente a Mussoli­ni che la Gran Bre tagna n o n in tendeva umiliare l'Italia, ma vederla «forte e prospera». In ogni caso, assicurò Hoa re , le un i che sanzioni c o n t r o l ' I talia s a r ebbe ro state d i n a t u r a economica.

Il Comitato dei cinque che era stato insediato nel Consi­glio della Società delle Nazioni compì di l igentemente il suo lavoro, a p p r o n t a n d o un ennes imo p roge t t o d i soluzione della contesa t ra Italia ed Et iopia - u n a sor ta di m a n d a t o collettivo con particolari incarichi all 'Italia - che poteva es­sere buono o cattivo, ma era ormai inutile. Ovviamente l'I­talia disse no . Gli appelli di Hailé Selassié alla Società delle Nazioni diventavano sempre più pressanti e disperati . L'im­p e r a t o r e visse quel le u l t ime g io rna te in un 'a tmosfe ra t ra guer r ie ra e piedigrottesca. Nell 'ultima sett imana di settem­bre cadeva la festa del Mascal, e una mol t i tudine di soldati e ra affluita nella capitale per sfilare, banchet ta re , ballare, e gr idare la sua fiducia in u n a rapida vittoria sull'Italia. Il Ne­gus attese il 28 se t tembre pe r firmare l 'ordine di mobilita­zione generale: quel l 'ordine che, cost i tuendo di pe r se stes­so u n a provocazione, e un atto di ostilità diretta, rese super­flua secondo l 'Italia la d ichiaraz ione di g u e r r a . Ancora il p r imo ottobre il Duce aveva detto ad Aloisi che se avesse ot­t enu to «le g rand i regioni vassalle dell 'Abissinia, l'affare si sa rebbe p o t u t o sistemare», c o n f e r m a n d o il n o n rifiuto, e forse il desiderio, di u n a soluzione parziale ma poco costo­sa. A De Bono aveva telegrafato le sue ult ime direttive: «De­cisione inesorabile contro gli armati , rispetto e umani tà per

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le popolazioni inermi», versione aggiornata del «parcere su-biectis et debellare super bos».

Il 2 o t tobre , di mat t ina , Mussolini fu r icevuto al Qui r ina le dal Re. Vittorio Emanue le era stato a lungo perplesso sulla oppor tun i t à dell ' impresa, r iecheggiando in questo le obbie­zioni di general i e ammiragl i , compreso Badoglio. Ma ora gli disse: «Duce vada avanti. Sono io alle sue spalle. Avanti le dico». Alle sei e mezzo del pomeriggio il Duce si affacciò al balcone di Palazzo Venezia. La piazza era nereggiante di folla. Altre molti tudini a t tendevano nelle piazze di tut ta Ita­lia davanti agli al toparlanti della radio. Venti milioni di ita­liani, disse Mussolini, e rano in ascolto. Forse n o n esagerava. Fu, il suo, un discorso suggest ivo e d e m a g o g i c a m e n t e sa­piente , nel quale l 'Italia era la vittima, e la Lega delle Na­zioni la sopraffattrice. All'Italia era stato negato «un posto al sole». At torno al tavolo della «esosa pace» n o n le e rano toc­cate che «scarse briciole del ricco bott ino coloniale». «Abbia­mo pazientato - tuonò - tredici anni du ran t e i quali si è an­cora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la no­stra vitalità. Con l'Etiopia abbiamo pazientato quaran ta an­ni. O ra basta!». Disse che «alle sanzioni economiche oppor ­remo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio» e che «alle sanzioni militari r i sponderemo con misure militari, ad atti di g u e r r a risponderemo con atti di guerra». Promise infine: «Noi faremo tut to il possibile per­ché questo conflitto di carat tere coloniale n o n assuma il ca­rat tere e la por ta ta di un conflitto europeo».

Il 3 ot tobre 1935, alle cinque del matt ino, le avanguardie va rca rono il Mareb , fiumiciattolo che divideva, a n o r d di Adua, l 'Eritrea dal terri torio abissino e che pe r molti italiani era «la frontiera della vergogna». Il dado era tratto. Comin­ciava la campagna d'Etiopia.

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CAPITOLO OTTAVO

LA GUERRA DI DE B O N O

Il mezzogiorno del d u e ot tobre 1935 il generale Emilio De Bono, Q u a d r u m v i r o della rivoluzione, alto commissario in Africa Orientale dal gennaio precedente , comandan te supe­riore delle t r u p p e pe r la conquista dell 'Etiopia, si e ra trasfe­ri to da Àsmara a Coati t , un villaggio che distava u n a cin­quant ina di chilometri dalla frontiera del Mareb. Lì era sta­to impianta to , in baracche piut tos to c o m o d e («Troppo co­mode» osserverà acidamente Badoglio in un suo r appor to a Mussolini), il Quar t ie r generale .

De Bono aveva al lora se t t an t ' ann i , e inseguiva ancora u n a gloria militare che gli si e ra sempre ost inatamente rifiu­tata. I l c o m a n d o delle operazioni cont ro l 'Etiopia era stato un suo vecchio sogno, già da q u a n d o era ministro delle Co­lonie. Nel l ' au tunno del 1933 si era presenta to al Duce cui si rivolgeva (era-uno dei pochi) con il confidenziale «tu» e gli aveva det to: «Senti, se ci sarà u n a g u e r r a laggiù tu - se me ne ritieni degno e capace - dovresti concedere a me l 'onore di condurla». Ha riferito lo stesso De Bono che Mussolini gli rispose: «Certamente», e avendogli il Q u a d r u m v i r o chiesto se non lo considerasse t roppo vecchio, aveva aggiunto: «No, perché n o n bisogna p e r d e r e tempo».

La scelta di De Bono non spiaceva a Mussolini, pe r alme­no tre ragioni. Essendo nota la mediocrità del Quadrumvi ro come stratega e come organizzatore, il mer i to della vittoria sarebbe stato attr ibuito più largamente al Duce; la guida di De Bono avrebbe «fascistizzato» la guer ra ; esistevano b u o n e probabili tà che si arrivasse a u n a soluzione di compromes­so, sul p iano in ternazionale , p r i m a che la c a m p a g n a assu-

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messe dimensioni impegnative, e pe r un compito di questo g e n e r e De Bono era l ' uomo ideale . Poi s i po teva s e m p r e cambiarlo.

In realtà Mussolini voleva essere, sia p u r e da Palazzo Ve­nezia, il condott iero della guer ra . Non a caso aveva r ipreso i dicasteri militari e il minis tero delle Colonie, ai sottosegre­tariati aveva scelto o confermato uomini di sua completa fi­ducia: i general i Federico Baistrocchi e Valle all 'Esercito e alla Aeronautica, l 'ammiraglio Cavagnar i alla Marina, Les-sona alle Colonie. Nelle direttive segrete che il Duce aveva d i r a m a t o a pochi d i re t t i col laborator i il 30 d i cembre del 1934 e r a n o r iassunte le l inee della sua azione. «Per u n a g u e r r a rap ida e definitiva ma che sarà sempre dura , si de­vono pred i spor re grandi mezzi. Accanto ai 60 mila indigeni si devono m a n d a r e a lmeno al t ret tant i metropol i tani . Biso­gna concen t ra re a lmeno 250 apparecchi in Eri trea e 50 in Somalia. Carr i armati , 150 in Eritrea e 50 in Somalia. Supe­riorità assoluta di artiglieria. Dovizia di munizioni . I 60 mila soldati della metropoli , meglio ancora se 100 mila, devono esser pront i in Eritrea pe r l 'ottobre del 1935.»

Queste cifre, che già prospet tavano l'invio di un corpo di spedizione quale mai si e ra visto in Africa, furono poi larga­m e n t e supe ra te , a lmeno p e r l e t r u p p e d i t e r ra . Mussolini era ossessionato dalla catastrofe di q u a r a n t a n n i pr ima. «Per poche migliaia di uomin i che n o n c ' e rano - aveva de t to -p e r d e m m o a d Adua . N o n c o m m e t t e r ò mai q u e s t ' e r r o r e . Voglio peccare p e r eccesso n o n p e r difetto.» I l p r i m o sca­glione della Gavinana cominciò a sbarcare a Massaua a metà apr i le del '35 e fino a l l 'o t tobre si a m m a s s a r o n o in Er i t rea - prevalentemente - e in Somalia c inque divisioni dell 'eser­cito e c inque di camicie nere . Oltre 200 mila uomin i di cui set temila ufficiali, seimila mitragl iatr ic i , se t tecento pezzi d 'ar t igl ier ia , cen toc inquan ta carr i a rmat i , cen toc inquan ta aerei da caccia e da bombardamen to . L 'armamento e l'equi­pagg iamen to del co rpo di spedizione e r a n o , se raffrontati alle es igenze di u n a g u e r r a m o d e r n a , e ai p rogress i della

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tecnica, piut tosto modest i . A p p e n a qua t t ro ann i d o p o i te­deschi avrebbero fatto vedere , nel conflitto eu ropeo , quale «salto di qualità» si fosse verificato nell 'arte della guer ra . Ma per u n a impresa coloniale, realizzata da un paese povero, lo sforzo deve essere considerato di dimensioni gigantesche.

Ins ieme ai soldati, par t ivano pe r l'Africa anche i lavora­tori , inizialmente diecimila, secondo le richieste di De Bo­no , poi p rog res s ivamen te cresciuti f ino a ol t re centomila . Essi dovevano essere impiegati soprat tut to pe r ingrandi re il po r to di Massaua, pe r migl iorare la s t rada Massaua-Asma-ra, pe r costruire edifici e baraccamenti , pe r allestire impian­ti idrici. I segretari federali profi t tarono di questa occasione pe r spedire in Eritrea e in Somalia elementi indesiderabili , disoccupati che e rano tali soprat tut to pe r la scarsa voglia di lavorare, intellettuali disadattati . De Bono lamentò che «in que i p r imi scaglioni fu inviato giù c h i u n q u e , senza scelta, senza nessuna garanzia fisica né morale. Fra di essi ce n 'era­no che n o n avevano mai preso un attrezzo di lavoro in ma­no: si t rovavano 12 maestri di scuola, 4 farmacisti, 3 avvoca­ti, 9 orologiai, parecchi barbieri».

La profusione dei mezzi, l'affarismo di appaltatori e traf­ficanti, la rivalità e la m a n c a n z a di c o o r d i n a m e n t o t ra le Forze Arma te , d e t e r m i n a r o n o rube r i e e spe rpe r i , come sempre in circostanze di questo genere . Un certo m o m e n t o l ' intendente del corpo di spedizione, il brillante e capace ge­nerale Dall 'Ora, aveva telegrafato o rd inando di sospendere l'invio della paglia e del foraggio per i muli, pe rché era im­possibile sbarcarli. Il ministero della G u e r r a non se ne die­de pe r inteso, e le navi cariche r imasero al largo di Massaua, in attesa, pe r sett imane, e a volte perfino t re o quat t ro mesi. L'aeronautica - lo ha raccontato Lessona - aveva sostenuto la tesi che n o n si potessero costruire campi d'aviazione sul­l 'altopiano eri t reo, dove la quota rendeva difficile il decollo, ma che si dovesse realizzarli nel bassopiano. Q u a n d o questi ultimi furono pront i , con le loro dotazioni di forni, frigori­feri, vent i latori , docce, sedi poco m e n o che m o n u m e n t a l i

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per i comandi , ci si accorse che n o n servivano, e si allestiro­no sul l 'a l topiano - da dove si decollava beniss imo - ae ro ­port i definiti «sussidiari» che invece furono quelli rea lmente operant i .

Il Duce «vide grande», pe rché aveva fretta, e pe rché vo­leva p remun i r s i con t ro le quer imonie dei generali . A volte r addopp iò , semplicemente, ciò che gli era stato chiesto. Lo sforzo mili tare d iede alla nazione una frustata economica e morale . L'industria ne fu tonificata, il miraggio delle nuove ter re , delle nuove ricchezze, del nuovo «posto al sole», acce­se le fantasie. Tra i volontari c 'erano di certo anche emargi­nati e avventurieri ; ma c 'erano anche molti sinceri patrioti , che pensavano di contr ibuire alla grandezza dell'Italia e, in­sieme, alla civilizzazione di un paese barbaro .

I p roge t t i di Mussolini i n c o n t r a r o n o le maggior i diffi­denze e le più ostinate obbiezioni p ropr io t ra gli alti coman­di dell 'Esercito. De Bono era entusiasta pe rché il comando era stato affidato a lui; ma t ra i professionisti del lo stato maggiore i suoi giudizi godevano di scarsissima considera­zione. Egli p re tendeva che potessero bastare, pe r la conqui­sta dell 'Etiopia, 60 mila soldati indigeni, e 20 mila nazionali, o l t re a quelli che già si t rovavano in Er i t rea e in Somalia. Un calcolo che Badogl io , in te rpe l la to nella sua qual i tà di Capo di stato maggiore generale , invertì; secondo lui occor­revano trentamila indigeni, ma centomila soldati metropoli­tani e a rmament i a profusione (l 'una e l 'altra previsione, lo abbiamo visto, supera te da ciò che Mussolini mise a disposi­zione dei generali) . Fu d a p p r i m a perplesso il sottosegreta­rio alla Gue r r a , Baistrocchi, che temeva r imanessero per i ­colosamente sguarni te , con l ' impegno africano, le frontiere nazionali, ma poi divenne, o a lmeno si mostrò, un caldo so­steni tore della campagna . Più a lungo ostile r imase Bado­glio, in par te pe r motivi tecnici, in par te perché riecheggia­va i dubbi del Re.

Vittorio Emanuele I I I era angosciato dalla eventualità di un conflitto aper to con l ' Inghil terra. I suoi incontri col Du-

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ce furono, nei mesi di p reparaz ione della guer ra , prevalen­temente protocollari (le udienze per la firma dei documen­ti) e n o n frequenti . Nel corso di essi il tema etiopico n o n fu mai t ra t ta to a fondo. Come sempre in queste evenienze, i l Re si t r incerava nel suo r ido t to «costituzionale», r ipe teva che la guida politica del paese spettava al governo, preferi­va i n s o m m a fare a r r iva re a Mussolini i suoi consigli p e r iscritto, o p e r vie ind i re t t e . Così, in u n a le t te ra gli racco­mandava di t rovare il m o d o «di evitare un u r to violento con l ' I ngh i l t e r r a (perché) ques ta sarebbe u n a faccenda della massima gravità pe r l'Italia, dati i dubbi che si po t r ebbe ro nu t r i re r iguardo all 'at teggiamento della Francia». Badoglio riecheggiava le preoccupazioni del Re. «La gue r r a - scrisse a De Bono - anche con risultato a noi p i enamente favorevo­le, rappresen te rà sempre pe r il paese u n o sforzo onerosissi­mo. Calcoli p u r e approssimativi d a n n o u n a spesa n o n lon­tana dai sei miliardi, ossia all'incirca un terzo della nostra ri­serva aurea . . . Siffatta grave incisione nella finanza a p p o r ­terà come conseguenza che tu t to i l mater ia le (equipaggia­mento , muniz ionamento , q u a d r u p e d i ecc.) n o n po t rà esse­re sostituito che assai len tamente nelle dotazioni dell'eserci­to, come accadde nella spediz ione libica. L'esercito qu ind i at t raverserà u n a dopp ia crisi: d u r a n t e le operazioni , pe r la considerevole sottrazione di forze; dopo la campagna , pe r il lento r i fornimento delle dotazioni.»

Sapendo che il Duce voleva la g u e r r a all 'Etiopia, Bado­glio, nello stile della sua p r u d e n z a p iemontese e contadina, n o n aveva c o m u n q u e det to di no , né tanto m e n o s i e ra di­messo. Aveva preferito prospet tare le difficoltà dell ' impresa, a volte ragionevolmente, contro la faciloneria del Q u a d r u m ­viro, a volte ingigantendole . Aveva ad esempio chiesto, alla fine del 1934, due o tre anni di dilazione perché la macchina mili tare fosse a p u n t o : il che compromet t eva i r r imediabi l ­mente i piani mussoliniani. Il Duce gli aveva tappato la boc­ca, lo si è visto, d a n d o a lui e a De Bono tutto ciò che chiede­vano, e più di quanto chiedessero. Tutto, salvo il t empo.

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Sotto quest i contrast i c ' e rano , n a t u r a l m e n t e , rivalità e ambizioni personal i . I l c o m a n d o della c a m p a g n a africana faceva gola a tutti i capi militari di p r i m o p iano , che consi­de ravano De Bono il m e n o qualificato a esercitarlo. Si era subito fatto avanti Baistrocchi, che n o n pe rdeva occasione per p ronunc i a r e giudizi taglienti sul Q u a d r u m v i r o . A Les-sona aveva chiesto che caldeggiasse presso Mussolini l 'idea di r iunire in u n a sola persona - la sua si capisce - il sottose­gretariato alla Gue r ra e la carica di comandan te delle t rup­pe . Così, sosteneva, s a rebbe ro stati e l iminat i au tomat ica­m e n t e i possibili contrast i t ra Roma e il Quar t i e r genera le in Africa. Q u a n d o si rese conto che la part i ta, pe r quel che lo r iguardava, e ra persa, il Baistrocchi propose il n o m e del generale Pirzio Biroli, così da togliere di mezzo sia De Bono sia Badoglio, questa o m b r a i m p o n e n t e e incomben te sulle Forze Armate Italiane.

Badoglio, nella sua azione di s tancheggiamento, sembra­va volersi tenere fuori dalla mischia pe r il comando . Ma era solo una finzione. Un giorno, nell 'anticamera di Palazzo Ve­nezia, avendovi incontrato Lessona che, come sottosegreta­rio alle Colonie, usciva da un 'udienza del Duce, lo apostrofò con amarezza: «Si r e n d e conto il Capo del governo della re­sponsabilità che si assume affidando il comando delle t r up ­pe in Africa a un generale esonerato dal servizio dopo la pri­ma g u e r r a mond ia l e , m e n t r e è ancora vivo i l marescial lo che ha condot to le nostre armate a Vittorio Veneto?». Infine c'era, più de luso e inquie to di tutti , Graziani che , essendo stato «gonfiato» dalla p r o p a g a n d a fascista pe r le sue impre­se contro i ribelli in Libia, si credeva veramente un Lyautey, ne aveva assunto i toni drammat ic i e teatrali e considerava le imprese coloniali come sue natura l i spet tanze. Relegato invece al c o m a n d o delle forze dislocate in Somalia, cui era affidato un compito secondario, mordeva il freno, e faceva dire da sua moglie che bisognava spazzar via i vecchi, Bado­glio compreso , e far largo alle forze giovani. Ma Mussolini resistette alle pressioni . De Bono, se n o n al t ro , e ra docile.

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Aveva predisposto l'inizio delle operazioni pe r il c inque ot­tobre; ma q u a n d o il Duce gli ingiunse di iniziare l 'avanzata sulle p r ime ore del 3 ot tobre, obbedì.

Da set tentr ione mossero d u n q u e le colonne del più potente esercito eu ropeo di cui l'Africa avesse memoria . La linea del f ronte e ra divisa fra t re corp i d ' a rma ta . Sulla des t ra i l II C o r p o , del genera le Maraviglia, che aveva p e r p r i m o im­por tan te obbiettivo Adua; al centro il Corpo d 'Armata indi­geno di Pirzio Biroli, che si spingeva verso le ambe dell 'En-ticciò; sulla sinistra il I Corpo del generale Santini che pun ­tava su Adigrat. I repar t i n o n incont ra rono resistenza alcu­na. Marciavano pazienti ed entusiasti con la loro dotazione d i centodieci car tucce , viveri p e r q u a t t r o g iorni , d u e litri d 'acqua a testa, scoprendo passo a passo, su piste e sentieri polverosi , la nuova te r ra . Gli ascari davano sfogo alle loro fantasie, e sparacchiavano (gli unici colpi di a rma da fuoco della giornata), qualche fante, di origine contadina, ha rac­contato il giornalista Cesco Tomaselli, si chinava a raccoglie­re u n a mancia ta di t e r r a , e la sbriciolava p e r saggiarne la grana, calcolando la qualità e quanti tà dei raccolti che se ne sarebbero potuti ricavare. I bombardier i avevano comincia­to a mar te l la re gli obbiettivi, Galeazzo Ciano e Alessandro Pavolini, volontari nell 'aviazione così come i figli del Duce Vittorio e Bruno , at taccarono con i loro tr imotori Adua, ac­colti da u n a certa reazione contraerea.

Si trattò in sostanza di una faticosa passeggiata, il cui esi­to era atteso a Roma, da Mussolini, con ansia comprensibi­le, anche se del tut to sproporz ionata alle difficoltà imposte dal nemico , p e r i l m o m e n t o inesistente. I l Duce aveva co­minciato a tempestare il povero Lessona, al ministero delle Colonie, f in dal mezzogiorno. Ma dal Quar t i e r genera le di Coatit non era giunto alcun messaggio. Alle qua t t ro e mez­zo del pomer iggio era già crucciato p e r il r i ta rdo, alle otto di sera a r rabb ia to , e a mezzano t t e furioso. «Aveva o rma i perso il controllo dei suoi nervi: mi telefonava ogni cinque

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Le prime fasi dell'offensiva di De Bono

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minut i preso da un'ansia febbrile che io giustificavo, ma che mi metteva in un imbarazzo penoso.» Con infiniti sforzi Les-sona era riuscito a comunicare con un funzionario civile del­l'Asinara dal quale aveva soltanto avuto la conferma dell'ini­zio delle operazioni . Lasciando quella sera Palazzo Venezia pe r Villa Torlonia , Mussolini par lò di s i lurare il silenzioso De Bono . Le notizie a r r iva rono all'alba ed e r ano soddisfa­centi . Mussolini si placò, e De Bono si salvò. Ques ta man­canza di conta t t i aveva u n a spiegazione molto sempl ice . Ment re esisteva da t empo una collaudata rete di comunica­zioni della marina, alla vigilia dell 'attacco l'Esercito aveva ri­vendica to l 'onore di assolvere ques to compi to con gli im­pianti - un inutile dopp ione - che aveva nel frat tempo alle­stito. Il risultato s'era visto.

Le operazioni militari ebbero andamen to analogo anche nei tre giorni successivi. Pochi e sporadici i segni della p re ­senza di armat i etiopici. Il c inque ot tobre fu presa Adigrat, il 6 la sconfitta di Adua era vendicata con la conquista della città che poi, cons ta tarono i nostri soldati, e ra u n a borgata miserabile, popola ta da ner i pacifici e famelici, che si strin­gevano a t torno agli occupanti pe r averne un'elemosina. Ma in Italia, dove non si sapeva che quella «battaglia» era costa­ta al II C o r p o d ' a rma ta , in tu t to e p e r tu t to , un ufficiale mor to , tre feriti tra gli italiani, u n a c inquant ina tra le t rup­pe di colore, la conquista di Adua, pe r tut to ciò che questo n o m e evocava, suscitò u n ' o n d a t a d i en tus iasmo nel quale veramente non c'era nulla di orchestrato. La famosa «onta» di cui tutti i testi scolastici, e anche i r icordi degli anziani re­cavano traccia, era stata lavata. Mussolini stesso, che amava at teggiamenti da impassibile, questa volta n o n seppe finge­re . II solito Lessona, che ebbe con lui i p iù assidui contatt i nel pe r iodo della campagna , ce lo ha così descritto: «Il suo viso si i r radiò di gioia. Un bisogno irresistibile di cordialità lo prese, e fu affabile come n o n mai. Volle che lo accompa­gnassi in automobile fino a Villa Torlonia. Mi disse: "Oggi è u n a g rande data pe r i l fascismo"».

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La marcia verso Adua era stata un rischio non calcolato, e avrebbe po tu to costarci serie perd i te , se ci fosse stato un nemico in g rado d'infliggercele. I l t e r r eno su cui p rocede­vano le t r u p p e del secondo Corpo d 'a rmata era montagno­so, con macchie a volte fitte, e percorso soltanto da d u e mu­lattiere. Badoglio, che essendo stato da subal terno pe r d u e anni di gua rn ig ione in Eri t rea conosceva benissimo quelle zone, aveva sugger i to a suo t e m p o che su quella diret t r ice fosse lanciata solo qualche banda, tutt 'al più con l 'appoggio di u n a brigata indigena. Vi furono invece avviati 30 mila uo­mini, attraverso un unico ponte sul Mareb. Scrisse successi­vamente Badoglio in un rappor to , valutando (non benevol­mente) ques ta azione: «La for tuna ci ha assistiti. Abbiamo avuto di fronte un solenne minchione: ras Sejum ha d imo­strato di avere le stesse carat terist iche, no tevolmente peg­giora te , di suo p a d r e ras Mangascià. . . Se invece di Sejum avessimo avuto di fronte un ras Alula, cer tamente avremmo avuto a lcune migliaia di pe rd i t e . Sia d u n q u e lodato ras Sejum Mangascià». Il generale Maravigna e il generale Villa Santa, che c o m a n d a v a la divisione Gavinana , en t r a t a p e r p r ima in Adua, la pensavano tuttavia diversamente, ed era­no fieri del loro piano. Maravigna si era affrettato a presen­tare a De Bono u n a lunga lista di decorazioni da distribuire, lista che era stata, per decenza, bocciata.

Se i soldati n o n avevano dovu to d a r p rova di e ro i smo, essendo pra t icamente mancata ogni resistenza, era stato tut­tavia chiesto loro molto sacrificio. La mancanza di vie di co­municaz ione , e l 'avanzata di decine di migliaia di uomin i , avevano tagliato i co rdon i ombelicali che devono u n i r e la t ruppa di p r ima linea alla sussistenza. A un certo p u n t o fan­ti, militi, a lpini , avevano dovu to cibarsi con il g r a n o t u r c o raccolto nei campi, e arrostito alla meglio. Gli operai si era­no c o m u n q u e messi immed ia t amen te al l 'opera pe r ap r i r e nuove s trade e allargare le piste esistenti, sulle quali avven­turosamente avanzavano, coi loro pesanti carichi, i camioni­sti, che furono i veri eroi di quella g u e r r a : ne m o r i r o n o a

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centinaia, precipitati nei bu r ron i , o caduti negli agguati . La popolazione sembrava fraternizzare volentieri con gli «inva­sori» che diedero notizia del bando civilizzatore emana to da De Bono. La schiavitù era soppressa. Questo provvedimen­to che , nella feudale società etiopica, aveva u n a por t a t a ri­voluzionaria, non fu accolto con l 'entusiasmo che il genera­le si aspettava. «Devo di re - r icorderà nelle sue memor i e -che il bando non fece g rande effetto sui propr ie tar i di schia­vi, e forse m e n o sugli stessi schiavi liberati. Molti di costoro, a p p u n t o lasciati in libertà, si p resen ta rono alle nostre auto­rità d o m a n d a n d o : "E adesso chi mi dà da mangiare?".»

Vari s intomi lasciarono cap i re che le forze cen t r i fughe stavano già cominciando ad agire tra gli abissini, e che l 'op­p o r t u n i s m o e il t r a d i m e n t o lavoravano in nos t ro favore. Senza aspet tare mol to , i l capitolo copto della ca t tedrale di Axum si presentò ad Adua pe r r iconoscere l 'autorità italia­na, e subito dopo Axum stessa era presa senza colpo ferire. De B o n o ebbe la soddisfazione di un ingresso tr ionfale, a cavallo, nella città santa, e ricevette i ba t t imani di u n a folla di indigeni «istruita - lo raccontò lui stesso - pe rché applau­disse» a g g i u n g e n d o : «Non e ro t an to i n g e n u o da r i t ene re quei plausi sinceri». Sempre in quella primissima fase della campagna il degiac Hailé Selassié Gugsa, genero dell ' impe­ratore , si consegnò agli avamposti italiani, seguito da mille­duecento uomini con fucili e otto mitragliatrici. A Gugsa era stata affidata l 'avanguardia del l 'armata di ras Sejum. Il Ne­gus gli aveva confermato il comando anche q u a n d o l'aveva­no informato che il degiac era foraggiato dagli italiani. Filo­soficamente, Hailé Selassié aveva osservato che molti suoi ras incassavano quat t r ini italiani, ma che, tuttavia, r imane­vano fedeli all'Etiopia. Nel caso specifico si sbagliava.

La mancanza di un vero contatto tra i d u e eserciti nemici derivava da d u e motivi: la disorganizzazione, e lo «sponta­neismo» della s t rut tura militare etiopica; e il deliberato p ro ­posito del Negus di lasciare sgombra u n a fascia di confine pe r ragioni poli t iche. Alla Società delle Nazioni egli aveva

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assicurato la evacuazione del terr i tor io pe r u n a profondi tà di t renta chilometri , così che n o n potesse essergli imputa ta la responsabil i tà di incident i e p e r d imos t ra re inequivoca­bilmente che gli aggressori e rano gli italiani. All'inizio delle operazioni la c o p e r t u r a del fronte e ra garant i ta pr incipal­men te da ras Sejum che aveva i suoi t ren ta o quarantami la uomin i a sud di Adua , un 'o t t an t ina di ch i lometr i l on t ano dal confine, e che d o p o aver inviato qua lche r e p a r t o in avanscoper ta , i m p e g n a n d o l o in scaramucce , r i nunc iò a ogni velleità di contrastare l'attacco. Già abbiamo visto cosa pensasse Badoglio di Sejum. Il colonnello russo Konovaloff, che fu suo consigl iere mil i tare , ne apprezzava la cortesia, ma lasciò scritto che q u a n d o gli aveva chiesto dove fossero le carte topografiche, si era sentito r i spondere : «Non ve ne preoccupate . Io posso fare a meno delle carte. Ras Cassa se ne interessa molto, è capace di studiarle pe r ore intere. Ma a me non dicono niente. Non vi affaticate».

Nella zona di Macallè, con un qua ran ta o cinquantamila uomini - era difficile valutare la consistenza di quegli eserci­ti quasi «personali», ed elastici nella consistenza dei repar t i -si accampava ras Cassa Darghiè , cug ino in secondo g r a d o del Negus , u o m o più di chiesa che di gue r ra . In suo aiuto sopragg iungeva , con la magg io re a r m a t a etiopica - 70-80 mila uomin i - e la megl io equipaggia ta , il min is t ro della Gue r ra ras Mulughietà , che vantava notevoli glorie guerr ie­re nella lotta alle rivolte dei feudatari periferici, ma che era u l t r a se t t an t enne , e bevi tore accanito. Infine dal Gogg iam saliva verso il Tacazzè, con quaran tami la uomin i , ras Hailé Selassié I m m i r ù n o n ancora q u a r a n t e n n e che po teva mi­nacciare lo s ch i e r amen to i tal iano sul fianco des t ro , e alle spalle. Ma questa r aduna t a avveniva a piedi, da enormi di­stanze, con l ' intermezzo di t appe pigre, nel disordine di co­mand i espressi da un paese dove i l 96 pe r cento della popo­lazione era analfabeta, e se Addis Abeba, la capitale, poteva essere considerata u n a città dei t empi feudali, il resto della nazione era più indietro ancora, nei bui secoli barbarici.

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D'altro canto gli etiopici e rano t r o p p o orgogliosi pe r ac­cet tare i consigli di tecnici militari s tranieri , e ancor m e n o pe r affidare loro il c o m a n d o di repar t i : consigli e comando che del res to e ra difficile d a r e e impossibile eserc i tare da pa r t e d i chi avesse u n a p repa raz ione , u n a t radiz ione, u n a logica militare europea . Attorno al Negus - p r ima ad Addis Abeba, poi nel suo Quar t ie r generale di Dessiè - e anche ac­canto ai suoi ras vi furono espert i militari, alcuni seri, altri piuttosto ciarlatani e avventurier i . Ma n o n influirono deci­samente sulle operazioni. Uno solo t ra loro, un greco, certo Kàravasilis, guidò u n a colonna del l ' a rmata di ras Desta sul fronte della Somalia. Gli altri, il genera le tu rco Wehib Pa­scià, un g r u p p o di belgi i l cui e sponen te più alto in g r a d o era il colonnello Leopold Ruel, il capitano svedese Tamm, il magg io re svizzero Wittl in, il cap i tano cubano Del Valle, il già citato russo Konovaloff, res tarono nelle retrovie, a orga­nizzare, pe r quel poco che potevano, e a suggerire . Qualche pilota s t r an ie ro n o n ebbe compi t i bellici. I vecchi Potez e Fokker della aviazione abissina, nulla come forza armata , fu­rono adibiti soprat tut to al t raspor to de l l ' Impera tore e della sua famiglia, e a r ifornimenti di medicinali e di armi.

M e n t r e le t r u p p e i tal iane p r e n d e v a n o f ia to , nel l 'a t tesa che la macchina logistica e di sistemazione stradale consen­tisse u n a r ipresa dell 'avanzata, Mussolini decideva di invia­re in Eritrea, pe r u n a ispezione, il maresciallo Badoglio e il sottosegretario Lessona. Aveva, il Duce, la sensazione che la pausa n o n fosse dovuta soltanto alle esigenze della p repara ­zione pe r il prossimo balzo, ma anche al lassismo di De Bo­no , che era or ienta to verso u n a g u e r r a lunga. E Mussolini - pe r ragioni di politica in terna ed estera già accennate nel­le pag ine p receden t i , e sulle quali r i t o r n e r e m o pres to - la voleva «lampo». Il 12 o t tobre i d u e cont ro l lor i lasciarono Napoli a bo rdo del Conte Grande. Fu stabilito che a De Bono avrebbero det to di voler valutare le possibilità di u n a punta ­ta verso i l S u d a n anglo-egiz iano. De Bono , che n o n e ra sciocco al p u n t o da bere questa panzana , si impun tò subito

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quando li vide. «Se dovessi subire un ispezione di controllo del mio opera to - disse a Lessona -, telegraferei al Duce le mie dimissioni.»

Al r i to rno in Italia i d u e p r e s e n t a r o n o a Mussolini r a p ­por t i paral lel i , e sos tanzia lmente coincident i nei giudizi . Quello di Badoglio era acuto e ricco di b u o n senso: ma ric­co anche di osservazioni velenose verso De Bono, probabil­mente giustificate, in massima par te , dagli e r ror i del gene­rale, che venivano tuttavia impietosamente sottolineati. Re­so il dovuto e parsimonioso omaggio al «rimarchevolissimo» lavoro fatto da De Bono, Badoglio lo accusava di essere im­bibito della speciale «psicologia eritrea». Poiché nella p r ima guer ra di Adua il generale di San Marzano, res tando fermo e aspe t t ando che gli abissini si dissolvessero pe r la incapa­cità di organizzare i r i fornimenti , n o n aveva avuto guai, e i suoi successori avevano invece b r i l l an temente manovra to , ma e rano incappati in u n a catastrofe, i comandi nostri rite­nevano, secondo Badoglio, che la strategia di San Marzano fosse giusta. De Bono e il suo Capo di stato maggiore Gabba aspet tavano insomma, su forti posizioni, che gli abissini si p resen tasse ro , e po i si r i t i rassero p e r mancanza di viveri. «Sono subito in tervenuto - scriveva nel r appor to Badoglio -dichiarando che se Vostra Eccellenza (Mussolini) avesse de­siderato tale linea di condot ta avrebbe inviato in colonia al p iù t re divisioni di r inforzo e n o n l 'equivalente di ot to , quante ne sono state finora sbarcate... Nel colloquio che ho avuto con lui p r ima della par tenza da Coatit De Bono assi­cu rò che avrebbe disposto p e r l 'avanzata su Macallè, ma concluse d i cendo che n o n r i teneva affatto necessar ia u n a battaglia.» Era ch iaro che , secondo Badogl io , di f ronte a l «minchione» ras Sejum Mangascià stava un altro minchione, De Bono, e che solo lui, Badoglio, avrebbe po tu to r imet tere in sesto la situazione.

La relazione di Badoglio fu presenta ta il 3 novembre , Io stesso g io rno in cui De Bono , mol to di malavoglia, aveva iniziato l'offensiva verso Macallè. D u r a n t e l 'assenza di Ba-

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doglio e di Lessona il Duce aveva b o m b a r d a t o De Bono di t e l eg rammi p e r o t t e n e r e che e n t r o l a me tà d i n o v e m b r e «tutto il Tigrai fino a Macallè ed oltre deve essere nostro», poi aveva preteso che l'attacco scattasse il c inque novembre . De Bono nicchiava, sp iegando che le linee di r i fornimento si sarebbero distese per icolosamente p e r quasi cento chilo­metr i , e aveva invitato il Capo del governo a stare in guar­dia «contro qualche faciloneria che po t rebbe esserti riferita da Lessona e magar i anche da Badoglio». Ma Mussolini pre­meva implacabile. «Per s incronizzare le esigenze polit iche con quelle militari ti o rd ino di r i p r ende re l'azione obbietti­vo Macallè-Tacazzè la mat t ina del 3 novembre . Il 3 o t tobre a n d ò bene , adesso a n d r à meglio.»

In sei giorni, e con il solo in toppo di u n o scontro, peral­t ro breve , con a rmat i etiopici, fu realizzata la conquista di Macallè, che vendicava Gall iano, ma scopriva i l f ianco de­stro dello schieramento italiano, n o n essendo stata seguita c o o r d i n a t a m e n t e da un p rogresso dei r epa r t i che e r a n o giunti ad Adua. E ancora Mussolini, spinto dalle sue ragioni poli t iche e sugges t ionato dall 'eco di n o m i r i t o rnan t i dalla storia patr ia , ingiungeva a De Bono di muove re «senza in­dugio» verso l'Amba Alagi. Al che De Bono replicava — ed è p robab i le avesse r ag ione - che «a p a r t e do loroso r i co rdo storico che secondo me n o n abbisogna d i r ivendicaz ione , posizione di Amba Alagi n o n ha alcuna impor tanza strategi­ca et est tatt icamente difettosa perché aggirevole ovunque». Forse con quel dispaccio De B o n o segnò la f ine della sua breve campagna d'Africa. Mussolini, che scalpitava d ' impa­zienza ed era sotto l ' impressione dei rappor t i negativi di Ba­dogl io e di Lessona, si e ra convin to che il Q u a d r u m v i r o avesse fatto il suo tempo.

Scoccava l 'ora del marchese del Sabotino (per gli ammi­ratori) o del responsabile di Caporet to (per i denigratori) . A un comandan te in capo fascista ne seguiva u n o che non era né fascista né antifascista. Era esclusivamente badogl iano . In un colloquio con Lessona, Mussolini gli aveva elencato i

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nomi degli aspiranti alla successione di De Bono: Italo Bal­bo, Cesare Mar ia De Vecchi, Baistrocchi , Graziani , Bado­glio. «Quest 'ult ima è la soluzione da adottarsi» aveva subito precisato. Il maresciallo fu convocato a Palazzo Venezia, do­ve il Duce gli annunc iò : «Ho deciso di inviarvi in Africa ad assumere i l c o m a n d o . Siete disposto ad accettare?». Bado­glio era dispostissimo, e Mussolini rinviò più par t icolareg­giate istruzioni a u n a successiva udienza.

Ques ta tuttavia ta rdava a venire , un po ' pe r ché i l Duce n o n sapeva in qual m o d o informare De Bono, un po ' per ­ché l 'ambiente romano , che aveva molto sparlato di De Bo­no, ora che la successione era assegnata a Badoglio, sparla­va di Badoglio.

Si era quasi a metà novembre , e Mussolini d ' improvviso si risolse a licenziare ufficialmente De Bono, ma pe r dorar ­gli la pillola gli a n n u n c i ò la n o m i n a a marescial lo d ' I ta l ia (qualche mese d o p o gli fu anche conferito il collare dell'An­nunziata) . Per Badoglio fu p reno ta to un alloggio su un pi­roscafo in par tenza il 17 novembre , ma Mussolini, q u a n d o seppe della data, fece u n a smorfia contrariata. «Questa data non mi piace. Il 17 è un n u m e r o sfortunato.» La nave lasciò perciò Napoli con 24 ore di r i ta rdo , i l 18. Pr ima di imbar­carsi Badogl io aveva te legrafato al Q u a r t i e r gene ra l e in Etiopia di c o n c e n t r a r e 244 bocche da fuoco nella zona di Macallè. La sua vocazione di art igl iere, che si e ra espressa in occasioni fauste e anche in occasioni rovinose, tornava ad affiorare. La gue r r a era sostanzialmente ferma, in attesa del nuovo capo, e delle sue decisioni.

La fretta di Mussolini n o n era irragionevole. Egli stava lot­t ando con t ro i l t e m p o . Sul p iano politico, pe r l iquidare al più presto la «pendenza» etiopica, e r i p r ende re il colloquio con le g r a n d i po tenze e u r o p e e . Sul p i ano economico, pe r evitare che le sanzioni p roducessero dann i gravi. La Lega, sotto l ' impulso inglese, aveva preso le sue deliberazioni con sollecitudine, d o p o l'inizio delle ostilità. Il 7 o t tobre l'Italia

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fu c o n d a n n a t a in q u a n t o , s ca tenando un conflitto, «aveva commesso un at to d i g u e r r a con t ro tut t i gli altri m e m b r i del la Società delle Nazioni». Q u a t t r o g iorn i d o p o furono decise le sanzioni economiche, alle quali ader i rono cinquan­t adue Stati membr i (si dissociarono solo l'Austria, l 'Unghe­ria e l'Albania). Q u a n t o alla Svizzera, che appa r t eneva alla Lega, ma non voleva t rasgredire la sua tradizionale neut ra­lità, si a t tenne a un criterio del tutto particolare. Attuò rigo­rosamente l 'embargo delle a rmi sia pe r l 'Italia, sia pe r l'E­tiopia, e p u r r i f iutando di l imitare gli scambi con l'Italia si i m p e g n ò a n o n dilatarli oltre i livelli del 1934. Con le san­zioni gli Stati aderent i alla Lega p romet tevano di applicare all 'Italia, ol t re all 'ovvio e m b a r g o delle forn i ture di a rmi e munizioni , anche il divieto di importazione e di esportazio­ne di u n a lista di merc i necessar ie alla g u e r r a , lista dalla quale fu tuttavia escluso l ' indispensabile petrolio. Nelle stes­se sedute societarie fu affidato alla Francia e all ' Inghil terra, su proposta belga, il compito di svolgere ulteriori trattative pe r un accordo tra i belligeranti.

In quei limiti, le sanzioni n o n impedivano a Mussolini di por ta re a te rmine la campagna d'Etiopia, e pe r certi aspetti gli e r ano utili. Consol idavano il fronte in t e rno , susci tando nella op in ione pubblica italiana indignazione p e r i l r igore di nazioni p rospere che, essendo divenute tali anche grazie a n u m e r o s e conquiste e r ap ine coloniali, si mos t ravano in­t rans igent i e pu r i t ane solo nei r igua rd i dell ' I talia prole ta­ria; consentivano di da re una giustificazione inoppugnabi le alle misure da «economia di guerra» che venivano adottate; impr imevano u n a spinta decisiva a quella t endenza nazio­nalista e autarchica, in economia, che ogni regime forte co­va e al imenta; pungo lavano i combat tent i a far pres to , pe r da re u n a lezione al m o n d o ostile. Più che nelle sanzioni così come e r a n o state del iberate , i l pericolo era in un loro ina­spr imento , che Eden p ropugnava , e in una adesione ad es­se, dall 'esterno, di un colosso economico come gli Stati Uni­ti. E vero che il settanta per cento del commercio estero ita-

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liano si svolgeva con nazioni aderenti alla rappresaglia . Ma l'esclusione dal l 'embargo di prodot t i essenziali, e l'esistenza di mercati alternativi di approvvigionamento - basta pensa­re a quello tedesco - facevano intravvedere difficoltà, n o n la catastrofe. Mussolini confessò a Hitler du ran t e la conferen­za di Monaco che «se la Lega delle Nazioni avesse seguito il consiglio di Eden ed esteso al petrolio le sanzioni contro l'I­talia, nello spazio di otto giorni avrei dovuto bat tere in riti­rata in Abissinia».

Le sanzioni p rodussero t ra gli italiani, sul p iano emotivo, un effetto eno rme . Un popolo così poco animato da spirito civico e di solidarietà fu cementato nella sua opposizione al­lo straniero dalla minaccia dello «strangolamento», ingigan­tita e drammatizzata, nei suoi effetti, da un'abile, martellan­te p ropaganda . Nella «giornata della fede», il 18 dicembre , un mese d o p o che le sanzioni e rano ent ra te in vigore, fu of­ferta alla Patria la vera nuziale d 'oro , sostituita da un 'a l t ra di metal lo vile, e l 'esempio venne da to dalla Regina Elena che compì quel gesto sul Vittoriano, con g r a n d e solennità, ad attestare che la casa Savoia sosteneva tota lmente il fasci­smo. Milioni di italiani d iedero la loro fede con gesto «gene­roso e sentito» come ha scritto Zangrandi . Vi fu u n a ondata di xenofobia economica, ma anche psicologica e perfino let­teraria, i te rmini leghista e sanzionista assunsero un signifi­cato spregiat ivo, e tu t to ciò che r igua rdava l ' Ingh i l t e r ra e gli inglesi («il popolo dai c inque pasti») d ivenne ogget to di scherno. Gli italiani venne ro ossessionantemente esortati a boicottare i p rodo t t i sanzionisti e a scegliere s empre i p ro ­dott i d i casa, anche q u a n d o e r a n o sur roga t i scadent i . Nel campo tessile fu dato sviluppo alle stoffe nazionali, canapa, lino, ginestra, l 'orbace sardo che Starace volle fosse adottato pe r le uniformi dei gerarchi , la l ana ricavata dal latte. La li­gnite fu r i t enuta un valido sostituto del carbone . Si proce­dette alla raccolta dei rot tami metallici, e perfino la bevanda più cara agli italiani - il caffè - fu sostituita da un intruglio abissino piuttosto simile al tè, il carcadè.

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Questa volontà di «fare da sé», che come concezione eco­nomica avrebbe avuto i l n o m e grecizzante di «autarchia», era pe r molti aspetti velleitaria, insensata, comica. Ma trovò r i s p o n d e n z a p ro fonda , b i sogna p u r dir lo , nei cuor i degli italiani di allora. Chabod ha rilevato il grave e r ro re inglese di « rendere a un certo m o m e n t o popo la re u n a g u e r r a che altrimenti non lo sarebbe mai stata». Carlo Rosselli disse che era necessario «riconoscere con franchezza virile che il fasci­smo, a lmeno sul p iano in te rno , che è poi quello che più di ogni al tro ci concerne , esce rafforzato, consolidato da que­sta crisi». La polemica anti inglese si colorò, ed era inevita­bile in quel clima e in quel contesto politico, di tabù e divie­ti grotteschi.

Gli scrittori britannici furono bandit i con poche eccezio­ni: l 'una quella di Shakespeare, perché anche il Minculpop e Starace n o n avevano il coraggio di epu ra r e dal p a n o r a m a letterario il più g rande d r a m m a t u r g o di tutti i tempi; un'al­tra, quella di Shaw, perché l ' irlandese bastian contrar io ave­va recisamente deplora to le sanzioni. Ma u n a lunga serie di espressioni di uso corrente , di nomi di cinematografi e di ri­trovi, fu censurata in odio alla perfida Albione. Cadde sotto i rigori anti inglesi anche l 'albergo Eden di Roma, il cui no­me n o n aveva ovviamente nulla a che fare con il minis t ro sanzionista, ma che , v e n n e spiegato, po teva u r t a r e , p e r i l casuale accostamento, la «suscettibilità degli italiani».

Se la raccolta dell 'oro e dei rot tami di ferro aveva un va­lore soprat tut to propagandis t ico, altri provvediment i adot­tati nella imminenza delle sanzioni, o subito dopo , mi ra ro­no a realizzare u n a economia di gue r ra «pianificata». Insie­me al ministro delle Finanze R T h a o n di Revel, altri d u e uo­mini ebbero un ruolo di spicco nel nuovo corso: i l sottose­gretario agli scambi e valute, Felice Guarner i , e il commissa­rio generale pe r le fabbricazioni di guer ra , il vecchio gene­rale Dallolio che già aveva avuto compi t i ana logh i nel '15-T8. Le importazioni furono sottoposte a un controllo e a un taglio severo, venne r ipr is t ina to il monopo l io statale

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degli scambi valutari, e fu fatto obbligo a tutti di cedere allo Stato i crediti esteri. La Banca d'Italia venne esonerata dal-l'obbligo di avere una riserva in oro e in valuta pregiata n o n inferiore al quaranta pe r cento del circolante. Furono pena­lizzati i consumi volu t tuar i , si t en tò di a l largare u l ter ior ­men te la sfera statale della economia, così da r ende r l a me­glio regolabile dall 'alto, in vista delle esigenze imposte dalla gue r ra e dall 'assedio economico mondiale . La situazione ec­cezionale provocò u n a lievitazione notevole dei prezzi inter­ni, quasi il 37 pe r cento da l l ' au tunno del '34 a l l 'autunno del '36. Nello stesso pe r iodo si verificò u n a d iminuzione di ol­tre il 10 pe r cento nei salari reali, che non avevano tenuto il passo con l'inflazione.

Ma la gue r r a , tonificando le attività industr ial i , e assor­bendo alcune centinaia di migliaia di uomini giovani, allar­gava g r a n d e m e n t e la possibilità di t rovare u n a occupazio­ne . È o p p o r t u n o r i co rda r e che nel m o m e n t o di massima presenza di italiani - soldati e opera i - in Africa Orientale , se ne con ta rono quat t rocentomila o più. Se le sanzioni fos­sero du ra t e a lungo, avrebbero imposto, anche nei limiti in cui furono applicate, un costo notevole al l 'economia italia­na. Nel per iodo in cui ope ra rono , le importazioni di mine­rali di ferro d iminu i rono del 75 pe r cento, quelle di lana del 60, quelle di acciaio in lingotti e di cotone del 50, quelle di c a rbone del 20. Ma n o n d u r a r o n o a l ungo , e , r i pe t i amo , esclusero il petrolio. Il fascismo ne ebbe, tutto sommato, più vantaggi che svantaggi.

La g u e r r a n o n aveva bloccato l 'attività d ip lomat ica . Anzi Mussolini, che pe r il fronte in terno ostentava verso la Gran Bretagna u n a intransigenza aggressiva, si dimostrava, attra­verso i canali diplomatici, n o n solo disposto a da re alle d u e maggiori potenze sanzioniste ogni assicurazione, ma anche a ch iudere la part i ta etiopica con un compromesso. Già il 4 ottobre egli aveva incaricato l 'ambasciatore Grandi di far sa­p e r e al minis t ro degli Esteri inglese H o a r e che l 'Italia e ra

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disposta ad a t tuare una smobilitazione di forze nel Mediter­raneo . Ai francesi, un paio di sett imane dopo , il Duce ripe­teva lo stesso discorso, agg iungendo che il conflitto in Africa avrebbe p o t u t o essere compos to a s segnando in definitiva sovranità all'Italia i terr i tori abissini occupati , r ivedendo le al tre frontiere, affidando all 'Italia stessa un m a n d a t o sulle regioni periferiche, e non appar tenent i al g r u p p o amarico, del paese (con la conseguenza di stabilire u n a contiguità ter­ritoriale tra Eritrea e Somalia), concedendo infine u n o sboc­co al mare all'Etiopia nella baia di Assab.

Gli inglesi n o n risposero, o d iedero risposte scoraggianti, ai sondaggi italiani. I conservatori non e rano entusiasti del­le sanzioni, tutt 'al tro, e consentivano che esse fossero appli­cate con indulgenza (a Suez, ad esempio, le navi italiane ve­nivano regolarmente rifornite di carburante) . Ma n o n pote­vano avventurarsi in u n a politica di riavvicinamento all'Ita­lia, pe rché le elezioni politiche incombevano - furono tenu­te a metà novembre - e larga par te della opinione pubblica era animata da un profondo r isentimento contro i l fascismo aggressore . Q u a n d o , celebrate le elezioni, il gove rno «na­zionale» ebbe sa ldamente confermato la sua maggioranza , d ivenne possibile r i annoda re una trattativa. I l p r imo mini­stro Baldwin e il ministro degli Esteri H o a r e cont inuavano ad in terpre tare , nel gabinetto inglese, la t endenza morbida, p reoccupa t i c o m ' e r a n o da un definitivo scivolamento d i Mussolini t ra le braccia di Hitler. Eden restava l ' in terpre te della linea «societaria». Propr io pe r questo Eden fu escluso dagli approcci pe r un accordo che ebbero come protagoni­sti, al livello di funzionari, Vansittart e Grandi , e a livello di politici il Duce da u n a par te , Baldwin e Hoa re dall 'altra.

Gli inglesi si dissero dappr ima disposti a cedere all'Italia Adua e Adigrat (ma n o n Axum, in quan to era la città santa degli abissini), inoltre la Dancalia e I 'Ogaden, in più l'Italia avrebbe ot tenuto in certa misura un monopol io economico in Etiopia, impegnandosi ad assicurare all'Etiopia u n o sboc­co al mare . Era t roppo poco pe r l 'appetito di Mussolini che

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disse di no . A quel p u n t o en t rò in scena anche Lavai. Hoare aveva lasciato l ' Inghi l terra ai pr imi di dicembre pe r trascor­rere , si disse ufficialmente, un per iodo di vacanza in Svizze­ra. Sostò invece a Parigi, dov 'era anche Vansittart, e mise a p u n t o con Lavai un p iano di pace. L'iniziativa fu resa p u b ­blica da un comunica to che par lava di «spirito di concilia­zione» e di «intima amicizia franco-britannica», aggiungen­do che il proget to sarebbe stato sottoposto al governo ingle­se e, se da esso accettato, ai governi italiano ed etiopico non­ché alla Società delle Nazioni. In base al piano l'Italia avreb­be o t tenuto dall 'Etiopia, in sovranità assoluta, un terr i tor io che allargava la colonia eri trea includendovi il Tigrai orien­tale e spingendola con un cuneo fin quasi a Dessiè, e un al­tro terr i torio fra I 'Ogaden e la Somalia. Inoltre sarebbe sta­ta assegnata all 'Italia nel mer id ione del l 'Et iopia u n a vasta area di «espansione economica e di colonizzazione»: zona che tranciava prat icamente il paese seguendo l'ottavo paral­lelo (un cent ina io di ch i lometr i a sud di Addis Abeba) ed estendendosi fino al confine con il Sudan e il Kenia. L'Etio­pia avrebbe ricevuto in cambio u n o sbocco al mare , preferi­bi lmente ad Assab.

Nel governo inglese vi furono vivi contrasti ma il p i ano passò, e 1' 11 dicembre fu trasmesso a Mussolini, al Negus e a Ginevra . Addis Abeba resp inse , quasi a giro di posta, il p iano, che le imponeva sacrifici e «premiava l 'aggressore». Mussolini n o n ne e ra soddisfatto - Aloisi ha scritto che lo trovò «assai cattivo» - ma pareva disposto ad accettarlo al­meno come base di discussione. Sembra t ra l 'altro che Lavai si fosse t enu to in conta t to telefonico con Palazzo Venezia, du ran te la redazione della proposta . La perplessità di Mus­solini e ra accresciuta dalla disparità di parer i che egli anda­va raccogl iendo tra i «vertici» civili e militari. Con t ra r io al compromesso era Badoglio, e «pour cause». Da poco arriva­to al Q u a r t i e r gene ra le , dove stava p r e p a r a n d o la «sua» gue r r a , si sa rebbe senti to de f rauda to della gloria mil i tare che dalla conquista dell 'Etiopia si r ipromet teva . La g u e r r a

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L'assetto dell'Etiopia secondo il Piano Laval-Hoare

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«totale» trovava oggi il p iù r isoluto fautore nell 'avversario di ieri. Con t ra r i e r a n o anche alcuni ambient i fascisti. Così Lessona riferisce di aver sugger i to al Duce «che bisognava contenersi in manie ra da n o n appar i r e noi a rifiutarlo, ma che accettarlo n o n sarebbe stato conveniente».

Favorevole invece al l 'accoglimento e ra il minis t ro della Stampa e p r o p a g a n d a Galeazzo Ciano, che risentiva proba­bilmente degli umor i del ministero degli Esteri, con il quale man teneva assidui contatt i . I diplomatici «tifavano» infatti p e r i l p i ano , secondo il r a g i o n a m e n t o giolit t iano che esso dava «parecchio» all'Italia, senza alcun sacrificio o rischio. Il Duce aveva già deciso di r i spondere , se n o n con un sì netto, a lmeno con un «sì, ma...». Poiché la soluzione n o n e ra tale da a p p a g a r e le fantasie, e da alzare u l t e r io rmente il piedi­stallo di trionfi di Mussolini , quest i volle d iv ide rne la r e ­sponsabilità, una volta tanto, con il Gran Consiglio del fasci­smo, che pe r l'occasione gli tornava utile. E lo convocò pe r il 18 d icembre , p r e d i s p o n e n d o anche il comunica to che, a Consiglio concluso, sarebbe stato d i ramato: comunicato che avrebbe cons idera to «le p ropos te in paro la come possibile base di discussione, lasciando al governo di formulare le ri­serve necessarie a salvaguardare i diritti della Nazione».

Ma il varo del p i ano incon t rava difficoltà insuperabi l i p ropr io in casa di chi se ne era fatto p romoto re . Eden, a Gi­nevra, sabotava sostanzialmente l'azione di Hoare , tanto che si poteva facilmente p revede re che la Società delle Nazioni avrebbe votato contro la formula adottata: questo benché il segre tar io genera le della Lega Avenol r i tenesse persona l ­m e n t e che i l p i ano e ra «sostanzialmente equo». U n a indi­screzione giornalistica francese, dovuta a M a d a m e Tabouis e a Pertinax, commenta to r i politici accani tamente «societa­ri» e antifascisti, mise il m o n d o , e in part icolare l ' Inghilter­ra, al cor ren te di tutti i particolari del proget to Laval-Hoa­re . Il min is t ro degli Esteri b r i t ann ico si t rovò al cen t ro di u n a bufera politica di violenza impress ionante . Tuttavia la sedu ta del G r a n Consiglio cominciò r e g o l a r m e n t e . Poche

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ore p r ima , p a r l a n d o alla i nauguraz ione di Pontinia (dopo Littoria e Sabaudia la terza città creata sull'«agro redento»), Mussolini aveva ribadito che «il Regime tirerà diritto». U n a frase ad effetto che copriva la p ropens ione p e r un accordo tut to sommato abbastanza vantaggioso, soprat tut to se fosse stato possibile migliorarlo u l ter iormente .

Nella discussione del G r a n Consiglio la magg io ranza si dichiarò pe r l 'accettazione del p iano Hoare-Laval . Partico­la rmente esplicito in proposi to fu Alberto De Stefani. Con­t rar io , come al solito, l 'oltranzista Farinacci. Il Duce aveva fatto p r ecede re i l dibatt i to da u n a esposizione neu t ra , che presentava i p r ò e i contro imparzialmente, nello stile di un magis t ra to br i tannico. N o n si arr ivò a risoluzioni di sorta, né alla e m a n a z i o n e del comunica to , p e r c h é i n t o r n o alla mezzanot te Grand i comunicò da L o n d r a che H o a r e s i e ra dimesso. Baldwin, che p u r e aveva par tecipato alla elabora­zione del p roge t to , si e ra disfatto del ministro degli Esteri, d ivenuto ingombrante , e lo aveva sostituito con Eden, il di­fensore della Società delle Nazioni. Mussolini fu così costret­to a lasciar c a d e r e la spe ranza di vincere la g u e r r a senza combatterla. Secondo Lessona egli e ra soddisfatto pe r il fal­l imento del p iano . «Il Negus e l ' Inghi l te r ra ci h a n n o tolto d'imbarazzo» disse al sottosegretario alle Colonie. Ma pote­va essere u n a soddisfazione di manie ra . I l Duce e ra domi­nato da un incubo: l 'estensione delle sanzioni al petrolio.

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C A P I T O L O N O N O

LA GUERRA DI BADOGLIO

Ai p r imi di d icembre , q u a n d o Badoglio prese in p u g n o le redini della guer ra , n o n era ancora avvenuto i l contatto tra il corpo di spedizione italiano e il grosso dell 'esercito abissi­no. Meglio così, e il maresciallo lo sapeva perfet tamente. Lo schieramento delle sue t ruppe , come si era venuto determi­nando , era squilibrato e vulnerabile: doveva essere rettifica­to d 'urgenza. Per farlo, e pe r n o n essere più «per aria come siamo ora», secondo l 'espressione curiosa che usò in un te­l egramma a Mussolini, gli occorreva u n a sosta piuttosto lun­ga. Era facile, a quel p u n t o , addossare le colpe a De Bono, che tut tavia , b i sogna r iconoscergl ielo, aveva p rospe t t a to , senza o t t ene re soddisfazione, le stesse difficoltà e le stesse esigenze che o ra affacciava Badogl io . Ma il Duce lo aveva costretto a quel balzo su Macallè che aveva allungato il fron­te, inserendovi un profondo cuneo, e che aveva scoperto il fianco des t ro , al cui r ipa ro e r ano il Tembien e la r iconqui­stata Adua.

Il maresciallo aveva posto il suo Quar t ie r generale a En-da Jesus di Macallè, in prossimità del fortino Galliano. Era, i l suo, un c o m a n d o a t t enda to , «austero», ma anche mol to articolato, con un ufficio politico e un centro pe r i giornali­sti: questi ultimi, tenuti a lquanto alla larga, a lmeno in quel­le p r i m e se t t imane in cui c 'era poco da dirgli , e Badogl io era di u m o r e scontroso. Col maresciallo, lo «stile» del Quar ­tier generale era cambiato. De Bono aveva dato all'azione di c o m a n d o u n a impron t a politica e paternalistica, «governa­toriale». Il vecchio Q u a d r u m v i r o si e r a sforzato di sottoli­neare il carat tere fascista e quello civilizzatore della guer ra :

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per scrupoli umani ta r i aveva prescri t to all 'aviazione di col­pi re solo gli accampament i e le t r u p p e in movimento , non i centr i abitati e le t o rme di fuggiaschi. Il maresciallo o p e r ò da tecnico e da professionista, senza crudeltà inutili, ma an­che senza alcuna esitazione.

N a t u r a l m e n t e dove t te lui p u r e ada t ta rs i alle necessità della p ropaganda , e far buon viso ai personaggi ingombran­ti che dall 'Italia gli p iombavano nel teatro di operazioni per eserci tare u n a funzione di r a p p r e s e n t a n z a o p e r arraffare u n a medaglia al valore, qualche volta meritata, e molte vol­te no . I l Duca di Bergamo era v ice-comandante della divi­sione Gran Sasso, il Duca di Pistoia assunse il comando del­le camicie ne re della 23 Marzo, il senatore Suardo , Galeazzo Ciano, Farinacci, Bottai, Scorza, Piero Parini, Dolfin, Casini, i figli di Mussolini Vittorio e B r u n o , l 'accademico e poe ta futurista Marinett i - che candidamente si presentò al Quar -tier genera le avendo p e r tut to bagaglio u n a borsa da avvo­cato - a r r iva rono in Africa pe r «dare l 'esempio». Più tardi un professore di latino volle esaltare le gesta dei familiari di Mussolini in un b rano di versione pe r le scuole medie infe­r ior i che - ci t iamo da La Guerra di Abissinia di Angelo Del Boca - recava testualmente: «Digni qui l auden tu r sunt Bru­no et Victorio Ducis f i l i i , qui cum adminis t ro G. Ciano au-dacter hos t ium p r o p u g n a c u l a demoli t i sunt, etc. e t c» , pe r dire insomma che i Mussolini e Ciano e rano valorosi aviato­ri, e dis truggevano postazioni nemiche.

Ma, concesso al mito fascista e imperiale ciò che non po­teva essergli negato, Badoglio ebbe un solo obbiettivo: accu­mulare tanti mezzi e tante forze da po te r r ap idamente sgo­minar le a rma te del Negus , q u a n d o fosse arr ivata l 'ora dei g randi scontri.

Modif icando la r ipar t i z ione delle forze disposta da De B o n o , c reò i l te rzo C o r p o d ' a r m a t a (da a g g i u n g e r e a i t re esistenti), che fu dislocato, insieme al p r imo, a sud di Macal­lè. I l secondo C o r p o d ' a r m a t a p ro t eggeva i l se t tore Adua-Axum, sul fianco destro, al centro la divisione Gavina-

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na «copriva» il Tembien. Il Corpo d ' a rmata er i t reo, a ovest di Macallè, era, secondo le parole di Badoglio, «non vinco­lato ad alcuna posizione e p ron to alla manovra». Infine due divisioni di camicie ne re in arrivo dall 'Italia e rano destinate alla riserva, a disposizione del comando superiore . In totale nove divisioni nazionali e d u e er i t ree sull 'altopiano: a Gra-ziani, in Somalia, veniva lasciato un ruo lo minore , e infatti le disposizioni che Badoglio gli aveva inviato, cont rar iando­lo n o n poco, par lavano di «difensiva molto attiva pe r attrar­re e man tene re nello scacchiere somalo il maggior n u m e r o di forze nemiche».

Il 15 d icembre forti avanguard ie de l l ' a rmata di ras Im-mirù giunsero al f iume Tacazzè, pattugliato da bande indi­gene al comando di ufficiali italiani. Le t r u p p e di Immi rù si e r ano mosse, in b u o n a pa r t e , dalla reg ione di Debra Mar-cos, mille chilometri lontano, e avevano subito, cammin fa­cendo, bombardamen t i e mitragliamenti aerei. Per di più le avevano assottigliate le defezioni. Ma e ra p u r s e m p r e u n a massa di qualche decina di migliaia di uomini quella che si faceva sotto.

U n a sua co lonna riuscì a i m p a d r o n i r s i della s t re t ta di Dembeguinà , p u n t o obbligato di passaggio pe r chi dal Ta­cazzè volesse apr i rs i il varco verso lo Scirè, le posizioni di Selaclacà, e q u i n d i A x u m e Adua . Gli ascari del « g r u p p o bande», che e rano al comando del maggiore Criniti, rischia­rono di restare intrappolati . Tre carri L3 - di quel tipo cioè che aveva mer i t a to , p e r la sua fragilità, i l s o p r a n n o m e di «scatole di sardine» - n o n riuscirono a r o m p e r e l'accerchia­mento , e gli ascari dovet tero impegnars i in furiosi assalti an­che alla baionetta per sfuggire alla tagliola. Ma avevano per­du to , t ra mor t i e feriti, 9 ufficiali, 22 soldati nazionali, 370 er i t rei . L'episodio i r r i tò p r o f o n d a m e n t e Badogl io , e nello stesso t e m p o lo p reoccupò . «Era p u r sempre un nostro in­successo» for temente vantato dagli abissini e p r o p a g a n d a t o dalla s tampa internazionale: e del ineava un possibile aggi­ramento del f ianco destro. Per di più questo non era l 'unico

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sintomo del risveglio etiopico. Anche le t r u p p e di ras Cassa arrivavano, nel Tembien, a rafforzare quelle di ras Sejum, e i repar t i di ras Mulughietà si avvicinavano a Macallè.

Badoglio r i teneva improbabile che i comandant i etiopici, divisi da rivalità, sprovvisti di u n a chiara visione del fronte nella sua interezza, potessero avere in men te un piano stra­tegico globale: come quel lo ad e sempio di i nch ioda re i l grosso del corpo di spedizione italiano a Macallè e in tanto s fondare verso A d u a e l 'Eri t rea. Tra l 'altro t ra i l Q u a r t i e r gene ra l e dei vari ras i co l legament i e r a n o incert i : ras Im-mirù n o n riuscì mai ad avere un servizio radio efficiente, e le notizie gli g iungevano a distanza di sett imane. In ogni ca­so Badoglio n o n voleva sorprese . «Lo sch ie ramento a cor­d o n e che il nemico aveva assunto mi aveva obbligato - ha scritto - ad adot ta re u n o schieramento analogo. In tal mo­do le t r u p p e giudicate in un p r imo t empo necessarie e suffi­cienti pe r c o n d u r r e la g u e r r a f inirono pe r risultare insuffi­cienti.» Egli decise pe r t an to di accorciare alcuni settori del fronte, anche a b b a n d o n a n d o t e m p o r a n e a m e n t e posizioni impor tan t i - come quella di Selaclacà - e di chiedere a Ro­ma d u e altre divisioni. Mussolini acconsentì immedia tamen­te, e inol t re ne offrì u n a terza, che Badogl io accettò senza es i tare , p u r s a p e n d o che questa generos i tà del Duce nel p rofondere uomini e mezzi sott intendeva il desiderio di u n a p r o n t a offensiva. C o n t r o ques to Badoglio che n o n solo se­gnava il passo, ma si faceva togliere qualche fetta dei terr i­tori conquistati da De Bono, Mussolini aveva scatti di malu­more che il suo «entourage» (in particolare Baistrocchi, ami­co di Graziani) n o n mancava di attizzare. Propr io pe r placa­re le impazienze del Duce Badoglio gli telegrafava, d u r a n t e quel «periodo nero», che «è sempre stata mia n o r m a essere meticoloso nella p r e p a r a z i o n e p e r p o t e r essere i r r u e n t o nell'azione».

Ai pr imi di gennaio del 1936, dopo d u e mesi di stasi del­le operazioni , Badoglio aveva u n a g ran voglia di «togliersi dallo stomaco» i l peso del l 'Amba A r a d a m , della qua le da

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Macallè poteva vedere i l profilo massiccio, cu lminante n o n in una vetta, ma in un p ianoro . Senonché l'attività delle ar­ma te di ras Cassa - cui il Negus aveva affidato il c o m a n d o s u p r e m o del suo esercito nel n o r d - e di ras Sejum verso il Tembien lo convinse a cambiare idea. Segnalò a Mussolini che era costretto a sospendere la proget ta ta offensiva a sud di Macallè, e mise a p u n t o il p iano di quella che fu poi da lui stesso definita «la p r ima battaglia del Tembien». La mi­naccia che Badogl io avvertiva e ra analoga a quella che gli veniva da ras Immirù : u n o sfondamento verso l 'Eritrea e un agg i r amen to delle nos t re posizioni. Nel caso di I m m i r ù i l pericolo si del ineava alla es t rema dest ra dello schieramen­to; nel caso del Tembien , si profilava invece u n a m a n o v r a avversaria che spezzasse in d u e il fronte italiano, vi creasse un varco, at traverso il passo Uar ieu e il passo Abarò, verso le re t rovie , e insidiasse da tergo Macallè da u n a p a r t e , e Adua dall 'altra.

Ques to disegno era s icuramente sproporz ionato , se non alle ambizioni, certo alle possibilità abissine. Ma ancora una volta Badoglio volle evitare ogni rischio, e si risolse a p ren ­de re in con t rop iede ras Cassa e ras Sejum, scagliando con­t ro di loro t re forti co lonne . Nello stesso t e m p o ras Mulu-ghietà e ras I m m i r ù avrebbero dovuto essere impegna t i in operazioni diversive, così da evitare che inviassero dalle ali rinforzi al cent ro dello schieramento abissino. La manovra i tal iana doveva far p e r n o sulle posizioni di passo Uar i eu dalle quali u n a co lonna si sa rebbe mossa verso Abbi Addi «quel tan to che e ra necessar io p e r l 'assolvimento del suo compito dimostrat ivo, ma senza co r re re i l rischio di essere staccata dal passo». La citazione è di Badoglio che la volle in corsivo, nel suo libro sulla gue r r a d'Etiopia, i n t endendo di­most rare che la mancata esecuzione di questi precett i aveva compromesso l'esito della battaglia.

Il 19 gennaio, come premessa all'attacco, il neo-costituito I I I Co rpo d 'a rmata di Bastico usciva dalle posizioni di Ma­callè e penet rava nel p u n t o di giunzione tra le a rmate di ras

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Mulughietà e di ras Cassa. Il 20 le t re colonne del Tembien davano corso alla prevista avanzata, che incontrava resisten­za, ma raggiungeva i suoi pr imi obbiettivi. Il 21 gennaio so­pravveniva l ' incidente che segnò, pe r Badoglio, i l m o m e n t o pegg io re della c a m p a g n a . La co lonna che e ra uscita dal c a m p o t r incera to di passo Uar ieu , formata da militi al co­m a n d o del generale Diamanti , s i e ra spinta t roppo innanzi . Le t r u p p e di ras Sejum l 'avevano p resa in u n a morsa alla quale si era potu ta sot t rarre solo p e r d e n d o 355 uomini , t ra mort i e feriti, e t o r n a n d o alle posizioni del passo, tenute dal­la divisione 28 Ot tobre . Ma la fortunata azione aveva imbal­danzi to gli etiopici, che si e r ano but ta t i sulle fortificazioni, ed avevano costre t to i militi a r ip iegare dai t r i nce ramen t i periferici. Dal Quar t ie r generale del Negus veniva d i ramato un bol le t t ino tr ionfale , che annunc i ava l ' a n n i e n t a m e n t o della co lonna Diamant i e della divisione 28 Ot tobre , non ­ché la cat tura di 29 cannoni , 175 mitragliatrici e 2.654 fuci­li. Erano le consuete esagerazioni dei fantasiosi comunicat i d i Addis Abeba. La 28 O t t o b r e era assediata, ma teneva , rifornita anche con aviolanci. La seconda divisione eri trea, che avrebbe po tu to accorrere in difesa del presidio di passo Uar ieu , si e r a mossa in r i t a rdo . Scarseggiava, a passo Ua­rieu, l 'acqua. Gli attaccanti p r emevano guidati dai d u e figli di ras Cassa, Averrà e Uonduosse . Un cappel lano, il dome­n icano Reg ina ldo Giul iani , fu ucciso con u n a sciabolata, m e n t r e dava l 'estrema unzione a un moren te , d u r a n t e u n o dei t r emend i corpo a corpo di quelle giornate.

Badoglio, da Enda Jesus , seguiva le sorti della battaglia con preoccupazione, in qualche m o m e n t o con angoscia. Di­spose le misure affinché i difensori del passo fossero soccor­si, ma nello stesso t e m p o o r d i n ò «lo s tudio delle modal i tà da seguire p e r u n a eventua le r i t i ra ta da Macallè». Ques to pe rché «pensare al peggio e p repa ra r s i a fronteggiarlo e a dominar lo è da forti». La notte dal 23 al 24 gennaio il mare ­sciallo n o n dormì . «Rimase tut ta la notte nella t enda del co­m a n d o - ha r icorda to Paolo Monelli - accanto al telefono.

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Seduto sopra u n o sgabello, il cappot to indosso, la mantelli­na sulle ginocchia come una coperta . Ascoltava mu to le ra re comunicazioni, il viso impietri to nella luce c ruda della lam­pada a incandescenza. Ogni tanto dettava un ord ine . Tut ta la notte non si mosse, n o n chiese un caffè, non disse u n a pa­rola che n o n fossero quei brevi o rd in i , quelle d o m a n d e al telefono. Q u a n d o sull 'alba giunse la notizia che aspettava, l 'ombra di un sorriso gli distese il volto.» La crisi e ra stata superata , u n a colonna al comando del generale Vaccarisi si era r icongiunta con la guarnig ione di passo Uarieu, la pres­sione nemica andava calando. Badoglio sostenne che la bat­taglia era stata vinta da lui «perché era riuscito a p reveni re e a s t roncare l'offensiva dell 'avversario». Senonché Bado­glio e ra in Africa n o n p e r imped i re conquiste abissine, ma per conquistare l'Abissinia, e sapeva che questo tipo di vitto­rie a Mussolini non poteva piacere.

Il comandan te etiopico ras Cassa spiegò a posteriori la sua r inuncia al p rosegu imen to della offensiva con l 'uso dei gas tossici, e in particolare dell ' iprite, un terribile vescicante, da par te degli italiani. Su questo a rgomento crediamo possano essere det te alcune cose non controverse. In alcune occasio­ni gl'italiani fecero uso dei gas. Lo ha ammesso, sia p u r e a scopo r idut t ivo, Lessona, secondo il quale il genera le Gra-ziani decise di far sganciare, pe r intimidazione e pe r diritto di rappresaglia, «tre, dico tre, piccole bombe a gas sul cam­po nemico teatro di tanta ferocia». La ferocia era stata eser­citata sullo sventurato pilota Minniti che gli abissini avevano cat turato sul fronte somalo, e quindi ucciso, decapitato, mu­tilato. La sua testa fu po r t a t a in segno di macabro tr ionfo pe r la regione (scempio analogo, con tor ture ed evirazioni, fu riservato ad altri prigionieri) . Dell 'uso dei gas in misura assai più consistente di quella indicata dal Lessona fa cenno un volume ufficiale italiano nel quale si attesta che 5 aerei del fronte somalo lanciarono «kg 1.700 gas». Mussolini stes­so, a Graziani che il 16 dicembre 1935 aveva chiesto «libertà di azione» pe r i gas, rispose che autorizzava il loro impiego

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«nel caso V.E. lo r i tenga necessario pe r sup reme ragioni di­fesa». I gas furono usati dagl'italiani, così come le pallottole esplosive «dum-dum» furono usate dagli abissini. Né l 'una né l 'altra di queste ba rba re a rmi fu adot ta ta su tale scala, e con tale frequenza, da aver po tu to sensibilmente modificare il corso del conflitto: questo è tanto vero che molti combat­tenti italiani po te rono negare in perfetta buona fede che ai gas si fosse fatto ricorso.

La p r ima battaglia del Tembien era stata du ra : lo era stata pe r gli abissini (ottomila uomini fuori combat t imento, quasi nessuna residua scorta di viveri e di munizioni) e lo era sta­ta anche pe r il corpo di spedizione italiano: t ra mort i e feri­ti 60 ufficiali, 605 nazionali, 417 eritrei. Badoglio r iconobbe che le t r u p p e del Negus avevano combat tu to «con valore e accanimento». Ma aveva anche po tu to constatare che le ar­mate etiopiche n o n formavano un vero esercito, perché i ras erano invidiosi l 'uno dell 'altro. Mulughietà n o n riconosceva la supremazia di ras Cassa e gli rifiutava rinforzi: cosicché il Negus era stato costret to a inviarli, i rinforzi che ras Cassa invocava, da Q u o r a m , a sei g iorni di marcia , m e n t r e dal­l 'Amba Aradam sarebbero giunti in poche ore . Badoglio si sentiva d u n q u e rassicurato, anche se le forze che lo fronteg­giavano e r a n o s e m p r e consistent i : 80 mila u o m i n i di ras Mulughie tà , 30 mila di ras Cassa e ras Sejum nel Tembien - già le loro a r m a t e si e r a n o fo r t emente r ido t te - 30 o 40 mila di ras I m m i r ù nello Scirè, 15 o ventimila uomini nella zona del lago Ascianghi. In tutto, quasi 200 mila armati e in più u n a riserva a disposizione del Negus , ma lontanissima, dislocata tra Dessiè e Addis Abeba.

A questo p u n t o Badoglio poteva finalmente passare al­l'offensiva, e l iberarsi di quel l ' incubo che e ra l 'Amba Ara­dam: fortilizio naturale largo otto chilometri e profondo tre. Il 9 febbraio egli convocò, inconsuetamente , i giornalisti, e spiegò loro i l p i ano di quel la che sarebbe stata definita la «battaglia dell 'Endertà». «Ho deciso - disse secondo il reso-

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conto di quello scrupoloso cronista che fu Cesco Tomaselli -di da r battaglia al ras Mulughie tà . Domani , luned ì 10 feb­bra io , i l p r i m o C o r p o d ' a r m a t a inizierà un mov imen to in avanti p e r p r e n d e r e u n a linea a sud del l 'a t tuale. Dopodo­mani tanto il p r i m o Corpo quan to il terzo avanzeranno su due colonne pe r r icongiungersi ad Antalò, a sud del massic­cio de l l 'Aradam. La cosa sarà grossa, anzi grossissima. Io muoverò u n a massa di settantamila uomini.» Per fiaccare il mora le degli abissini fu rovesciato su di loro, da d u e c e n t o pezzi di artiglieria, un u ragano di proiettili, m e n t r e 170 ae­rei bombardavano dal cielo. Badoglio seguiva l 'avanzata da un osservatorio sull 'Amba Ghedem, fumando , e sventolan­do, come p e r distrarsi, uno scacciamosche dai crini bianchi. Così lo descrisse Marinetti : «forte, un po ' curvo come un an­tico arco / di gue r r a o meglio come u n a delle sue / balestre d ' au toca r ro il marescial lo Badogl io / a g g u a n t a nella lente del suo canocchiale / tutta la sua battaglia».

La reazione di ras Mulughietà fu incerta, quasi smarri ta . L'inferno di fuoco lo aveva sconvolto, e i contrattacchi furo­no sporadici e disordinati . Il Negus, che aveva saputo della offensiva il giorno 11, tento di i n d u r r e ras Cassa a soccorre­re ras Mulughie tà , ma l 'ordine giunse a dest inazione, o al­m e n o così fu de t to , solo il 15 febbraio, q u a n d o il minis t ro della G u e r r a aveva già dato l 'ordine di ritirata alle sue t rup­pe . Il favore tra ras era stato ricambiato. Il grosso dell 'arma­ta di ras Mulughie tà sfuggì a l l ' accerchiamento . L 'onore di issare il tr icolore sulla vetta fu, pe r ragioni poli t ico-propa­gandis t iche , concesso alle camicie n e r e della divisione 23 Marzo, anziché agli alpini della Pusteria, che se ne risentiro­no, e n o n lo nascosero. In u n o dei combatt imenti dei giorni precedent i aveva meri ta to u n a medaglia d 'argento Giusep­pe Bottai.

Nel r ip iegamento , l 'a rmata di ras Mulughie tà si sbandò paurosamente pe r le incursioni incessanti dell 'aviazione ita­liana, cui e ra stato affidato lo s f ru t tamento del successo, e per gli attacchi alle spalle dei guerr igl ier i Azebò Galla, tra-

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dizionali nemici degli scioani domina tor i , che n o n davano t regua ai fuggiaschi. Un figlio di ras Mulughietà fu ucciso e mut i la to da loro: la castrazione dei nemici r i en t rava nello stile di g u e r r a di queste b a n d e . Il ras, che e ra t o rna to alla re t roguardia pe r scagliarsi contro gli Azebò Galla e vendica­re il figlio, fu colpito e ucciso, non si sa se dalla raffica di mi­tragliatrice di un cacciabombardiere o dai guerr igl ier i . Le t r u p p e di Badoglio avevano dovuto registrare circa 800 tra morti e feriti, le perd i te degli abissini assommarono a circa ventimila uomini . In pratica, l 'armata di ras Mulughietà, co­me uni tà organica - anche nei limiti in cui questo t e rmine r imane valido pe r l'esercito del Negus - n o n esisteva più.

Ora Badoglio doveva regolare, d o p o il conto con ras Mu­lughietà, anche il conto con ras Cassa e ras Sejum, che nella p r ima battaglia del Tembien gli avevano procura to non po­che ansie. Ma la seconda battaglia del Tembien sarebbe sta­ta, nello stesso t empo , la p r ima fase di un disegno a larghis­simo raggio s t ra tegico, che doveva d i s t rugge re l 'esercito abissino. Ras Cassa e ras Sejum, avuta notizia, sia p u r e in ri­tardo, della disfatta di ras Mulughietà, sentivano incombere l'attacco italiano. A ras Cassa si presentavano - ed egli le ave­va prospet ta te al Negus in u n a serie di comunicazioni radio che il nostro servizio d' intercettazione e decrittazione capta­va r ego l a rmen te - t re possibilità. O p r o c e d e r e verso n o r d ovest, t e n t a n d o di congiungers i alle forze di ras I m m i r ù ; o r ipiegare a sud est, t en tando di aggregarsi a ciò che restava della a rmata di ras Mulughietà; o restare sul posto, e resiste­re. In realtà i soldati di ras Cassa e di ras Sejum n o n avevano più scampo. N o n a p p e n a si e ra conclusa la conquis ta del­l'Amba Aradam il terzo Corpo d 'a rmata era stato spostato -grazie anche al l 'apertura di una pista di 80 chilometri - nel­la imperv ia r eg ione di Gaela: ossia alle spalle delle forze abissine del Tembien , che avevano davant i a loro il C o r p o d 'a rmata er i t reo.

Il Negus consigliava comunque a ras Cassa di unirsi a ras Mulugh ie tà : e nel lo stesso dispaccio a n n u n c i a v a che dal

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Quar t ie r generale di Dessiè si era mosso verso nord , proba­bilmente nella speranza di r ecupera re e r iord inare in qual­che m o d o gli u o m i n i di ras Mulugh ie t à . Gli abissini del Tembien si difesero con valore , e a t t accarono con g r a n d e sprezzo del per ico lo , favoriti da un t e r r e n o i r to d i picchi scoscesi: come quella Amba Uorc che 150 rocciatori dovet­tero raggiungere con un 'audace scalata no t turna . Ma la sor­te delle t r u p p e di ras Cassa era segnata, e il 29 l 'armata dei d u e ras e r a ann ien ta t a , con p e r d i t e m i n i m e del c o r p o di spedizione - m e n o di 600 uomin i t ra mor t i e feriti - gravi dell 'avversario, a lmeno ottomila uomini . Anche pe r questa a rmata vale (e var rà pe r quella di ras Immirù) quan to si e ra osservato p e r quella di ras Mulugh ie tà : u n a volta ba t tu ta , u n a g rande uni tà abissina entrava in decomposizione, per­ché i suoi soldati e r ano sollecitati da un solo desiderio, il ri­torno al paese d 'origine, e 51 trasformavano in sbandati .

Ora , alla fine di febbraio, l ' intero fronte era in movimen­to. I l p r i m o C o r p o d ' a rma ta , supe ra t a l 'Amba A r a d a m , s i era mosso verso l'Amba Alagi, senza incontrare alcuna resi­stenza, e il g iorno 28 il tricolore vi sventolava. Il 29 febbraio il secondo Corpo d 'a rmata del generale Maravigna, e il neo costituito quinto Corpo del generale Babbini, sostenevano a loro volta la battaglia dello Scirè cont ro ras Immi rù . Bado­glio aveva d u n q u e in quel momen to cinque Corpi d ' a rmata in azione, 250 mila uomini , il che esigeva u n o sforzo colos­sale della In tendenza .

L'offensiva nello Scirè era anch'essa coronata da succes­so: o rmai n o n poteva essere al t r imenti . Ma subiva contrat­tempi che quella del l 'Ender tà e la seconda del Tembien n o n avevano dovu to l amen ta r e . U n a co lonna fu p resa t ra d u e fuochi da repar t i abissini anche perché , come ha scritto Ba­doglio, non era stata adot ta ta alcuna part icolare misura di sicurezza «la quale invece, t ra t tandos i di un nemico estre­m a m e n t e mobile e specia lmente abile nelle imboscate , sa­rebbe stata assai o p p o r t u n a » . Nei feroci co rpo a co rpo gli etiopici d imos t r a rono un valore eccezionale, l 'avanzata ne

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La battaglia dello Scirè

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fu r i ta rda ta , le pe rd i t e italiane furono a n o r m a l m e n t e alte - quasi mille nazional i t ra mor t i e feriti - ma il 3 marzo il grosso del l 'armata di ras Immirù , p u r sfuggito all'accerchia­mento , si ritirava sempre più disordinatamente , to rmenta to dall 'aviazione e, secondo le fonti etiopiche, anche dai gas.

Liquidato I m m i r ù , Badoglio trovava spalancate davant i a sé le por te dell 'Etiopia, t ranne quelle della capitale, anco­ra difesa dalle ult ime t r u p p e del Negus . Colonne celeri ve­nivano sguinzagliate verso i capiluogo delle regioni setten­trionali. U n a di esse, al c o m a n d o del segretario del par t i to Starace, aveva pun t a to su Gondar : operaz ione che Starace condusse con quel coraggio che nessuno gli ha mai negato, ma che fu u n a passeggia ta mil i tare , se si cons ide ra che la conquista della città, e i successivi d u e mesi di scaramucce, richiesero un tr ibuto di sangue di nove mort i e nove feriti. Hailé Selassié e ra d i spera to , e in u n a le t tera che cadde in mano italiana affermava che «il nostro esercito famoso pe r il suo valore ha p e r d u t o il suo nome , condot to alla rovina da alcuni traditori», che ras Cassa e ras Sejum «sono con noi ma non h a n n o con loro alcun armato», e che infine ras I m m i r ù avrebbe dovuto «venire qui a mor i re insieme a noi».

Badoglio in compenso era raggiante , aveva po tu to da re a Mussolini, in coincidenza con il quaran tes imo anniversa­rio di Adua - che ricorreva il p r imo marzo - l 'Amba Alagi, e poteva dichiarare ai giornalisti che «il nemico ha subito u n a tale sconfitta da p e r d e r e perf ino, cosa inaudi ta nella storia militare etiopica, ogni velleità di combattere».

Sul fronte somalo, Rodolfo Graziani aveva dovuto adattarsi, lo sappiamo, a un ruolo minore . Badoglio gli aveva prescrit­to di limitarsi a impegnare il nemico. Disponeva di una sola divisione naz ionale , la Pelor i tana, ed e r a f ronteggia to da t r u p p e cons idera te t ra le migl ior i del l 'eserci to et iopico. Quaran tami la uomini e rano r aggruppa t i nel l 'a rmata di ras Desta Damtu, che aveva sposato la pr imogeni ta di Hailé Se­lassié, Tananye Uork; altri t rentamila e rano agli ordini del

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degiac Nasibù Zamanuel , giovane e, pe r lo s tandard etiopi­co, par t icolarmente p repara to , al cui fianco era il consiglie­re turco Wehib Pascià. Infine 10 mila venivano raduna t i dal degiac Amdé Micael. Ras Desta ebbe pe r sua sfortuna l'am­bizione di insidiare il terr i torio somalo a Dolo. Per realizza­re questo obbiettivo r a d u n ò a Neghelli, nelle stesse settima­ne in cui anche Badoglio, al nord , era sulla difensiva, le sue t r u p p e , e mosse verso il confine, a t t raverso 400 chi lometr i di t e r r e n o a r i do e inospi tale . Fu u n a m a n o v r a disastrosa. Gli attacchi aerei, le malattie, la fame, il deserto, decimaro­no l 'armata, che arrivò esausta in vista di Dolo.

Graziani l 'at tendeva a pie fermo, n o n solo, ma aveva pre­para to - tenendosi in contat to diret to con Mussolini, e sca­va lcando sos tanzia lmente , anche se n o n fo rma lmen te , i l Quar t i e r genera le di Badoglio - u n a reazione demoli tr ice. Propr io a Dolo egli aveva allestito u n a unità di 14 mila uo­mini , con 784 mitragl iatr ici , 26 cannon i , 700 au toca r r i , 3.700 quad ruped i , a lcune decine di mezzi corazzati; e il 12 genna io la scagliò, divisa in t re co lonne - quella di cen t ro comanda ta dal genera le Bergonzoli, cui le t r u p p e d a r a n n o il s o p r a n n o m e di «barba elettrica» -, con t ro gli abissini di ras Desta. Una volta sloggiati dalle posizioni che avevano oc­cupa to a r idosso di Dolo, a t to rno alle quali era stato orga­nizzato un embr ione di servizio logistico, i soldati del Negus furono perdut i . Lottavano ormai non pe r vincere ma pe r i l cibo e soprat tut to pe r l'acqua. Il giornalista Sandro Volta ha descritto la «massa imbestialita» degli etiopici che «si but ta­vano contro la mor te certa pe r un sorso d'acqua» ed e rano «falciati dalle mitragliatrici». Il 20 gennaio Neghelli , s tron­cata ogni resistenza, era occupata senza che vi fosse sparato un colpo di fucile. Anche Graziani aveva così avuto la sua offensiva, ideata e condo t ta br i l l an temente , ma anche con schiacciante super ior i tà di mezzi. Unica nota negativa, nel successo, la defezione dì quasi mille ascari della quar ta bri­gata er i t rea , in pa r t e passati al nemico, in pa r t e sconfinati nel Kenia . Episodio n o n un ico , p e r c h é anche sul f ronte

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nord lo sciumbasci A n d o m Tesfazien, che aveva protes ta to pe r la sepo l tu ra concessa solo ai mor t i nazional i d o p o un combat t imento , ed era stato puni to , passò in campo avver­sario con cento uomini , cui se ne aggiunsero poi altri. Tesfa­zien morì d u r a n t e la guerriglia contro gli occupanti italiani tre anni dopo , nel 1939, insignito da Hailé Selassié del gra­do di generale.

Ai p r imi d i marzo , m e n t r e Badogl io m e t o d i c a m e n t e schiantava le a rma te del Negus, la gue r ra d'Etiopia passava in secondo piano, nel pano rama internazionale. Hitler ave­va deciso di «rimilitarizzare» la Renania, violando il divieto impostogli dal t ra t ta to di Versailles, e il 7 marzo le t r u p p e tedesche varcavano la linea di demarcazione tra il terri torio cui avevano legi t t imo accesso e il t e r r i to r io pro ib i to . Era , per tutta l 'Europa, un nuovo segnale d'allarme. Ma in quel m o m e n t o Mussolini, che pensava più ai suoi p rob lemi im­mediat i che n o n alle lontane prospett ive della iniziativa te­desca, ne fu tut to sommato soddisfatto. Questo diversivo di pr imaria impor tanza stornava l 'attenzione del m o n d o dalla vicenda africana, e r icordava a tutt i quale fosse, t ra le d u e di t tature, la ne ra e la b runa , la più temibile. Il Duce poteva inoltre r innovare alle grandi potenze sanzioniste, la Francia e l ' Inghil terra, i suoi ammoniment i : se avessero voluto per­severare nella loro politica punit iva verso l'Italia, o inasprir­la, l'Italia stessa n o n si sarebbe più sentita legata agli accordi di L o c a m o e di Stresa, che mi ravano a p reven i re , «conte­nendo» la Germania , il ripetersi di un conflitto franco-tede­sco. In Francia il governo Lavai era caduto . Ma il suo suc­cessore, Sarraut (con Flandin al ministero degli Esteri), n o n m u t ò la politica p r u d e n t e , e sos tanzia lmente amichevole , verso l'Italia. Q u a n d o Blum si insediò a palazzo Matignon, d o p o la vittoria del Fronte popola re , la quest ione etiopica era stata ormai risolta dalle armi.

Nella imminenza del gesto di forza tedesco in Renania , del quale Mussolini n o n era stato preavvert i to , ma che su­bodorava, pendeva sull'Italia la minaccia di un inaspr imen-

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to delle sanzioni: ed Eden si batteva pe r ot tener lo . Il Duce aveva messo le car te in tavola, con l 'ambasciatore francese De Chambrun . «Io sono sempre , e voi potete ben dirlo al si­gno r Flandin , nella l inea di Stresa... Posso assicurarvi che n o n vi è a tutt 'oggi nella sfera politica assolutamente niente fra la Germania e me . Il mio m o d o di vedere sulla Germa­nia r i m a n e e sa t t amen te quel lo che e r a l ' anno passato in apri le . Ma qualsiasi agg ravamen to delle sanzioni r iget terà necessar iamente l 'Italia in un isolamento da cui i l suo go­v e r n o avrà i l dove re imper ioso di farla uscire . Spet ta alla Francia e a l l ' Ingh i l t e r ra di n o n respingerci .» La Francia n o n res tò sorda a ques te a rgomentaz ion i . Ancor m e n o avrebbe po tu to esserlo d o p o la nuova sfida hit leriana. Pro­p r io p e r le press ioni francesi la r i u n i o n e g inevr ina , che avrebbe dovu to dec ide re un a g g r a v a m e n t o delle misu re contro l'Italia, rinviò ogni deliberazione in proposi to e si li­mitò a o r d i n a r e un u l te r io re sforzo di concil iazione tra le par t i in conflitto. Ader i rono gli etiopici e, formalmente, an­che gli italiani.

La Francia era angosciata dai s in tomi di un riavvicina­men to italo-tedesco, che era ancora psicologico, più che po­litico, ma che si delineava. Non che Hitler avesse preso riso­lu tamente par te pe r l'Italia, nella gue r ra etiopica. Anzi, f ino alla vigilia del 3 ot tobre 1935, aveva rifornito di a rmi il Ne­gus: e si capisce pe rché . Q u a n t o più la c a m p a g n a durava , tanto più i rappor t i t ra Mussolini e le potenze occidentali si deter ioravano. Nello stesso t empo diminuiva la capacità ita­l iana, mil i tare e politica, di r eag i re a un even tua le n u o v o colpo tedesco sull'Austria, e aumen tava la p ropens ione ita­liana ad appoggiarsi al di t tatore tedesco.

Propr io nel t imore di trovarsi di fronte a un d i lemma di ques to gene re , e di n o n p o t e r sfuggirgli, Mussolini consi­d e r ò f ino all 'ul t imo - anche q u a n d o Badoglio f ran tumava le supers t i t i resis tenze abissine - u n a soluzione negozia ta della guer ra . Ai pr imi di aprile egli aveva elaborato un pia­no secondo il quale i qua t t ro quint i dell 'Etiopia sa rebbero

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passati, in forma diretta o nella forma del prote t tora to e del manda to , sotto il dominio italiano: e un nucleo centrale più schiettamente scioano (un terri torio con duecento o trecen­to chilometri di raggio a t to rno ad Addis Abeba) sarebbe ri­masto formalmente ind ipenden te , ma sotto il controllo ita­liano, in u n a situazione «irakena o marocchina». Il proget ­to, s o t t e r r a n e a m e n t e fatto conoscere a Parigi e a L o n d r a , naufragò soprat tut to pe r la opposizione di Eden, la cui vo­ce, nel gove rno b r i t ann ico , de t tava o rma i legge. Si a r r ivò così alla soluzione totalitaria della campagna: quella soluzio­ne che Mussolini aveva sempre det to di volere, p u r dispo­sto, come fu chiaro in molte occasioni, a più di u n a conces­sione che «salvasse la faccia» della Società delle Nazioni.

Con assoluta tranquillità, Badoglio si apprestava ora a com­ple tare la vittoria strategica. Era così sicuro del favorevole svi luppo degli avven iment i che nella p r i m a se t t imana di marzo , d u r a n t e u n a sosta all 'Asmara, aveva det to all ' inten­den te Dall 'Ora che si preparasse ad allestire una colonna di più di mille autocarri ; quella che sarebbe servita pe r la con­quista di Addis Abeba. U n a sola prospet t iva lo inquietava: che il Negus si sottraesse all 'ultima decisiva battaglia, e con le forze di cui ancora disponeva - qualcosa di più di t renta­mila uomini , ma abbastanza bene inquadra t i ed equipaggia­ti, dal morale tut tora alto - decidesse di a r re t r a re fino a Des-siè ed oltre. Il che avrebbe costretto Badoglio a impegna re battaglia in un terr i tor io molto lon tano dalle sue basi logi­stiche, con t ro un nemico sfuggente . Ma Hai lé Selassié, ascoltati i suoi consiglieri, aveva preso u n a risoluzione con la quale mirava probabi lmente a salvare, più che il suo tro­no , il pres t ig io suo e dei suoi soldati : avrebbe accet tato il confronto, subito. Anzi, senza a t t endere che ad esso si arri­vasse pe r iniziativa italiana, lo avrebbe provocato.

Qualche centinaio di chilometri a sud di Macallè, le t rup­pe del p r imo Corpo d 'a rmata si e rano attestate su u n a linea che aveva i l suo p e r n o nel villaggio di Mai Ceu . Dopo le

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La battaglia del Lago Ascianghi

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asperità del nord , qui cominciava l 'altopiano etiopico nella sua magg io re bellezza, con più r a r e e m e n o aspre ca tene montagnose . Il 21 marzo il Negus assunse il c o m a n d o del­l 'armata, e la fece muove re verso no rd . A p p e n a informato di ques ta manovra , Badogl io t irò un resp i ro di sollievo, e telegrafò a Mussolini che la sorte del Negus «sia che attac­casse, sia che attendesse il mio attacco, era ormai decisa: egli sarebbe stato comple tamente battuto». Hailé Selassié scelse l'attacco: ma lo scelse con esitazioni e r i tardi che compromi­sero ogni sua possibilità di successo, se p u r ne aveva, del che dub i t i amo . Gli a p p r e s t a m e n t i difensivi degl ' i ta l iani - che avevano in p r i m a linea la divisione a lp ina Puster ia , e d u e divisioni er i t ree - e r ano ancora sommar i e insufficienti, le linee di r ifornimento diffìcili. Ma dal 24 marzo l'azione abis­sina fu rinviata al 28, infine al 3 1 : u n a set t imana di r i tardi du ran t e la quale le postazioni italiane si rafforzarono sensi­bi lmente. Per di più gli infidi Azebò Galla, che etiopici e ita­liani corteggiavano a suon di talleri, op ta rono , e definitiva­mente , pe r Badoglio, anche perché le casse imperiali e rano quasi vuote. Un ufficiale della guardia imperiale, disertore, po r tò nelle linee t enu te dalle nostre t re divisioni informa­zioni preziose.

Pr ima che sorgesse l'alba del 31 marzo t re colonne abissi­ne, al comando di ras Cassa, di ras Sejum e di ras Ghetacciù, mossero verso gli alpini e gli ascari. I combatt imenti , che si prot rassero pe r l ' intera giornata, furono accaniti, ma senza che mai gli abissini po tesse ro in taccare le l inee i tal iane. Qualche effimero progresso inebriava i soldati etiopici che, le spalle cariche di bot t ino, si prec ip i tavano a most rar lo ai capi. L'intervento della guardia imperiale, sei battaglioni be­ne armat i e addestrat i , n o n riuscì, n e p p u r e esso, a realizza­re un sia p u r e modesto e parziale sfondamento. La sera, dal suo Quar t ie r generale di Ajà, il Negus telegrafò al l ' Impera­trice che «le nostre t r u p p e h a n n o attaccato le forti posizioni nemiche comba t t endo senza t regua», che «i nostr i più im­por tant i e fidati soldati sono mort i o feriti» e che «le nostre

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t r u p p e pe r quanto n o n siano in g rado di svolgere un com­ba t t imen to d i t ipo e u r o p e o h a n n o sos tenuto pe r la in te ra giornata il confronto con quelle italiane». Era l 'ammissione della sconfitta.

Il 2 aprile Hailé Selassié abbandonava il suo posto di co­m a n d o di Ajà e iniziava, con i 20 mila uomini che gli restava­no, la ritirata verso il lago Ascianghi. Dietro di lui già incal­zava il Corpo d 'armata eritreo, lanciato da Badoglio all'inse­gu imen to . Ol t re che dall 'aviazione e dagli Azebò Galla, le t r u p p e abissine e rano ormai tormentate anche dalle popola­zioni locali le quali, vuoi in odio agli scioani, vuoi pe r deside­rio di rapina, si avventavano sui fuggiaschi e li depredavano. Alcuni repart i dovettero pagare un pedaggio, pe r essere au­torizzati a t ransi tare . I resti de l l ' a rmata etiopica e il Co rpo d 'armata eritreo procedet tero ad un certo p u n t o paralleli, in u n a sorta di gara di velocità. Hailé Selassié si illuse pe r un m o m e n t o di p o t e r resistere in Dessiè dove e ra i l p r inc ipe e red i ta r io Asfa Uossen con a lcune migliaia di uomin i . Ma propr io allora decise di compiere un pellegrinaggio alla città santa d i Lalibelà, p e r d e n d o qualche preziosa g iornata . Q u a n d o ne t o rnò , p e r recarsi a Dessiè, app re se che Asfa Uossen l'aveva evacuata senza combattere, e che il comando del Corpo d ' a rma ta er i t reo vi si era già insediato il g iorno 15. Il 20 aprile anche Badoglio era a Dessiè, men t r e i bran­delli del l 'armata del Negus venivano martellati dall'aviazio­ne nella loro tragica rotta, lasciando u n a scia di morti .

A Dessiè, in tutta fretta pe r n o n essere sorpreso dalla sta­gione delle g rand i piogge, il maresciallo Badoglio organiz­zava la marcia su Addis Abeba, a s sumendone personalmen­te il comando . Vi avrebbero par tecipato u n a colonna auto­carrata e d u e colonne a piedi, di protezione. La autocarrata t r a spor tava la divisione Sabauda r inforzata dalla seconda brigata eritrea, da 3 g rupp i di artiglieria di piccolo e medio calibro, da u n o squadrone di carri veloci e da repar t i del ge­nio. Repar t i er i t rei avrebbero costituito le altre d u e colon­ne, che si sarebbero mosse con anticipo su quella autocarra-

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ta, la cui pa r t enza fu disposta pe r il 26 apr i le . In tu t to 10 mila soldati nazionali e 10 mila eritrei, con 1.725 automezzi. Faceva par te della spedizione anche un congruo n u m e r o di cavalli, affinché Badoglio e le più important i personalità del suo seguito potessero e n t r a r e in Addis Abeba con la solen­nità di antichi conquistatori .

Graziani, sul fronte sud, era pungolato e amareggiato dal­le vittorie del suo super io re e rivale al no rd . Si lamentava senza tregua, con il maresciallo e con Mussolini, perché n o n gli e rano stati concessi in tempo i mezzi e gli uomini che ave­va chiesto e che, affermava, avrebbero consentito di liquidare più rapidamente l'esercito etiopico. Ad Harar, lo sapeva, era atteso dal bastone di maresciallo. Ma la preparazione di que­sta nuova offensiva si rivelava più difficile del previsto, e alla metà di aprile l'inizio delle piogge aveva complicato ulterior­mente l'organizzazione dell'avanzata. A quel pun to , pressato con il consueto tono imperioso dal Duce, esortato con blanda malizia da Badoglio, Graziani non poteva più indugiare. Tra Graziani ed Hara r si frapponeva, oltre a 500 chilometri di de­serto, anche l'ultima armata abissina che fosse ancora in pie­di, quella di ras Nasibù. Circa 30 mila uomini con 500 mitra­gliatrici e 500 cannoni di piccolo calibro, protetti da fortifica­zioni che il consigliere turco Wehib Pascià aveva fatto appron­tare secondo det tami tecnici molto razionali. Cont ro di essa erano schierati 30 mila uomini, quindicimila dei quali nazio­nali. Non una forza imponente , ma bene armata ed equipag­giata, e montata su automezzi. Q u a n d o il 15 aprile Mussolini telegrafò che, essendo imminente la presa di Dessiè, «attendo annunc io marcia su Harar» , Graziani r ibat té che era u n a «profonda ferita per lui» il sembrare «sordo ai richiami»: ma fece finalmente muovere le tre colonne comandate dai gene­rali Nasi, Frusci e Agostini. La resistenza etiopica fu da prin­cipio tenace. Cedette di schianto il 25 aprile, e la conquista di Ha ra r fu rallentata solo dalla pioggia e dal fango. Il 9 mag­gio, a mezzogiorno, avanguardie di Badoglio e avanguardie di Graziani s'incontravano a Dire Daua.

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Mentre Badoglio si avvicinava alla capitale, il Negus l'ab­bandonava , p e r rifugiarsi all 'estero, d o p o qualche velleita­rio propos i to di unirs i a ras I m m i r ù e c o n d u r r e la guer r i ­glia nel Goggiam. I 23 più alti dignitari de l l ' Impero e rano pe r l ' abbandono del paese. Alle 4,20 del d u e maggio Hailé Selassié, la famiglia, un cent inaio di digni tar i e servi (tra i notabili, ras Nasibù e Wehib Pascià che avevano abbandona­ta al suo dest ino l ' a rmata de l l 'Ogaden) p r e n d e v a n o posto su un t reno pe r Gibuti. Graziani chiese a Roma l'autorizza­zione di b o m b a r d a r e il convoglio, che gli fu negata . Con i fuggiaschi era un pr ig ion ie ro , il ras Hai lù Taclehaimanot , che comandava nel Goggiam e che il Negus aveva rimosso. A Dire Daua, dove il t reno sostò pe ixhé Hailé Selassié vole­va incontrare un amico, i l Console inglese ad H a r a r Chap-m a n Andrews , Hai lù fu l iberato o fuggì, n o n si sa bene , e corse a p rome t t e r e la sua collaborazione agl'italiani che so­praggiungevano. Prima un incrociatore inglese, poi u n a na­ve di linea, t raspor ta rono quindi l ' Impera tore detronizzato in Europa .

Ad Addis Abeba si e rano intanto scatenati la rappresaglia e il saccheggio di guerriglieri , briganti , sbandati , cont ro gli e u r o p e i e con t ro la popolaz ione in genera le . Molti edifici e rano stati incendiati , infiniti negozi depredat i , e i loro pro­prietari spesso uccisi barbaramente . Il colonnello russo Ko-novaloff ha scritto che il saccheggio fu ordinato da Hailé Se­lassié i l qua le aveva r accomanda to , d o p o avere impar t i to queste disposizioni, che fosse preservato il ghebbì imperia­le. Dis t ruggerlo «avrebbe por ta to sfortuna». Molti eu rope i e r ano rifugiati nelle legazioni francese e inglese, e l 'arrivo degli italiani veniva invocato da tutti come u n a liberazione.

Nel pomeriggio del 5 maggio Badoglio con la sua colon­na autocarra ta era in vista di Addis Abeba. Mancava ancora un paio d 'o re all ' ingresso nella capitale, ma i l maresciallo decise di inviare in quel m o m e n t o a Mussolini il messaggio fatidico: «Oggi 5 maggio alle ore 16, alla testa delle t r u p p e vittoriose, sono ent ra to in Addis Abeba». Lasciata la sua au-

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to, m o n t ò a cavallo, e così p rocede t t e sotto la pioggia fitta che bagnava i volti e inzuppava le uniformi. Il g r u p p o di ca­valieri giunse alla legazione d'Italia, dove fu issato il tricolo­re . Addis Abeba, costellata di cadaveri di assassinati, cadde senza combatt imento.

Quella sera stessa, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunc iò «al popolo italiano e al m o n d o che la gue r r a è fi­nita, che la pace è ristabilita», e fu salutato da ovazioni fervi­de e spontanee . Dieci volte il Duce dovette riaffacciarsi pe r r i sponde re alle acclamazioni, m e n t r e in ogni pa r te d'Italia altre molt i tudini esultavano. (Il discorso fu t radot to in lati­no da Nicola Festa e la frase d 'esordio «Camicie ne re della rivoluzione!» d iventò «Nigra subucula i ndu t i vos novi r e ­r u m ordinis auctores!».) Alle 22,30 del 9 maggio, con un al­t ro m e m o r a b i l e discorso, Mussolini p roc lamava l ' I m p e r o r i apparso «sui colli fatali di Roma». «Ne sarete voi degni?» chiese il Duce con una di quelle interrogazioni retor iche di cui tesseva sovente il suo dialogo con le folle. Gli rispose un formidabile «sì». Vittorio Emanuele I I I , re d'Italia e d'Alba­nia, assumeva, pe r sé e pe r i suoi successori, il titolo di Im­pera tore d'Etiopia.

Fu toccato in quei giorni il m o m e n t o più alto della para­bola politica e u m a n a di Mussolini. L'Etiopia era assai meno pacificata di quan to egli avesse d ichiara to agli italiani, e le operaz ion i di «polizia coloniale» av rebbe ro i m p e g n a t o a lungo le t r u p p e italiane. Alcuni capi, come ras I m m i r ù e ras Desta, cont inuarono la lotta con i loro clan, e ras Desta ven­ne fucilato, d o p o la cat tura, in base al pr incipio che n o n vi e r a n o più comba t t imen t i t ra eserciti , ma scontr i t ra forze regolar i e br igant i . Ma altri ras, in testa a tutt i il «minchio­ne» Sejum Mangascià, p romise ro «fedeltà e devozione» al­l 'Italia, e il loro e sempio fu segui to dal capo della chiesa copta, l 'abuna Kyrillos.

Il Negus tentava nel frat tempo di giuocare una estrema, d i spe ra ta car ta , p r e s e n t a n d o s i di pe r sona , i l 30 g iugno

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1936, all'Assemblea s t raordinar ia della Società delle Nazio­ni. Hailé Selassié indossò, pe r l 'occasione, un mantel lo ne ­ro , in tonato alla t ragedia che stava vivendo. Q u a n d o salì al­la t r i b u n a un g r u p p o di giornal is t i i taliani, forse esor ta t i dall 'alto, gli lanciò contro - un gesto vergognoso - u n a salva di fischi e di insulti , t an to che il r u m e n o Ti tulescu rivolse u n a conci tata r ichiesta al p r e s iden te Van Zeeland: «Faites taire ces sauvages». Alcuni tra i disturbatori furono poi fer­mati dalla polizia svizzera e rispediti in Italia.

Il Negus indugiò sulle «atrocità» italiane, ma poi aggiun­se che il p roblema era più vasto, che n o n r iguardava un 'ag­gressione singola, ma la sicurezza collettiva, la esistenza del­la Società delle Nazioni, la moral i tà internazionale . «Quale r isposta dovrò d a r e al mio popolo?» chiese, a conclusione del l ' in tervento. La risposta fu che la Società delle Nazioni, ossia le po t enze che ne egemonizzavano i dibatt i t i , si e r a s tancata del p r o b l e m a etiopico. La p ropos t a del Negus di una più d u r a condanna dell 'Italia fu respinta, la Gran Bre­tagna ritirò pochi giorni d o p o la Home Fleet dal Medi ter ra­neo, e il 15 luglio le sanzioni furono abolite.

Già molto p r ima (22 maggio) Badoglio aveva lasciato l'E­tiopia, cedendo la carica di Viceré a Rodolfo Graziani, cui la vittoria por tò , insieme al maresciallato, anche il titolo nobi­liare di marchese di Neghelli. Il «conto» di Badoglio fu an­cor più salato. A Mussolini, egli aveva presenta to quat t ro ri­chieste: il titolo di Duca (il Re gli conferì il ducato di Addis Abeba); il t ra t tamento economico di Viceré a vita, che gli fu accordato con u n a apposita legge; il d o n o di u n a villa (il mi­nistero della Guerra , il ministero delle Colonie e il governa­torato di Roma racimolarono a questo scopo cinque milioni, che gli furono versati in contant i , e ch'egli utilizzò pe r co­struirs i u n a lussuosa res idenza) ; la p r o m o z i o n e del f ig l io Mario, diplomatico, a ministro plenipotenziar io di seconda classe. Solo quest 'ul t ima pretesa fu respinta.

Vittorio Emanuele I I I era ansioso di attestare la sua gra­t i tudine soprat tut to a Mussolini. Come mai p r ima di allora

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- e come mai, forse, dopo - la monarchia tendeva a identifi­carsi con il fascismo. Il Duce fu insignito della g r a n croce del l 'ordine mili tare di Savoia pe rché «ministro delle Forze Armate p repa rò , condusse e vinse la più g rande gue r ra co­loniale che la storia r icordi , g u e r r a che egli, Capo del go­verno del Re, intuì e volle pe r il prestigio, la vita e la gran­dezza della pat r ia fascista». Il Re avrebbe desiderato anche conferire a Mussolini il titolo di Principe, ma Mussolini n o n volle. («Maestà, io sono stato e voglio essere solo Mussolini... Le generazioni dei Mussolini sono sempre state generazioni di contadini , e ne vado un po ' orgoglioso.») All'infuori della volontà del Re, Mussolini fu gratificato della qualifica di «Fondatore de l l ' Impero», dizione cui Starace si a t t enne da al lora in poi a n n u n c i a n d o i discorsi del Duce . E con t ro la volontà d i Vit tor io E m a n u e l e , egli r icevet te p iù t a rd i p e r del iberazione della Camera , insieme al Re stesso, i l g r a d o militare di «Primo Maresciallo del l ' Impero».

L'Italia era stret ta a t to rno al Duce, e dimenticava il «buco» finanziario aper to dai 12 miliardi che la gue r r a era costata. Modesto invece il t r ibuto di sangue. 1.304 mort i in combat­t imento e 1.009 pe r cause di servizio tra le t r u p p e nazionali, 1.600 mort i tra le t r u p p e indigene , e in più 453 opera i ca­dut i . Esponent i della vecchia classe liberale, come Vittorio E m a n u e l e O r l a n d o , socialisti esuli come A r t u r o Labr iola , intellettuali «critici» come Sem Benelli, si riconciliarono con il fascismo, o si riavvicinarono ad esso. La opposizione degli emigra t i d ivenne più difficile e più sterile, la oppos iz ione in te rna vide u l te r io rmente r idot to il pochissimo spazio che le restava, t an to che i comunis t i furono costrett i ad usa re , nella p ropaganda , tutt 'al tro tono, lanciando appelli a un af­fratellamento degli italiani: affratellamento che n o n poteva i g n o r a r e l ' emozione p r o d o t t a nel p o p o l o dalla conquis ta de l l ' Impero . L'idolatria pe r Mussolini e ra nutr i ta , a tutti i li­velli, e in tutte le classi sociali, anche di ammirazione e di af­fetto quasi senza riserve. Ma col suo b u o n senso di «reggio-

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ra» romagnola , Rachele capiva che tut to questo era t roppo bello pe r d u r a r e , ed esortava il mari to a ritirarsi a vita pri­vata. «Abbiamo avuto fin t roppa fortuna. Andiamocene alla Rocca.»

I l s u g g e r i m e n t o di Rachele e r a i n g e n u o . Mussolini s i considerava insostituibile. Nel suo disprezzo p e r i l prossi­mo, n o n intravvedeva la figura, e la s tatura, di un delfino. Le vicende d'Africa avevano rafforzato in lui la convinzione di vedere sempre giusto. E poi amava il potere , l 'applauso, il nereggiare delle folle nelle piazze, perf ino la coreografia staraciana.

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C A P I T O L O D E C I M O

LA FAVORITA

Il fonda tore de l l ' Impero , aureola to di gloria, P r imo mini­stro più potente del suo Re, ebbe da que l l ' au tunno del 1936 qualcosa che il casalingo Vittorio Emanue le I I I non aveva: u n a favorita. La vita sessuale di Mussolini e ra stata fino a quel momen to tanto intensa quanto era stata ar ida la sua vi­ta sen t imenta le . La sua concezione della famiglia e ra pa­triarcale, la sua concezione della società era, come si di reb­be oggi, maschilista. Le d o n n e n o n avevano mai conta to molto, pe r lui, n e p p u r e quelle con cui aveva man tenu to re­lazioni du ra t e anni , come Margher i ta Sarfatti. Diventato il Duce, era stato oggetto di una adorazione femminile tra l'e­statico e l'isterico. Non aveva bisogno di cercare avventure: queste gli si offrivano - a volte disinteressate, a volte no - a Palazzo Venezia, dopo un filtro di polizia. L'usciere Navarra ha lasciato un ' accu ra t a descr iz ione di questi incont r i , va­r iante quot idiana della «routine» di lavoro. Erano incontr i frettolosi, rustici, senza un minimo di conforto. Avvenivano su un lungo sedile in piet ra della sala del M a p p a m o n d o , o su un tappeto. Mussolini non aveva il palato fine, nella scel­ta delle sue conquiste, e non disdegnava le t a rdone . Se qual­cuna tra loro, illusa dalla pr ima esperienza, si faceva t roppo insis tente , p rovvedeva Bocchini a r i condur l a alla rag ione con adeguat i avvertimenti.

In questo carosello di visite si era inserita, dal 1932, an­che Claretta Petacci: ma pe r quat t ro anni gli incontri e rano stati romantico-intel le t tual i . Il Duce e Claret ta s 'e rano ca­sualmente conosciuti il 24 aprile 1932, u n a domenica, sulla s t rada p e r Ostia. Il Duce era al volante della sua Alfa Ro-

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meo rossa - era ancora il t empo in cui si compiaceva di gui­da re pe r sona lmen te e sper icolatamente l 'automobile - e si e ra vista la s t rada bloccata da u n a l u n g a limousine. I m p a ­ziente, aveva strombazzato pe r o t tenere il passo, e Claretta, r iconosciutolo, si e ra sbracciata in gesti di saluto. Claret ta Petacci era allora ventenne; u n a graziosa b r u n a dal volto vi­vace, dal seno opulento , dalle gambe snelle e diritte. Erano con lei, sulla grossa macchina gu ida ta da un autista, la so­rella Myriam di nove anni, la m a d r e Giuseppina, e il fidan­zato Riccardo Federici, t enen te del l 'aeronautica, un giova­notto prestante e serio.

Lusingato e incuriosito dallo slancio di quella bella figlio­la, Mussolini si era accostato alla vet tura dei Petacci, che ave­va frenato. Non sapeva di essersi imbat tuto in u n a ammira­trice fanatica, che gli aveva inviato lettere traboccanti di en­tusiasmo p e r i l politico e pe r l ' uomo: entus iasmo espresso anche in versi. Di questi sfoghi è probabile ch'egli non aves­se avuto n e p p u r e notizia. Ma Claretta ebbe m o d o di parlar­gliene, nei cinque minut i in cui si t r a t t ennero in conversa­zione, m e n t r e i l Federici r imaneva impala to sul l 'a t tent i . L'indomani a Palazzo Venezia Mussolini o rd inò di ricercare, nell 'archivio della corr ispondenza a lui diretta, le lettere di Claretta, e gliele fece galantemente recapitare, quasi che gli fossero state sempre vicine, e par t icolarmente care. Quindi invitò Claret ta a Palazzo Venezia. Fino al 1936 ebbero u n a ventina di colloqui, sempre brevi, sempre corrett i . All 'ado­razione della ragazza, Mussolini r i spondeva in tono pater­no , a t teggiandosi a po ten te immalinconi to dalla sua stessa potenza e solitudine.

I l p a d r e di Claretta, do t tor Francesco Saverio, appa r t e ­neva al cosiddetto «generone»: t e rmine esclusivamente ro­m a n o che stava ad indicare, nel t r amon to dello Stato della Chiesa, le famiglie «che vivevano in agiatezza, r icopr ivano uffici quasi eredi tar i nei dicasteri pontifici, possedevano una vigna e tenevano una carrozza». Il dot tor Petacci discende­va a p p u n t o da u n a famiglia di quello s tampo, ed era infatti

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medico pontificio. Aveva u n a buona clientela, e ra agiato, si piccava di divulgazione medica e infatti più tardi collaborò al Messaggero. Oltre a Claretta e a Myriam, aveva un figlio, Marcello: l 'unico Petacci che abbia scandalosamente profit­tato, p e r affari e intr ighi , della sua successiva posizione di «cognato morganatico». Ai progressi economici della fami­glia, e alla costruzione, alcuni ann i più tardi , della villa La Camilluccia a Monte Mario, Mussolini, aman te taccagno (e ques to n o n tan to p e r p r inc ip io q u a n t o p e r c h é a t t r ibuiva scarsissima importanza al denaro) non darà alcun contribu­to. Al professor Petacci quel legame spur io servirà più che altro pe r r e n d e r e più accetta e meglio retr ibui ta la sua col­laborazione giornalistica; e a Myriam, che voleva fare del ci­nema e del teatro, sarà utile pe r avere spianate le vie di u n a ca r r i e ra che , n o n o s t a n t e ques to , fu senza smal to e v e n n e troncata dalla caduta del fascismo.

Un giorno d 'ot tobre del 1936 Claretta, il cui mat r imonio con il t enen te Federici e ra stato poco for tunato , tanto che, separa ta , e ra t o rna t a in famiglia, vide d u n q u e Mussolini , nella sala del M a p p a m o n d o , pe r u n a delle o rmai consuete conversazioni . Ma il «Duce» le si fece i ncon t ro furioso, le disse come gli risultasse, grazie alle informazioni della sua o n n i p r e s e n t e polizia, che lei aveva u n a n u o v a re laz ione . «Mentre r ispettavo in voi p r ima la fanciulla e poi la sposa, voi t radivate vostro mar i to con il p r imo venuto.» Claretta, spaur i ta ma anche lusingata da questa scena di gelosia, ri­spose che e r ano ca lunnie , e come tu t te le scene di gelosia anche quella finì nel giaciglio (di p ie t ra) . Claret ta en t rava nella vita del Duce, l 'avrebbe accompagnato fino all 'ultimo passo.

La Petacci diventò da allora l'ospite fissa, quasi tutti i po­mer iggi , d e l l ' a p p a r t a m e n t o Cybo, che p r e n d e i l n o m e da un prelato cui il Palazzo Venezia era passato d o p o che il car­dinale Pietro Barbo, divenuto papa con il n o m e di Paolo I I , l'aveva lasciato incompiuto. A questo appa r t amen to si acce­deva solo attraverso un ascensore privato o dalla sala Regia.

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Sono tre locali, un 'ant icamera, u n o studio, e un salotto, det­to dello Zodiaco perché sul soffitto a volta azzurra e rano di­pinti in oro i segni zodiacali. Il salotto era a r r eda to con un divano-letto. Da esso si accedeva a una «toilette» che, ha an­notato di l igentemente Navarra , «era muni ta soltanto di un lavabo, di un water, di un asciugamano e di u n a saponetta . Non altro». Mussolini avrebbe po tu to riposarvisi d o p o la co­lazione, che consumava a volte su un tavolo ovale, nello stu­dio. Ma n o n lo fece mai , pe r ché odiava la penniche l la , da lui considera ta u n a de te r io re ab i tudine italiana, e r o m a n a in particolare. Molto r a ramen te aveva por ta to qualche don­na nel salotto dello Zodiaco perché , s'è visto, preferiva esau­rire la sua quot idiana impresa amorosa sul posto di lavoro. Ma con Clare t ta le sue ab i tud in i c amb ia rono , la g iovane d o n n a t rascor reva ore n e l l ' a p p a r t a m e n t o Cybo, leggiuc­chiando e p rovando qualche nuova vestaglia, in attesa della visita di Ben, che amava farsi aspettare, ed era sovente fret­toloso. Tuttavia dal 1936 fino al 1939 a l m e n o - Mussolini aveva 54 anni , nel 1936, t renta più di Claretta - il legame fu appassionato e tenero , anche se n o n pe r questo il Duce in­t e r r u p p e i suoi rappor t i con altre occasionali visitatrici.

Mai egli trascorse u n a notte con Claretta a Palazzo Vene­zia. S ' incontravano, t ra molti e quasi comici sotterfugi, an­che a Riccione, quand'egl i vi si recava con la famiglia - i Pe­tacci si trasferivano pe r l'occasione in un albergo di Rimini -o al Terminillo, d u r a n t e qualche vacanza sciatoria. Forse in qualche m o m é n t o la Petacci ebbe l 'ambizione di essere l'i­spiratrice o la consigliera politica, oltre che l 'amante di Mus­solini. N o n vi riuscì mai , o dovet te limitarsi a queru l i am­monimen t i sulla pochezza e sull'infido compor t amen to dei suoi collaboratori (come Rachele, del resto).

Così, nel 1936, Mussolini aveva tutto ciò che u n o statista «cesareo» potesse sogna re : l ' onn ipo tenza , u n a popola r i t à quasi senza ombre , l ' Impero , la sua favorita. E n o n manca­vano che nove anni a piazzale Loreto.

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P O S C R I T T O

Se la conquista dell 'Abissinia fu p e r Mussolini il m o m e n t o più alto, esso fu anche l'inizio del progressivo distacco da lui e dal fascismo del le giovani generaz ion i che p iù a r d e n t e ­mente avevano voluto quell ' impresa e vi avevano partecipa­to. Uno dei d u e autori di questo libro ha vissuto questo p ro ­cesso: gli sia consentito ricapitolarlo in p r ima persona come testimonianza diretta.

Noi giovani (di allora) n o n avevamo aderito al fascismo. Ci eravamo nati den t ro , e questo ci aveva esentato dalle scel­te. In tutte le nostre case c 'erano dei vecchi che r impiange­vano e ci magnificavano l'Italia liberale dei «notabili», il suo r igore amministrativo, la sua corret ta finanza, la lira che fa­ceva aggio sull 'oro eccetera. Ma e rano vecchi, vecchio era il loro l inguaggio, e il mitico r egno di Sa turno che ci descrive­vano somigliava poco al r i cordo che noi avevamo dei suoi ultimi giorni: quelli del l ' immediato dopogue r r a . Per noi la l iberaldemocrazia era l ' impotenza, il d isordine, le divisioni faziose e, da u l t imo, la d iserz ione e la resa. Forse ques to sommar io giudizio d i c o n d a n n a n o n e ra del tu t to disinte­ressato: esso ci consentiva di abbandonarci con la coscienza t ranqui l la al fascismo, ch ' e ra in fondo la soluzione più co­m o d a . Il fascismo era pe r il m o m e n t o il gregar ismo caro a tutti i giovani, la divisa militare, le aduna te , il coro, lo sport, la tendopol i al m a r e e in montagna ; e pe r l ' immediato do­mani , u n a carr iera sicura, o a lmeno la rgamente agevolata. L'entusiasmo è facile q u a n d o procura anche degli utili.

Ma verso la metà degli anni Trenta le nostre prospett ive cominciarono a cambiare. Ci t rovavamo inseriti in un regi-

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me che non ci lasciava molti spazi, o ne lasciava solo a colo­ro che n o n gli ponevano e non si ponevano d o m a n d e . L'u­nico m o d o di salirvi era, in teoria, quello di «credere, obbe­dire, combattere», come ingiungevano i «fogli d 'ordine» del par t i to s taraciano; in prat ica, di met ters i al seguito e al ri­morchio della «vecchia guardia» che faceva quadra to intor­no al potere . I più se ne contentarono e si misero - qualcu­no anche in perfetta b u o n a fede - in gara di zelo: ne venne­ro fuori delle «carriere» anche r a p i d e , tu t te basate sulla scrupolosa osservanza dei cerimoniali, sulle bat tute di tacchi e di tal loni, sulla re tor ica marzia le , sul l ' imitazione, quasi sempre caricaturale e ridicola, del G r a n d e Capo. E fu que­sto a da re al fascismo quei tratti buffoneschi, che h a n n o fat­to la gioia dei suoi pos tumi (e facili) denigrator i .

I migliori n a t u r a l m e n t e n o n po tevano con t en t a r s ene . Anch'essi volevano fare «carriera», ma g u a d a g n a n d o s e l a ones tamente , cioè po r t ando un serio contr ibuto a un Regi­me che ne aveva u r g e n t e b isogno, sop ra t tu t to in c a m p o ideologico e culturale. Qui ci sembrava che ci fosse tut to da fare p e r c h é Mussolini e i suoi d iadochi n o n avevano fatto nulla. Bottai e ra l 'unico che aveva avuto un vago sentore di questo vuoto e aveva cercato di compensar lo coi lìttoriali del­la cul tura , che avrebbero dovuto d iventare la palestra del-Vintellighenzia fascista. Ma non lo furono. I m m e d i a t a m e n t e essi caddero sotto le grinfie della burocrazia di par t i to , che ridusse anche quelli a una gara di zelo all ' insegna della più piatta ortodossia. La nostra reazione fu il rifiuto di parteci­parvi.

Questa diserzione non era affatto antifascismo. Credeva­mo ancora in Mussolini, ed eravamo convinti che solo in suo n o m e s i po teva compie re u n a «rivoluzione cul turale» che desse un contenuto a un Regime che in realtà non ne aveva nessuno. Nel suo spregiudicato pragmat ismo, il Duce si era sempre mostrato allergico a impegni ideologici che potesse­ro in qualche m o d o vincolare la sua azione, lasciando ineva­sa la domanda : «che cosa è il fascismo?». A questa d o m a n d a

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volevamo rispondere noi, ci sembrava che questo fosse il no­stro compito . E qui cominciò un giuoco in cui ancor oggi è difficile dire come si distribuissero buona e malafede. Qual­cuno di noi pensava ve ramen te che il fascismo avesse biso­gno di u n a «seconda ondata» rivoluzionaria che lo liberasse da tutto il sistema clientelare di una vecchia guardia già im­pigrita nei suoi privilegi mandar ina l i , e che Mussolini p ro ­pr io questo da noi si aspettasse. Altri, più scettici e oppor tu ­nisti, pensavano di servirsi di Mussolini pe r cont rabbanda­re , a t t r ibuendole a lui, le p r o p r i e idee, come i «moderati» del Risorgimento si e rano serviti di Pio IX pe r contrabban­dare sotto u n a insospettabile franchigia le idee liberali.

Nella p r ima metà degli anni Trenta era stato tutto un f io­rire di piccoli giornali che rompevano la p lumbea e solenne a tmosfera del r e g i m e e v ' immet t evano un cer to fervore . Longanesi con LItaliano e Maccari col Selvaggio e rano stati i pr imi , grazie anche al loro brevetto di fascisti an temarcia e alle immuni tà che gliene derivavano, a r o m p e r e il coro del conformismo di Regime. Ma, un po ' pe r vocazione di arti­sti, un po ' p e r p rudenza , essi man tenevano il loro discorso sul p iano della cul tura e del costume, che solo di riflesso in­vestiva quel lo politico. Essi p e r ò i n segna rono a tut t i noi a scrivere fra le r ighe , p e r al lusioni che sfuggivano alla oc­chiuta ma ottusa censura, a par la re a nuora perché suocera in tenda, e a colpire il Regime negli artisti, negli scrittori, ne­gli architet t i , negli urbanist i del Regime. Ebbero u n a fun­zione importantissima: in n o m e della tradizione, essi difen­devano l 'Italia prefascista r iva lu t andone q u a n t o si poteva rivalutare.

Diverso fu l 'a t teggiamento di chi invece vedeva o voleva vedere nel fascismo non già il r i torno al passato, ma l 'aper­tura a un m o n d o nuovo, e cioè tut tora sperava di fare di es­so u n a vera rivoluzione. Ad assumere questa posizione, e a tenerla con coerenza e r igore, furono soprat tut to Cantiere e L'Universale di Berto Ricci, un giovane fiorentino, professo­re di matemat ica , a p p r o d a t o al fascismo da un ' e spe r ienza

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anarchica, forse la coscienza più alta della nostra generazio­ne . Ricci poneva l 'accento soprat tut to , anzi quasi esclusiva­mente , sui valori morali e spirituali: pe r lui il fascismo dove­va essere l ' incubatrice e la scuola di un italiano antico e nuo ­vo, anzi nuovo in quan to antico, del quale cercò di fornire egli stesso un modello che si avvicinava in sostanza a quello stoico. Sulla s p o n d a oppos ta , Cantiere met teva invece l'ac­cento sulle «strutture»: fu la p r ima pubblicazione, credo, d'i­spirazione «sociologica», e infatti g r an pa r t e dei suoi colla­borator i finirono poi in braccio al comunismo.

Dapprincipio Mussolini aveva dato segno di una certa at­tenzione alle polemiche che si scatenavano fra questi g rupp i e g ruppe t t i , e aveva anzi most ra to di compiacersene come di u n a r iprova della vivacità che il Regime sapeva infondere anche nel c a m p o del pens ie ro . Spesso in te rvenne p e r fer­m a r e la m a n o alla censura che trovava t r o p p o spinte certe prese di posizione, e a più r iprese ci ricevette pe r p rop inar ­ci elogi, sugger iment i , monit i . Da o g n u n o di questi imme­diati contatti , ch'egli sapeva c o n d u r r e da grandissimo atto­re , noi uscivamo n o n soltanto più che mai soggiogati dal suo carisma, ma anche più che mai convinti che il vero fascismo fosse quello nostro e che il Duce affidasse a noi il compito di realizzarlo anche cont ro la vecchia guard ia immobilistica e paga dei suoi onor i e privilegi. L'unica cosa che un po ' ci turbava era che, queste certezze, come le dava a noi, dell'U­niversale, Mussolini le dava, pon iamo, e con lo stesso calore di convinzione, a quelli di Cantiere, che dicevano l 'opposto di ciò che d icevamo noi . Ma solo in segui to ci r e n d e m m o conto che si trattava della sua spregiudicata tattica di sem­pre : i rret ire tutti nel suo giuoco, facendo credere a ciascuno che quel giuoco era il suo.

Nella c a m p a g n a di Abissinia, noi v e d e m m o molte cose. Anzitutto, anche i m e n o dannunzian i di noi, la «bella avven­tura» di cui avevamo senti to favoleggiare dai r educ i della g rande guer ra , di Fiume, della Marcia su Roma. Tutto som­mato, sotto le ba rda tu re «romane» e «imperiali» che il fasci-

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smo le aveva imposto, l'Italia era rimasta provinciale e asfìt­tica. L'Africa ci allettava coi suoi vasti orizzonti, coi suoi libe­ri spazi, nei quali i nostri polmoni avrebbero po tu to dilatar­si. Né il segretario federale né il capo-fabbricato e rano mai stati dei persecutor i ; ma dei grossi seccatori coi loro conti­nui richiami all 'osservanza dei regolament i e delle liturgie, sì. E l 'idea di sfuggire ai loro controlli, al l ' i rreggimentazio-ne delle «adunate» e al fastidio delle sagre littorie, ci estasia­va. Da quel che avevamo letto, tut to agiografico, di Dogali, di Adua, di Toselli e di Galliano, ci e ravamo fatta l 'idea che u n a gue r ra coloniale si prestasse, molto più di quelle euro­pee, all'iniziativa del singolo, all ' impresa eroica e solitaria di cui tutti, a vent 'anni , smaniavamo.

Su ques to e l emen to roman t i co , se ne innestava anche u n o politico e nazionalistico. Martel lat i dalla p r o p a g a n d a fascista, tutti avevamo finito pe r c rede re sul serio che, alla fine della g rande guer ra , l'Italia fosse stata defraudata della sua vittoria, e che l ' impresa d'Abissinia fosse la g rande occa­sione pe r p o r r e r iparo a questa ingiustizia e per p romuove­re il nostro Paese al livello delle Grandi Potenze imperiali. A quei tempi non capivamo, n o n potevamo capire che l'epoca deg l ' impe r i volgeva al t r a m o n t o . E ravamo r imast i a Ki­pling. E molti di noi - compreso chi scrive - pensavano per­sino alla possibilità di restare in Etiopia anche a gue r ra fini­ta, pe r costruirvi un 'a l t ra Italia, un'I tal ia di pionieri , libera da inceppi e condiz ionament i , real izzando magar i lì la pa­lingenesi fascista di cui sognavamo.

Ma la spinta più forte di tutte al nostro a r ruo lamento co­me volontari fu la g rande speranza di guadagnarci sul cam­po i galloni e i titoli alla «promozione». Di questi galloni e ti­toli la vecchia guardia aveva fatto il pilastro del suo potere e dei suoi monopol i . In nessun Regime come quello fascista, nas t r in i , medagl ie e mer i t i gue r re sch i e r a n o t an to valsi a creare una casta dir igente e a giustificarne i privilegi. Que­sto vizio del «reducismo» non era nuovo: anche l'Italia pre­fascista aveva avuto, a lmeno fino all'inizio del secolo, un no-

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tabilato quasi e redi ta r io , basato sulle «sante memorie» del Risorgimento. Ma il fascismo lo aveva porta to alle sue estre­me conseguenze corpora t ive : della supe rdeco ra t a vecchia guardia si poteva diventare i fàmuli, non i soci. E l'Abissinia ci offriva l'occasione di riscattarci da questa posizione subal­te rna . E infatti n o n era tan to l'Abissinia che volevamo, quanto la guer ra . Q u a n d o , nelle nostre guarnigioni disloca­te in Er i t rea in at tesa del g r a n g io rno , si sparse la notizia che il g ran g iorno n o n ci sarebbe stato pe rché Mussolini si e ra messo d 'accordo con Lavai e con H o a r e pe r u n a solu­zione pacifica del conflitto che ci dava gratis ciò che inten­devamo conquis tare con le armi , ci furono, tra noi giovani ufficiali, proposit i di ammut inamen to , e un colonnello p ro ­pose persino di creare il casus belli marc iando su Macallè.

N o n voglio nobil i tare t r o p p o queste impazienze, di cui fummo partecipi. Per molti, pe r i più, si trattava soltanto di «carriera». Ma per altri c'era qualcosa di meno meschino: la convinzione di essere finalmente i protagonist i di u n a nostra epopea e di po te r «cambiare le cose», anche se n o n sapeva­mo bene come e in che senso.

Come guer ra , la gue r ra ci deluse. Anche noialtri delle t rup­pe i n d i g e n e che ne s o p p o r t a m m o m a g g i o r m e n t e i l peso , avemmo poche occasioni di saziare le nostre baldanze. Sal­vo episodi isolati, r a r amen te avemmo occasione di met te re a prova il nostro coraggio, e solo nell 'ultima battaglia, quel­la risolutiva del lago Ascianghi, p o t e m m o vedere in faccia il nemico. Ma quello che più ci turbò, furono la fiera delle va­nità, le gare di retorica e la corsa ai p remi , alle decorazioni e agli scatti di g r ado di cui fummo testimoni. Tutti i gerar­chi e r a n o accorsi, pe r conservare il «posto» o p e r guada ­gnarsene u n o migliore. I più impor tan t i avevano ciascuno la p r o p r i a «corte»: faceva spicco quella di Ciano, in cui or­mai tutti riconoscevano il Delfino, e pe r il quale i cortigiani avevano coniato una strofa di sapore protosquadrista: «Vie­ni con noi, Toselli, / vieni con noi, Galliano, / noi siam la Di-

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sperata I di Galeazzo Ciano». Farinacci, non t rovando nemici contro cui lanciar bombe, le lanciava contro i pesci del lago Ascianghi: un giorno una gli scoppiò nella mano asportan­dogliela, e se ne fece compensare, senza arrossirne, con una medaglia d 'argento. Via via che un centro importante veni­va conquistato, si scatenava la corsa ad occuparvi posizioni impor t an t i , come quella di segretar io federale. Si v idero promozioni su campi su cui non si era svolta nessuna batta­glia. O g n u n o voleva passare alla Storia come il conquistato­re di qualcosa: Starace fece il diavolo a quat t ro pe r en t ra re pe r p r imo a Gondar. E Badoglio ebbe il suo daffare pe r te­ne re in freno iniziative spericolate e pe r di r imere gelosie e rivalità. Per la marcia su Addis Abeba, dopo l'ultima conclu­siva battaglia, si dovet tero cont ingentare i posti d ' imbarco sugli automezzi della colonna: volevano andarci tutti.

Anche i «quadri» e i comandi militari ci si r ivelarono di modestissima levatura. I migliori e rano quelli delle t ruppe indigene che, formatisi in colonia, e rano rimasti fedeli all'e­tica e al costume dell'esercito prefascista. Erano uomini di poca cu l tu ra e di p u n t e idee, ma di molto mest iere , e so­pra t tu t to di grande serietà e correttezza, che storcevano il naso allo spettacolo d'improvvisazione, avventurismo e esi­bizionismo che offrivano i loro colleghi metropolitani.

Su tutti, il servizio che meglio funzionò fu l ' Intendenza, alle prese con problemi difficilissimi. Essa doveva rifornire t r u p p e in cont inuo movimento che, sparpagl ia te su un fronte vastissimo, distavano spesso dalle basi cent inaia di chilometri senza strade. Nonostante la rapidità con cui Ba­doglio fece gettare delle massicciate t r as fo rmando in tere guarnigioni in cantieri e i soldati in stradini, il problema di raggiungere le forze combattenti penet ra te nell ' interno del­l'Abissinia sarebbe rimasto insolubile senza il concorso degli autisti civili. Dall'Italia ne erano giunti a migliaia, alcuni col p ropr io camion, ma i più col proposito di comprarsene uno sul posto a cambiali. Se in quella guerra ci fu un 'epopea, fu quella dei «padroncini» che coi loro automezzi facevano la

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spola fra t r u p p e combattent i e basi di r i fornimento bat ten­do notte e giorno, in colonna o da soli, senza scorta né mi­sure di sicurezza, impervie terre senza alcun tracciato. Mol­ti mor i rono in agguati o in fondo a precipizi. I superstiti pa­ga rono in un ba t t iba leno le cambiali fatte p e r c o m p r a r e l 'automezzo, ne compra rono altri, e quasi tutti r imasero in Abissinia anche d o p o la guer ra , anche d o p o i l r i t o rno del Negus, sposati con d o n n e indigene e incapaci di riabituarsi a l l 'Europa . I veri «coloniali» furono loro , an imat i da u n o spirito d ' impresa e lementare e rozzo, ma che documentava tutta l ' impazienza di una certa Italia «emergente» pe r i vin­coli amministrativi e i controlli burocratici che in pat r ia ir­retivano l 'economia corporativa fascista.

Ma furono anche i soli, e solo perché c'era assoluto biso­gno di loro, che po te rono sviluppare in p iena libertà la loro sete d'iniziativa. Dovunque l 'occupazione si stabiliva, la bu­rocrazia di Stato e di part i to riaffermava le sue prerogat ive, e il funzionario p rendeva il sopravvento sul pioniere. Tutto doveva essere regolato dall'alto, a puntiglioso ricalco del si­stema metropol i tano. Non era un'altra Italia che nasceva in Abissinia, ma la stessa Italia, coi suoi gerarchi, i suoi uggiosi rituali , la sua j u n g l a di regolament i con t radd i t to r i , le sue clientele, le sue fazioni. Il nostro sogno di un m o n d o nuovo fece presto a dissolversi. Subito dopo la presa di Addis Abe­ba, non des iderammo che di r ientrare in patria, convinti di poterci r ime t t e r e alla testa di un mov imen to di op in ione che, sia p u r e sempre all ' interno del fascismo, desse l'avvio a qualche svolta.

Ma n o n ne t r o v a m m o più gli s t rument i . All'inizio della guerra, molti dei giornaletti nei quali fin allora si e ra sfoga­ta la nos t ra impazienza d ' idee nuove avevano sospeso le pubblicazioni pe rché quasi tutti i col laboratori e r a n o stati richiamati alle armi o si e rano arruolati volontari. Altri era­no stati chiusi d ' au tor i t à pe rché , aveva de t to il Minculpop (certamente su o rd ine di Mussolini), era t e m p o di fatti, e i fatti escludevano le polemiche e le discussioni. E questa di-

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retriva r imase anche a impresa conclusa. Non si potè nem­meno fare il tentativo d ' i ndu r r e Mussolini a cambiare idea. La voce dei giovani, cui sino a d u e ann i p r i m a egli si e ra mostrato abbastanza sensibile, n o n raggiungeva più il Duce che i successi nazionali e internazionali stavano comincian­do a t ras formare nel m o n u m e n t o di se stesso. Q u a n d o mi capitò di riavvicinarlo insieme ad altri ex-ufficiali delle t rup­pe indigene, non lo riconobbi più. Era in posa come mai lo era stato nel colloquio diretto, e forse non sapeva n e m m e n o chi gli stava di fronte.

Fu allora che la fronda cominciò a diventare divorzio. Fi­no a quel m o m e n t o ci e r a v a m o cons idera t i , m a l g r a d o lo scontento , fascisti. P robab i lmente , come ho de t to , pe r co­modi tà più che p e r convinzione. Ma ora, p e r chi aveva un briciolo di rispetto pe r se stesso e voleva conservarlo, la co­modi tà diventava scomoda. Poco d o p o i l nos t ro r i en t ro in patria, Mussolini decise l ' intervento in Spagna. Vedevamo il Paese lanciato in avven tu re a cui, d o p o l ' esper ienza fatta sotto le a rmi , lo sapevamo i m p r e p a r a t o . Lo svuo tamen to del Regime, cioè la sua r iduzione a p u r a osservanza di forme esteriori - divise, adunate , marce, veglie, formule di rito - si faceva sempre più evidente. E ora veniva a mancare anche l 'ultima speranza che ci aveva fin lì sorre t to : quella nel ge­nio di Mussolini. Ci r e n d e v a m o conto che quindici anni di po t e r e assoluto gli avevano ot tuso quel fiuto e intui to che dappr incipio e rano stati la sua infallibile bussola, e che l 'uo­mo aveva perso il contat to con la realtà.

Ma dove anda re , con chi, e a far che? Gli Alicata, gl ' In-grao , e parecchi altri che, a t t raverso (credo) l ' idealismo di Ugo Spirito e la logica del corporativismo, e rano approda t i al marxismo, t rovarono subito il loro rifugio, anche se clan­dest ino: il part i to comunista, nelle cui catacombe scompar­vero. Per gli altri, il salto del fosso era più difficile. Chi scri­ve ebbe contat t i , a Parigi, con Carlo Rosselli, grazie a u n a let tera di p resen taz ione di suo fratello Nello. Rosselli, che fu ucciso poco dopo (e questa fu pe r me un'al tra spinta, ab-

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bas tanza decisiva, alla r o t t u r a col Regime) , e r a un u o m o es t remamente vivo e sensibile, che capì subito il p rob lema e l ' importanza, pe r l'antifascismo, di t rovare un aggancio con la generazione del secondo fascismo, in vena di diserzione. Ma i fuorusciti a cui mi presentò mi delusero p ro fondamen­te: e r ano fantasmi del passato, avulsi dalla realtà italiana e incapaci di c o m p r e n d e r e la crisi del Regime, che anzi molti di loro r i tenevano definitivamente affermato.

Q u a n d o r ientrai da Parigi, fui convocato da Bocchini. Sa­peva tu t to dei miei contat t i di Parigi: e v i d e n t e m e n t e fra i fuorusciti c 'era chi lo informava. Ma d o p o u n a pa t e rna l e , stracciò il r appo r to . Le conclusioni che ne t r aemmo, quan­do racconta i la cosa agli amici (Longanes i , P a n n u n z i o , Brancati, Benedett i , Piovene, De Feo), fu che c'era più da fi­dars i della tol leranza del Reg ime che del l ' intel l igenza dei suoi nemici , e che il nos t ro antifascismo n o n aveva e n o n doveva aver nulla a che fare con quello, diciamo così, stori­co, nel quale solo i comunisti mostravano di capire il trava­glio della nos t ra generaz ione e di s ape rne approf i t ta re ac­cogl iendone a braccia aper te i transfughi.

Da allora il nos t ro a t t egg iamento fu condiz iona to dalla convinzione che u n a fine t raumatica del fascismo, r ipor tan­do a galla i rot tami dell'antifascismo, n o n avrebbe procura­to nulla di b u o n o né a noi né al Paese. Forse ancora u n a vol­ta questa convinzione, che ci esentava da u n a pericolosa mi­lizia attiva, ce la facilitava anche il desiderio di salvare la no­stra incolumità e i nostri comodi . Ma era ragionevole. E fu essa a det tare , d'allora in poi, il nostro compor tamen to , che fu esa t t amente l 'oppos to di quel lo t enu to fin lì. Invece di d a r e un con t r ibu to a l fascismo, come f in al lora avevamo tenta to , t i r ammo a svuotar lo p r o p a g a n d o in to rno ad esso l ' incredulità e il disfattismo.

In questa azione di sotterfugio, por ta ta avanti coi subdo­li mezzi del l inguaggio allusivo, dell ' ironia, delle rievocazio­ni nosta lgiche del passato , t r o v a m m o mol te p ro tez ion i e compiacenze anche fra i più altolocati gerarchi , convinti an-

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ch'essi che il Reg ime si stava m u m m i f i c a n d o e c o m u n q u e n o n sarebbe sopravvissuto a Mussolini. Bottai fu di questi . Ma lo fu anche Galeazzo Ciano , che p u r e del Reg ime e ra considerato e si considerava il Delfino: un po ' forse pe r leg­gerezza e pe r il desiderio snobbistico di atteggiarsi a pa t ro­no della intellighenzia p iù spregiudica ta ed e terodossa , ma un po ' forse anche p e r accaparrars i consensi che gli facili­tassero la successione.

Il maggiore organo di questa fronda fu il settimanale Om­nibus di Longanesi , che det tò il model lo di tutti i successivi rotocalchi, ma senza che mai più nessuno ne abbia raggiun­to la perfezione. Grandissimo talent scout e suggeri tore, e in­superabile maestro di quel t ipo di critica sul filo dell 'eresia, Longanesi raccolse in to rno a sé, fra giovani e vecchi, il me­glio de l l ' ingegno i tal iano in tut t i i campi , e pe r quasi d u e anni resistette agli assalti della censura. Era un distillato di veleni prote t to da u n a tale a rma tu ra di gusto e d'intelligen­za che nessuno osava sconfessarlo aper tamente . Alla fine fu Mussolini che ne o rd inò la chiusura.

Orma i era chiaro che Vintellighenzia voltava le spalle al fa­scismo, cui n o n res tavano che i somari zelanti. Coloro che, p u r su posizioni di dissenso, n o n in tendevano combatter lo p e r scrupolo di lealtà, si t rassero in d i spar te e si ch iusero nel silenzio. Fu il caso di Ricci, tornato a fare il professore di matematica. Ecco il b r ano di u n a sua lettera (è u n a testimo­nianza che gli debbo) a seguito di un colloquio nel quale lo avevo inut i lmente esortato a schierarsi con noi: «Questo so­lo ti chiedo: di po te r cont inuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di s t imart i come amico e alleato. Se imbocchi la s trada della dissidenza, devi batterla sino in fon­do , sino alla galera o all'esilio...». N o n la battei , pe r allora, sino in fondo. Ma rividi Ricci ancora u n a volta: a Napol i , q u a n d o s ' imbarcava volontar io p e r la Libia, agl'inizi della g u e r r a mond ia l e . Gli chiesi p e r c h é lo faceva, lasciando la moglie e un figlio, ora che n e m m e n o lui ci credeva più. Mi rispose: «Nella vita di un u o m o c'è posto pe r u n a conversio-

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ne, e io l 'ho già avuta. Ora devo affondare con la barca». E affondò: di lui r i m a n e u n a croce nel dese r to , e nella co­scienza di chi gli fu amico un r icordo inquie tante . Ci furo­no, nella nos t ra generaz ione , parecchi altri Ricci, anche se n o n della sua l eva tura inte l le t tuale . Ce ne furono anche , mescolati a tanti avventurieri e canaglie nella Repubblica di Salò.

Chi scrive è orgoglioso di a p p a r t e n e r e alla generaz ione che ha da to di questi uomini . È stata l 'ul t ima a d a r e degli uomini .

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CRONOLOGIA

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1919 - 23 marzo. Fondazione del primo fascio di combattimento a Milano.

1919 - 16 aprile. La sede dell'«Avanti!» a Milano è devastata dai fascisti.

1919 - 24 aprile. Orlando e Sonnino abbandonano la conferenza di Parigi.

1919 - 28 aprile. Approvazione dello Statuto della Società delle Nazioni.

1919 - 12 settembre. D'Annunzio a Fiume.

1919 - 16 novembre. Elezioni: 156 deputati socialisti e 100 popo­

lari entrano alla Camera.

1920 - Giugno. Giolitti al governo.

1920 - 9 settembre. Reggenza del Quarnaro.

1920 - 8-12 novembre. Convegno di Rapallo.

1920 - 21 novembre. A Bologna eccidio di palazzo Accursio.

1920 - 29 dicembre. D'Annunzio abbandona la reggenza di Fiume.

1921 - 15 maggio. Elezioni: entrano alla Camera 35 deputati fa­

scisti e 16 comunisti.

1921 - Giugno. Il governo Bonomi subentra a Giolitti.

1921 - 3 agosto. Patto di pacificazione tra fascisti e socialisti.

1921 - 12 novembre. Il movimento fascista si trasforma in partito.

1922 - 22 gennaio. Muore Benedetto XV.

1922 - 24-25 gennaio. Convegno sindacale dei fascisti a Bologna.

1922 - 6 febbraio. È eletto papa il Cardinale Ratti (Pio XI).

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1922 - 25 febbraio. Primo Gabinetto Facta.

1922 - 31 luglio. Sciopero generale di protesta contro le violenze fasciste.

1922 - 3 agosto. Occupazione di palazzo Marino a Milano da par­te dei fascisti.

1922 - 24 ottobre. Adunata fascista a Napoli.

1922 - 27 ottobre. Facta propone la proclamazione dello stato d'assedio, che viene però respinta dal Re il giorno dopo.

1922 - 28 ottobre. Marcia su Roma.

1922 - 29 ottobre. A Mussolini viene affidato l'incarico di formare il nuovo governo.

1922 - 25 e 29 novembre. Camera e Senato accordano i pieni po­teri a Mussolini.

1922 - 15 dicembre. Si costituisce il Gran Consiglio del fascismo.

1923 - 10 luglio. Don Sturzo rassegna le dimissioni da segretario del partito popolare.

1923 - 27 agosto. Viene trucidata in Grecia la missione italiana di armistizio.

1923 - 31 agosto. Occupazione di Corfù da parte delle truppe ita­liane.

1924 - 5 aprile. Elezioni con il nuovo sistema maggioritario. Vin­

ce il «listone».

1924 - 10 giugno. Assassinio di Giacomo Matteotti.

1924 - 16 giugno. Federzoni nuovo Ministro dell'Interno.

1924 - 27 giugno. L'opposizione parlamentare si ritira sull'Aventino.

1924 - 28 ottobre. La milizia giura fedeltà al Re.

1924 - 30 novembre. L'Aventino pone la «questione morale» al re­gime fascista.

1925 - 3 gennaio. Dichiarazione di Mussolini alla Camera: «Assu­mo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica, di tutto quanto è avvenuto».

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1925 - 12 febbraio. Roberto Farinacci eletto segretario del Partito Nazionale Fascista.

1925 - 2 maggio. Il generale Pietro Badoglio nominato Capo di stato maggiore.

1925 - 21 luglio. Giovanni Amendola è aggredito e percosso da un gruppo di fascisti a Montecatini.

1925 - 2 ottobre. Patto di Palazzo Vidoni.

1925 - 5-16 ottobre. Conferenza di Locamo.

1925 - 4 novembre. Arrestati il socialista Tito Zaniboni e il gene­rale Luigi Capello, sotto l'accusa di aver organizzato un at­tentato a Mussolini.

1925 - 24 dicembre. Approvazione delle leggi «fascistissime».

1926 - 16 gennaio. I deputati del partito popolare, abbandonata l'astensione «aventiniana», si ripresentano alla Camera, riunita per commemorare la regina Margherita, ma ne vengono espulsi con violenza.

1926 - 31 gennaio. Entra in vigore la legge sui fuorusciti politici, che prevede la perdita della cittadinanza e la confìsca dei beni per chi svolga attività antifascista all'estero.

1926 - 30 marzo. Roberto Farinacci si dimette dalla Segreteria del partito. Il giorno successivo la carica è assunta da Augusto Turati.

1926 - 3 aprile. Istituita l'Opera Nazionale Balilla.

1926 - 7 aprile. Violet Gibson spara contro Mussolini, che rimane leggermente ferito al naso.

1926 - 2 luglio. Istituito il ministero delle Corporazioni.

1926 - 18 agosto. Discorso di Pesaro.

1926 - 11 settembre. Mussolini sfugge a un attentato dell'anarchi­co Gino Lucetti.

1926 - 2 ottobre. Il Consiglio dei ministri approva un disegno di legge che prevede la pena di morte per gli attentati contro il Re, il reggente, la regina, il principe ereditario e il Capo del governo.

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1926 - 31 ottobre. Attentato contro Mussolini a Bologna: gli viene sparato contro un colpo di rivoltella, andato a vuoto. Il re­sponsabile è individuato in Anteo Zamboni, che viene linciato.

1926 - 5 novembre. Il Consiglio dei ministri delibera lo sciogli­mento dei partiti d'opposizione e istituisce il confino di po­lizia per gli avversari politici.

1926 - 25 novembre. Istituzione del Tribunale speciale. Introdot­

ta la pena di morte per le attività contrarie al Regime.

1927 - 13 febbraio. Istituita l'imposta sui celibi.

1927 - 21 aprile - Il Gran Consiglio approva la Carta del Lavoro.

1927 - 26 maggio - «Discorso dell'Ascensione». 1927 - 9-15 settembre. Processo contro Ferruccio Parri e Carlo

Rosselli, accusati d'aver favorito la fuga dall'Italia di Fi­lippo Turati.

1927 - 9 ottobre. Mussolini inaugura a Roma la prima mostra del grano.

1928 - 16 marzo. La Camera approva la nuova legge elettorale.

1928 - 12 aprile. Attentato alla Fiera campionaria di Milano: poco prima dell'arrivo del corteo reale per l'inaugurazione del­la rassegna, esplode una bomba a orologeria. Venti perso­ne perdono la vita.

1928 - 4 giugno. Sentenza del processo contro il comitato centra­le del partito comunista italiano: Gramsci, Roveda, Scocci-marro e Terracini condannati a lunghe pene detentive.

1928 - 4 agosto. Firmato ad Addis Abeba un trattato di amicizia tra l'Italia e l'Etiopia.

1928-14 ottobre. Premiati a Roma i vincitori della «battaglia del grano».

1928 - 24 dicembre. Promulgazione della legge per la bonifica in­

tegrale.

1929 - 11 febbraio. Firma dei Patti Lateranensi.

1929 - 24 marzo. Plebiscito per il Regime fascista.

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1929 - 25 luglio. Pio XI esce dal Vaticano, ponendo fine alla clau­sura dei pontefici, e benedice la folla in piazza San Pietro.

1929 - 27 luglio. Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti fug­gono in motoscafo dall'isola di Lipari, dove si trovavano confinati, e raggiungono la Francia.

1929 - 12 settembre. Dino Grandi assume la carica di ministro de­gli Esteri.

1929 - 24 ottobre. «Giovedì nero» alla Borsa di New York.

1929 - 5 dicembre. Vittorio Emanuele III e la regina Elena si re­cano in visita da Pio XI.

1930 - 24 aprile. Matrimonio tra Edda Mussolini e il conte Ga­leazzo Ciano.

1930 - 11 luglio. Bassanesi e Dolci, appartenenti al movimento «Giustizia e Libertà» e rifugiati all'estero, sorvolano Mila­no e lanciano sulla città manifestini di propaganda contro il Regime.

1930 - 14 settembre. Elezioni in Germania: grande avanzata del partito nazional-socialista, che passa da 12 a 107 seggi.

1930 - 24 settembre. Giovanni Giuriati eletto segretario del parti­to, in sostituzione del dimissionario Augusto Turati.

1930 - 17 dicembre. Da Orbetello parte per il Brasile la prima crociera aerea atlantica: una formazione di 12 idrovolanti al comando di Italo Balbo.

1931-15 maggio. Enciclica Quadragesimo anno.

1931 - 29-30 maggio. Ordinato lo scioglimento di tutte le orga­nizzazioni giovanili che non facciano capo al Partito Nazio­nale Fascista o all'Opera Nazionale Balilla.

1931 - 29 giugno. Enciclica Non abbiamo bisogno.

1931 - 2 settembre. Accordo tra il governo italiano e la Santa Se­de per l'Azione cattolica.

1931 - 3 ottobre. Lo scrittore A.L. De Bosis, partito dalla Francia in aeroplano, sorvola Roma lanciando manifestini antifascisti.

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1931 - 7 dicembre. Achille Starace sostituisce Giovanni Giuriati alla Segreteria del partito.

1931 - 21 dicembre. Muore Arnaldo Mussolini.

1932 - 20 luglio. Dino Grandi destituito dalla carica di ministro degli Esteri.

1932 - 31 luglio. Elezioni in Germania: il partito nazional-sociali­sta sfiora il 38 per cento dei suffragi e ottiene 230 seggi.

1932 - 30 agosto. Il nazional-socialista H. Gòring eletto Presiden­te del Reichstag.

1932 - 28 ottobre. A Roma, per l'anniversario del primo decen­nale, è inaugurata la Via dell'Impero (oggi Via dei Fori im­periali).

1932 -8 novembre. ED. Roosevelt eletto Presidente degli Stati Uniti.

1932 - 18 dicembre. Mussolini inaugura la città di Littoria (Latina).

1933 - 23 gennaio. Deliberata la creazione dell'Istituto per la ri­

costruzione industriale (IRI).

1933 - 30 gennaio. A. Hitler Cancelliere del Reich.

1933 - 27 febbraio. Incendio del Reichstag.

1933 - 24 marzo. Hitler ottiene dal Reichstag i pieni poteri.

1933 - 27 marzo. Il Giappone esce dalla Società delle Nazioni.

1933 - 7 giugno. Firmato a Roma il Patto a quattro. 1933 - 19 giugno. Il governo austriaco, presieduto da E. Dollfuss,

decreta lo scioglimento del partito nazional-socialista.

1933 - 1° luglio-12 agosto. Crociera aerea del Decennale, guidata da I. Balbo.

1933 - 19 agosto. Incontro Mussolini-Dollfuss a Riccione.

1933 - 19 ottobre. La Germania esce dalla Società delle Nazioni.

1933 - 30 ottobre. Celebrazione della prima «sagra della nuzialità».

1933 - 21 dicembre. Celebrazione della «Giornata della Madre e del Fanciullo».

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1934 - 13 marzo. Incontro Mussolini-Dollfuss a Roma.

1934 - 25 marzo. Plebiscito per il Regime fascista.

1934 - 14-15 giugno. Incontro Mussolini-Hitler a Venezia.

1934 - 29-30 giugno. «Notte dei lunghi coltelli»: sanguinosa epu­razione tra le SA del partito nazista.

1934 - 25 luglio. Tentativo di colpo di Stato in Austria, per opera dei nazisti austriaci: il Cancelliere Dollfuss viene assassi­nato.

1934 - 26 luglio. Quattro divisioni italiane inviate al Brennero.

1934 - 27 luglio. Il vicecancelliere tedesco Von Papen nominato ministro plenipotenziario del Reich a Vienna.

1934 - 30 luglio. Si costituisce a Vienna un ministero guidato da K. Schuschnigg.

1934 - 2 agosto. In seguito alla morte del maresciallo Hindenburg, Hitler assume anche la carica di Presidente del Reich.

1934 - 17 agosto. Luigi Longo e Pietro Nenni firmano a Parigi il patto d'unità d'azione tra il partito comunista d'Italia e il partito socialista italiano.

1934- 19 agosto. Plebiscito in Germania: sanzionato l'accentra­mento dei pieni poteri nella persona di Hitler, Fùhrer del­la nazione.

1934 - 18 settembre. EUnione Sovietica ammessa alla Società del­le Nazioni.

1934 - 9 ottobre. Il re di Jugoslavia Alessandro I, in visita in Fran­cia, è assassinato a Marsiglia da terroristi croati; anche il ministro degli Esteri francese L. Barthou perde la vita nel­l'attentato.

1934 - 16 novembre. Incontro Mussolini-Schuschnigg a Roma.

1934 - 5 dicembre. Incidente di Ual-Ual.

1934 - 15 dicembre. L'Etiopia si rivolge alla Società delle Nazioni per risolvere la controversia sorta con l'Italia.

1935 - 7 gennaio. Firmato a Roma l'accordo Mussolini-Laval.

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1935 - 13 gennaio. Plebiscito nella Saar: il 90 per cento dei votan­ti si dichiara favorevole al ritorno della regione alla Ger­mania.

1935 - 23 febbraio. Parte da Messina il primo contingente milita­re italiano diretto in Africa Orientale.

1935 - 1 ° marzo. Il territorio della Saar ritorna sotto la sovranità della Germania.

1935 - 7 marzo. Il generale Rodolfo Graziani nominato governa­tore della Somalia.

1935 - 16 marzo. Ripristinato il servizio militare obbligatorio in Germania.

1935 - 23 marzo. Il generale Emilio De Bono nominato coman­dante delle truppe italiane in Africa Orientale.

1935 - 11-14 aprile. Conferenza di Stresa.

1935 - 19 giugno. L'Etiopia chiede alla Società delle Nazioni l'in­vio di osservatori neutrali alle sue frontiere.

1935 - 24-25 giugno. Incontri Mussolini-Eden a Roma.

1935 - 6 luglio. Primo «sabato fascista».

1935 - 15 settembre. Leggi razziali di Norimberga.

1935 - 28 settembre. Hailé Selassié ordina la mobilitazione dell'e­sercito.

1935 - 3 ottobre. Inizio delle operazioni militari italiane contro l'Etiopia.

1935 - 5 ottobre. Le truppe italiane conquistano il forte di Adi-grat.

1935 - 6 ottobre. Conquista di Adua. Il generale R. Graziani no­minato comandante del Corpo di spedizione in Somalia.

1935 - 10-11 ottobre. L'Assemblea della Società delle Nazioni de­cide di applicare sanzioni economiche e finanziarie contro l'Italia.

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1935 - 15 ottobre. Le truppe italiane occupano la città santa di Axum.

1935 - 28 ottobre. Inaugurazione di Pontinia.

1935 - 29 ottobre. Per fronteggiare le «inique sanzioni», decise re­strizioni a molti generi di consumo.

1935 - 8 novembre. Le truppe italiane entrano nella città di Ma­callè.

1935 - 16 novembre. Il generale E. De Bono nominato marescial­lo d'Italia è richiamato in patria. Il comando delle opera­zioni militari in Etiopia affidato al maresciallo Pietro Ba­doglio.

1935 - 18 novembre. Entrano in vigore le sanzioni economiche contro l'Italia.

1935 - 7-8 dicembre. Colloqui Hoare-Laval.

1935 - 18 dicembre. «Giornata della fede», dedicata all'offerta al­la patria degli anelli nuziali. La regina Elena offre il pro­prio anello e quello del Re.

1936 - 20 gennaio. Le truppe italiane conquistano Neghelli.

1936 - 20-24 gennaio. Prima battaglia del Tembien.

1936 - 10-15 febbraio. Battaglia dell'Endertà.

1936 - 27-29 febbraio. Seconda battaglia del Tembien.

1936 - 28 febbraio. Conquista del massiccio dell'Amba Alagi.

1936 - 29 febbraio-2 marzo. Battaglia dello Scirè.

1936 - 7 marzo. La Renania occupata dalle truppe tedesche.

1936 - 31 marzo-1 ° aprile. Battaglia del Lago Ascianghi.

1936 - 15-25 aprile. Offensiva dell'Ogaden.

1936 - 2 maggio. Hailé Selassié lascia l'Etiopia.

1936 - 5 maggio. Le truppe italiane entrano in Addis Abeba.

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1936 - 9 maggio. Proclamazione dell'Impero. Vittorio Emanuele III assume il titolo di imperatore d'Etiopia.

1936 - 9 giugno. Galeazzo Ciano nominato ministro degli Esteri.

1936 - 15 giugno. La Società delle Nazioni decreta la revoca delle sanzioni contro l'Italia.

1936 - 30 giugno. Discorso di Hailé Selassié alla Società delle Na­zioni.